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mercoledì 25 gennaio 2017

Recensione: SE QUESTO E' UN UOMO di Primo Levi



Recensire libri che raccontano in modo diretto esperienze inumane come quella narrata da Primo Levi in "Se questo è un uomo", non è mai semplice per me, perchè questo tipo di letture mi coinvolge sempre tanto a livello emotivo.

Se questo è un uomo, a mio modestissimo avviso, fa parte di quei libri che vanno letti, perchè leggerlo vuol dire fare in modo che la voce di queste persone, miracolosamente sopravvissute alla devastante esperienza dei campi di concentramento, continui a rimbombare nelle orecchie di tutti noi e delle generazioni future, affinchè il ricordo di quello che è stato non vada mai dimenticato.

"Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui."


SE QUESTO E' UN UOMO
di Primo Levi



Ed. Einaudi
272 pp
10.50 euro
2005
Primo Levi giunge nel campo di lavoro (Arbeitslager) di Buna-Monowitz (Auschwitz III) nel febbraio 1944 e ne uscirà nel gennaio dell'anno dopo, in seguito all'arrivo dell'Armata Russa.
Reduce da Auschwitz, pubblicò "Se questo è un uomo" nel 1947.

La testimonianza che giunge a noi da queste pagine è sconvolgente perchè trasporta il lettore con la mente nelll'inferno dei Lager.

Primo ci racconta lo sgomento iniziale provato, insieme agli altri italiani compagni di sventura, il senso indefinito di rassegnazione e di paura di fronte alla consapevolezza di essere finiti in un luogo dal quale, quasi sicuramente, non sarebbero usciti.
Non vivi, almeno.
E man mano che passano le ore, i giorni, le settimane, si fa spazio l'agghiacciante pensiero che... lì dentro, al di qua del filo spinato, ogni Häftling (prigioniero) è già morto dentro, nell'animo; nonostante tutto, egli deve continuare a "vivere in questo dramma pazzo", in questo macabro teatro in cui degli uomini hanno deciso di vestire i panni di carnefici ed oppressori violenti e folli e di rendere i propri simili come delle bestie, di annullarne ogni umanità.

Al deportato nel Lager veniva tolto tutto quanto possedeva: nome, ricordi, lingua, oggetti personali, abiti, capelli...
Cosa ne restava? Un involucro vuoto, un ammasso di sofferenza ambulante, con le spalle ricurve, gli occhi spenti, la faccia scarnificata, le gambe e le braccia secche come bastoni.


"Häftling: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro."


" Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.".

Lavoro, fatica, percosse, freddo, paura, solitudine, fame: questo è il pane quotidiano dei deportati, ciò che li affligge durante le ore del giorno ma anche della notte, sottoforma di incubi o di insonnia.

Nel Lager, ci dice Levi, esisono sostanzialmente due categorie di esseri umani: i sommersi e i salvati, perchè la lotta per la sopravvivenza è senza remissione in quanto ognuno è "disperatamente ferocemente solo". Avviene uno spietato processo di selezione naturale, in una situazione tristemente straordinaria come quella del campo di concentramento, dove i salvati sono coloro che ce la faranno, che riescono a sopravvivere, e i sommersi - la maggior parte - coloro che soccombono e che, negli anni, quando l'Autore sarà al sicuro nella propria casa, continueranno a popolare i suoi dolorosi ricordi.

Perchè da Auschwitz, in un certo senso, non si esce più, perché il ricordo di quei mesi "mi percuote nei sogni", scrive Primo, che conscio della immane tragicità di quanto vissuto, nei mesi successivi alla liberazione sentirà il legittimo ed urgente bisogno di raccontare cosa ai tedeschi è venuto in mente di architettare a danno di milioni di persone.

Raccontare non solo per far sapere, per render noto al mondo a quale livello di ferocia è possibile giungere, ma anche per provare a liberarsi interiormente di quest'incubo.

Si legge questo scritto autobiografico con un senso di profonda tristezza e orrore; tristezza per le povere vittime di tanta malvagità e lucida follia - che siano vittime "salvate" o "sommerse" -, orrore per coloro che questo genocidio lo hanno organizzato e attuato.

Il Lager è il luogo della negazione, che annulla l'umanità e la dignità umana, non solo nelle vittime ma anche nei carnefici.

Ciò che colpisce dell'analisi lucida, asciutta, essenziale tramandataci da Levi è apprendere come lui (e, attraverso le sue parole, i deportati in generale) fosse convinto che sarebbe morto lì, in quelle baracche al freddo, o lavorando duramente fuori, a qualsiasi temperatura, stremato dalla debolezza, dalla fame, dal freddo.

"...ma per noi, ore, giorni e mesi si riversavano torpidi dal futuro nel passato, sempre troppo lenti, materia vile e superflua di cui cercavamo di disfarci al più presto. Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili, il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata".

Ogni giornata poteva essere vissuta solo pensando all'oggi, il che significava stringere i denti e cercare di incassare meno botte possibili, di garantirsi la quotidiana razione di zuppa e pane, di non farsi rubare la gamella o il cucchiaio o (peggio ancora) le scarpe; di cercare di arrivare a domani, al giorno successivo, e a quello successivo ancora.

E Primo sa che, se è sopravvissuto, è (anche) grazie a una serie di coincidenze fortunate e a persone che l'hanno preso in simpatia e l'hanno aiutato; ad es., la sua laurea in Chimica ha avuto un peso nel determinare il suo destino, così come l'aver preso la scarlattina verso la fine della prigionia; oppure persone come Alberto* e Lorenzo**, che hanno contribuito a dargli un minimo di sollievo; in particolare, Lorenzo è stato per Primo una figura amica, un grande aiuto per lui, perchè con la sua umanità pura e incontaminata ha fatto sì che Primo non dimenticasse di essere egli stesso un uomo.

E' un libro che si divora, per il linguaggio, semplice e sobrio ma allo stesso tempo denso di rimandi letterari - da Dante alla Bibbia -, il modo di scrivere diretto, il racconto nitido e chiaro di un'esperienza devastante, e leggendolo inevitabilmente ci passano davanti agli occhi le immagini della vita in quell'inferno, e attraverso le parole dell'Autore proviamo, seppur lontanamente, a immaginare come dev'essere stato vivere lì, circondati dal degrado, dall'umiliazione, dalla paura di non esserci l'indomani ma di venire gettati nelle camere a gas.

Non posso che consigliare la lettura di questo libro.


*Alberto Dalla Volta
**Lorenzo Perrone



2 commenti:

  1. Ciao Angela, ho letto questo libro alle scuole medie, poi l'ho studiato e letto dei passi al liceo e all'università, ma mi piacerebbe rileggerlo integralmente, per poterlo apprezzare, pur nella sua tragicità, anche in età adulta!

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    1. Leggilo,ariel, racconta in modo vivido questa terribile esperienza...

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz