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martedì 18 agosto 2015

Recensione: LA CHIMERA di Sebastiano Vassalli



Appena terminato, e subito il mio parere su...

LA CHIMERA
di Sebastiano Vassalli



Ed. Einaudi
308 pp
11 euro
1990

La chimera è un romanzo storico di Sebastiano Vassalli,  prolifico scrittore che ci ha lasciati recentemente (fine luglio c.a.) e che narra la vicenda, la triste vicenda, di una giovane vissuta tra il 1590 e il 1610: Antonia Renata Giuditta Spagnolini, meglio conosciuta come “la stria (strega) di Zardino”.
Antonia viene abbandonata presso il torno (la ruota degli esposti) per essere accolta dalle suore della Casa di Carità di San Michele fuori le mura.
Antonia è un’esposta, una bimba frutto del peccato di una madre scellerata, e lei stessa – come tutti i bimbi esposti – verrà per sempre vista come una reietta, un essere inferiore, da emarginare, che non merita nulla se non disprezzo, e quando le si rivolge un atto di carità ci si aspetta un’infinita gratitudine.
La piccola Antonia cresce quindi nel convento, tra preghiere, canti liturgici, rimproveri e rimbrotti continui da parte delle suore sempre scontente; nonostante non sia un hotel a 4 stelle, la vita in convento non è poi così male, ed è per questo che, quando a 11 anni i coniugi Bartolo e Francesca Nidasio la notano tra i tanti fanciulli orfanelli e decidono di portarla a vivere con loro, la bimba non riesce ad essere felice per questo cambiamento.

Forse qualcosa nel suo cuore, un oscuro e indefinibile presentimento, vorrebbe tenerla lontana da Zardino, dalla bassa novarese, perchè quel luogo sarà per Antonia fonte di dolori e umiliazioni?

Il marchio dell’esposta infatti la segue come un segugio fedele, e sin da subito i vicini – bimbi compresi – la additano come se fosse “diversa”, ma Antonia è un piccolo arboscello forte e soprattutto bello: capelli neri e folti, occhi lucenti ed espressivi, e crescendo svilupperà non solo un bel viso ma anche un bel corpo.

Sono anni duri per le belle donne, potremmo dire prendendo a prestito l’ironia dell’Autore, ed Antonia farà le spese di una concezione di stampo medievale che vede la bellezza come un segno del male, la dichiarazione aperta ed inconfutabile di un’anima nera come la pece, che s’è venduta al diavolo e a lui appartiene, perché con lui s’incontra nei malefici e perversi sabba, dove si lasciano andare alla lascivia e alla lussuria più imperdonabile.

Nel tempo, a cominciare dagli anni dell’adolescenza, la giovanissima Antonia si affaccerà al mondo dei grandi, dell’amore, avendo la sfortuna di incontrare un uomo che non l’ama – un vagabondo, un camminante spietato, brutto e scansafatiche – per il quale perderà la testa, e che diventerà, assieme ad altri episodi, azioni e parole che le verranno attribuiti, la palla al balzo per i suoi accusatori, che si inventeranno di sana pianta dei gravi capi di imputazione, racchiusi tutti nella sola, terribile parola: stria.
E la stria di Zardino dovrà vedersela con l’ignoranza dei propri compaesani, che da un giorno all’altro si trasformano in acerrimi nemici; con la presunzione, la saccenza e la fede bigotta (ed insensata) di esponenti del clero che sfogano le proprie frustrazioni (sessuali, soprattutto) riempiendosi la bocca di pretese eresie, di ammonimenti alla castità, di condanne rivolte alle donne quali strumenti di seduzione e tentazione; con la perversione di gente gretta e meschina che s’è messa al servizio di un tribunale che pretende di essere “di Dio” ma che in realtà è fin troppo umano, perché ne riflette tutta la cattiveria, la falsa giustizia, la voglia sfrenata di esorcizzare paure irrazionali legate al sovrannaturale, la cui concezione è alterata da superstizioni e cecità morale e spirituale.

La tragica storia di Antonia si inserisce in un preciso momento storico – il Seicento in Italia – ben preciso e del quale Vassalli ci da un quadro interessante, dettagliato, avvicinandoci ad esso, ed è così che, capitolo dopo capitolo, le vicende di Antonia vengono intervallate da informazioni "tecniche" (che però, per quel che mi riguarda, mai hanno il sapore della lezioncina di storia), e Vassalli ci parla del clero corrotto e licenzioso – cui si contrapponevano alcuni religiosi ossessionati dall’obbedienza a riti, liturgie e comandamenti -, delle conseguenze della dominazione spagnola, di personaggi – molti realmente esistiti – che in qualche modo hanno avuto la loro parte nello sviluppo della storia, di categorie di individui presenti a quel tempo (risaroli, camminanti…).

Apprezziamo, leggendo, la sua ironia nel narrarci di certi personaggi particolari o di costumi dell’epoca discutibili ovvero apertamente deplorevoli (vedi il commercio delle reliquie).

Tutto questo collocato nella pianura del novarese ed in particolare a Zardino,

“un villaggio d’una trentina di fuochi portato via da un’alluvione del Sesia con i suoi abitanti, e mai più ricostruito”; 

a un luogo e un tempo che sembrano davvero troppo lontani, ma che l’Autore decide di raccontarci dopo aver compreso che

 “il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla…, nel villaggio fantasma di Zardino, nella storia di Antonia.”.
Ed è proprio quello che fa Vassalli, che ci narra tutto dal suo punto di vista onnisciente, a volta anticipando con qualche breve frase o commento – da cui percepiamo un po’ di tristezza e pietà per la povera protagonista – ciò che inevitabilmente accadrà (che è già accaduto).
Non si esimerà dallo scendere in alcuni particolari anche crudi, che ci diranno vagamente cosa ha dovuto passare colei che veniva condannata come strega, costretta ad assistere inerme

 “a un’energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose (…).  Anche la tanto celebrata intelligenza dell’uomo non era altro che un vedere e non vedere, un raccontarsi vane storie più fragili d’un sogno: la giustizia, la legge, Dio, l’Inferno…”.

È un romanzo che ho letto con molto interesse – il romanzo storico è un genere che apprezzo molto -,  che ha sempre un ritmo sostenuto e una scrittura che cattura (ho apprezzato anche l'uso del linguaggio "arcaico" seppur sempre comprensibile), uno stile che riesce a coinvolgere in prima persona il lettore, come se l'Autore si rivolgesse proprio a lui e lo invitasse a farsi una propria personale idea di ciò che si sta dicendo, maturando i propri pensieri e sentimenti per i tanti attori che entrano ed escono da questo palcoscenico, ricco di parole, suoni, rumori, visi, smorfie, grida, gesti, amore, odio, invidie, bestemmie, ipocrisie, finta pietà, falsa devozione, fissazioni che oggi definiremmo “malate”…, e si arriva alla fine con un senso di dispiacere ineluttabile per l’attrice protagonista, che è andata incontro ad un destino scritto da altri in un giorno come tanti, 

“in un tramonto melodrammatico e teatrale come in Italia sono i tramonti di settembre: ricco di colori squillanti, di scenari pittoreschi, di abissi di luce, di malinconia e di poesia”.
Inevitabile, secondo me, è la rabbia che si prova nel leggere questa storia che è solo simbolo dei tantissimi casi di torture e condanne portate avanti dal Tribunale dell’Inquisizione per troppo tempo e in diversi Paesi, a danno di persone vittime dell’ignoranza, di convinzioni errate, sostenute purtroppo nel nome di Dio, ma che di divino non avevano davvero proprio nulla.

Un romanzo che non può mancare nelle nostre personali librerie; ne consiglio la lettura.

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz