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giovedì 23 novembre 2017

Recensione: L’IBISCO VIOLA di Chimamanda Ngozi Adichie



Una ragazzina cresciuta all'ombra della religiosità cupa e rigida di un padre bigotto, seppur sincero nella sua fede, che scopre come la vita possa essere ricca di cose belle, per le quali valga la pena sorridere.



L’IBISCO VIOLA
di Chimamanda Ngozi Adichie




L'IBISCO VIOLA
Ed. Einaudi
Trad. M. G. Cavallo
Kambili è una quindicenne che vive a Enugu, in Nigeria, con i genitori e il fratello Jaja.
Suo padre Eugene è il proprietario dell’unico giornale indipendente in un Paese sull’orlo della guerra civile, ed è agli occhi della comunità un modello di generosità e coraggio politico: l’uomo, infatti, conduce una battaglia incessante per la legalità, i diritti civili, la democrazia.
Ma spesso dietro una bella facciata si nasconde qualcosa di poco limpido, e nel chiuso delle mura domestiche Eugene ha comportamenti discutibili verso moglie e figli; il suo fanatismo religioso – è profondamente cattolico, convertitosi in seguito alle predicazioni di missionari bianchi – lo trasforma in un padre padrone che non disdegna la violenza, anzi la impiega per tenere alta l’ubbidienza alla fede da parte dei suoi famigliari.

Eugene è infatti convinto della giustezza di determinate punizioni corporali all’indirizzo dei suoi figlioli che si macchiano di peccati agli occhi di Dio (o è più opportuno e giusto dire agli occhi suoi?) che avrebbero potuto tranquillamente evitare se fossero stati più attenti, e anche verso la povera moglie si lascia andare ad azioni cariche di aggressività.
La donna spesso e volentieri ha lividi e occhi gonfi proprio perché prende botte dal marito devoto; eppure mai una volta ella si lamenta con i figli di questo coniuge e padre così praticante e autoritario, che ama la propria famiglia, le permette di vivere nella ricchezza e negli agi, ma al contempo scambia la fede con il fanatismo, creando quindi in casa un clima strano e incoerente. 

Cosí Kambili e Jaja crescono in balia di una serie di dolorose contraddizioni: da una parte essi sono consapevoli dell’amore sincero che il padre ha per loro (e per la famiglia in generale), dall’altra si sentono soffocati da questo stesso amore perché l’uomo ha momenti di rabbia pericolosi.

Il lettore segue il racconto in prima persona di Kambili e questo lo porta a conoscere da vicino i suoi pensieri, i timori, il significato dei suoi silenzi, le speranze e i sogni non confessati, e attraverso i suoi occhi innocenti e impauriti sentiamo tutta la perplessità e i sentimenti contrastanti che la ragazza prova verso il padre: egli è oggetto di ammirazione, è la persona la cui approvazione conta più di ogni altro, un esempio di fede e pietas, un uomo magnanimo verso la gente povera del paese, stimato da tutti…, ma allo stesso tempo è il padre cui basta una disattenzione da parte dei famigliari perché la sua ira si scateni su di loro, e lì son botte, punizioni e oggetti lanciati per colpire e far male.

La cosa che mi ha lasciata sgomento è che questo Eugene, pur non dandomi l’idea di un uomo malvagio (egli per primo piange di dolore quando punisce i ragazzi), ha inevitabilmente comportamenti “cattivi”, profondamente sbagliati, che lui attribuisce alla sua forte fede in Dio e nei precetti cattolici, ma in realtà sono frutto di una visione deviata di questa stessa fede, il che personalmente mi ha fatto anche molta rabbia perché si può essere credenti ed impostare un’educazione dei figli cristiana, senza che ciò significhi pretendere la perfezione dai propri cari e “torturarli” con castighi esagerati e violenti, che nulla hanno da spartire con un sano ed equilibrato atteggiamento di devozione.

E se la giovane Kambili vive, dunque, questi stati d’animo contrastanti, di amore/timore verso il papà troppo rigido e severo, suo fratello Jaja, che non di rado si chiude nei propri silenzi sofferti, matura pian piano una certa ribellione verso questo genitore che ha davvero un modo ben strano e ipocrita di vere la propria religione e di manifestarla, dentro e fuori casa.

La gente di fuori che lo stima tanto, quasi lo venera e gli è grata per la generosità (materiale, in primis) dimostrata, cosa penserebbe di lui se sapesse come tratta moglie e figli anche per una inezia?

Kambili, in virtù del clima rigido che si respira in casa, è una ragazzina piena di paure, con una bassissima autostima, eccessivamente riservata e timida, e questo la porta a chiudersi, a non fare amicizia, perché teme di dire e fare la cosa sbagliata, di essere oggetto di scherno da parte delle compagne, che infatti la giudicano male, confondendo la sua timidezza per un atteggiamento snob, da figlia di papà.

Le cose cominciano a cambiare quando, dopo un colpo di Stato, Kambili e suo fratello vanno a passare del tempo dalla zia Ifeoma, sorella di Eugene. Anch’ella si è convertita al cattolicesimo ma, a differenza del fratello, non ha sviluppato alcun atteggiamento fanatico e intollerante per chi la pensa diversamente; è lei a prendersi cura del vecchio padre, che ha mantenuto le proprie tradizioni africane, rifiutandosi di credere nel Dio dei bianchi, e che per questa ragione è tenuto a debita distanza da Eugene, che lo giudica un eretico, un pagano in grado di contaminare se stesso e la propria famiglia solo con la sua presenza!

Stando in casa della zia e in compagnia dei cugini, tra musica e allegria, i due ragazzi scoprono una vita fatta di indipendenza, amore e libertà; scoprono che si può avere fede senza per questo essere sempre corrucciati, seriosi, ossessionati dal peccato e dalla sua espiazione; scoprono che si può scherzare a tavola, anche davanti a un cibo povero e poco raffinato, che si possono elevare canti a Dio anche nella propria lingua (l’igbo) e che questo non è sbagliato o sacrilego, non c'è da sentirsi in colpa; scoprono che si può ridere e che questo non è una cosa malvagia, diabolica…, anzi!

“Quella notte sognai che stavo ridendo, ma non sembrava il suono della mia risata, anche se non sapevo troppo bene come suonasse la mia risata. Era chiocciante, rauca ed entusiastica, come quella di zia Ifeoma.”

A casa della saggia e intelligente zia Ifeoma, interagendo con gli svegli cuginetti (China, Amaka e Obiora), Jaja e Kambili comprendono che c’è un altro modo di vivere decisamente più sereno; è come se delle squame fossero cascate improvvisamente dai loro occhi e questi si fossero aperti, così da permettere loro di vedere bene, finalmente, quanto di bello e spontaneo la vita può offrire.
L’incontro e l’amicizia con un giovane sacerdote nigeriano, inoltre, farà provare alla bella Kambili i primi palpiti di un sentimento cui lei non sa ancora dare un nome ma che di sicuro la rendono felice e piacevolmente confusa.

Il soggiorno a Nsukka, da zia Ifeoma e figli, termina… e i due fratelli ritorneranno alla “vecchia vita”, quella in cui devono misurare parole e sguardi davanti al padre inflessibile, in cui c’è da stare attenti e non “sgarrare” – pena castighi tutt’altro che leggeri… -, in cui non la gioia ma la paura di sbagliare fa da padrone…

Ma qualcosa in loro è cambiato e una serie di eventi interverranno a dare all’esistenza di Kambili e famiglia una direzione che difficilmente avrebbero immaginato.

L’ibisco viola è l’opera d’esordio di Chimamanda Ngozi Adichie, una sorta di romanzo di formazione che, sullo sfondo delle trasformazioni civili e politiche del postcolonialismo in Africa, racconta la linea sottile che divide l’adolescenza dall’età adulta, l’amore dall’odio, la fede sincera dal fanatismo religioso.

Lo stile di scrittura è acerbo e quindi semplice, sufficientemente scorrevole nonostante le tante parole in igbo inserite (soprattutto nei dialoghi), che però a me non hanno dato particolarmente fastidio; la narrazione si sofferma su diversi dettagli e gesti di vita quotidiana e in certo momenti ho “sentito poco” la protagonista dal punto di vista emotivo, nonostante le sue esperienze negative, a motivo del padre, non lascino indifferenti. 

Durante la lettura, andando verso la fine, mi chiedevo spesso che ne sarebbe stato di lei e di Jaja…, ed effettivamente ammetto che forse l’epilogo scelto dall’Autrice mi ha un po’ spiazzata, non dico che è stato un vero e proprio colpo di scena… ma quasi! 
Una lettura interessante, che fa riflettere su diversi temi, a cominciare dal modo di vivere la propria fede.

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz