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domenica 23 agosto 2020

Recensione: "Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea" di Suad Amiry

 

In questo libro, che è sì un romanzo ma racconta fatti realmente accaduti e di persone realmente esistite, Suad Amiry, con la grazia e l'ironia che le sono proprie, ci parla di amore, di dolore, di sopraffazioni, affidandosi alla forza dei ricordi di chi la Nakba (catastrofe) e la Shatat (diaspora) le ha vissute sulla propria pelle.

Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea
di Suad Amiry

Ed. Mondadori
trad. S. Folin
240 pp
18 euro
Giugno 2020


A mio padre. 
E a tutti coloro che sono morti 
nella diaspora, “fi il shatat”, 
mentre aspettavano di tornare a casa.

É il 1947 e a Giaffa - fiorente città della Palestina, con le sue strade  affollate pervase dall'inebriante profumo di caffè, i suoi mercati vivaci e il suo mare pescoso, chiusa da distese immense di aranceti profumati - vive il quindicenne Subhi.

Il ragazzo lavora come meccanico ed è bravissimo e apprezzato da tutti, tanto che un giorno Khawaja Michael, un ricco imprenditore che esporta le famose arance di Giaffa in tutto il mondo, gli chiede di sistemargli una pompa d’irrigazione nella propria bayyara, la piantagione di arance; Subhi individua il problema e lo risolve in poco tempo, attirandosi i complimenti pieni di entusiasmo dell'uomo d’affari.

Questi, in segno di riconoscenza, gli fa un regalo: paga un sarto che gli confezioni un abito inglese in lana di Manchester. 

Il pensiero di poter finalmente possedere un abito di ottima fattura rende il giovanotto allegro ed eccitato, soprattutto perché, con quel bel biglietto da visita, sente di poter trovare il coraggio di dichiararsi alla ragazza di cui è innamorato - Shams, figlia di modesti contadini - e chiederla in sposa.

Certo, la "promessa sposa" è molto giovane (tredici anni) e forse il padre potrebbe non dare il permesso per le nozze, ma per Subhi questo non è un grosso ostacolo: lui è un sognatore e nella sua testolina già si vede a braccetto con la bella Shams, che lui è sicuro di sposare, un giorno.

Ma l'abito non è soltanto ciò che gli permetterà di fare bella figura con l'amata; rappresenta per lui anche una sorta di lasciapassare, grazie al quale egli si sente più sicuro di sé, matura una nuova consapevolezza di chi è e vuol diventare, e si sente pronto a frequentare la gente ricca della città, mescolandosi ad essa senza sentirsi inferiore.

Ad aiutarlo a disinibirsi ci pensa lo zio Habeeb, un uomo allegro, amante della vita e dei suoi piaceri, che lo esorta a concedersi momenti di passione per soddisfare i bollenti spiriti con donne esperte nell'ars amatoria.

E finalmente arriva anche il momento tanto atteso e le strade di Subhi e Shams si incrociano: il ragazzo fa amicizia con il fratellino di lei e lo aiuta a costruire un aquilone, e presto si aggiungono tanti altri bambini, tutti entusiasti all'idea di far volare i loro coloratissimi aquiloni nel cielo, come una multiforme e vivace danza celeste.
I due adolescenti riescono a trascorrere dei giorni insieme, si piacciono e sentono una innegabile, seppur acerba, attrazione l'uno per l'altra. 
C'è posto per loro, nel mondo, e per quel sentimento che in lui già da un po' esplode in petto mentre per lei è una scintilla appena nata?

Purtroppo, il futuro non promette nulla di buono; non passerà molto tempo che il cielo della Palestina sarà costretto a dimenticare l'allegria degli aquiloni colorati e delle risate dei bambini, per essere straziato da ben altri rumori, da grida di disperazione e paura, e dal grigiore del fumo e della morte.

La storia del giovanissimo Subhi inizia quasi come una favola e ci viene narrata con una leggera e piacevole ironia, adatta al protagonista, un adolescente che ha sogni e speranze come qualsiasi altro ragazzo della sua età.

Ma Subhi è nato e vive in una terra segnata da conflitti e tensioni e di lì a qualche mese su di lui, come su tutto il popolo palestinese, si abbatterà una tragedia.
Una catastrofe. Nakba.

Nella primavera del 1948 il governo britannico, dopo venti anni, pone ufficialmente fine al mandato sulla Palestina, dichiarando che avrebbe ritirato le truppe il 14 maggio 1948 a mezzanotte; il famoso Piano di partizione dell’Onu non era affar loro ma tutto ormai sarebbe stato in mano alla milizia sionista.

La decisione degli inglesi non può che fomentare le già forti tensioni tra gli ebrei, ormai sempre più numerosi, e i residenti palestinesi. 

La situazione precipita e quando arriva l’attacco deliberato da parte delle forze israeliane - ben equipaggiate dalla Gran Bretagna - Giaffa, la "Sposa del Mare", viene bombardata senza pietà, occupata militarmente e ridotta ad una città fantasma. 

"La paura prese il sopravvento. Uno strano silenzio calò sulla città come un drappo nero. C’era un’immobilità sospesa, un’oscurità appiccicosa che affaticava il passo, i gesti, i pensieri, e somigliava alla rassegnazione."


Traditi gli accordi, centinaia di famiglie vengono cacciate via dalle proprie case, vengono disperse e separate, gli aranceti sono espropriati, la vita quotidiana è sfigurata da uno stato di polizia. E in quel teatro di caos e di morte non resta che cercare di fuggire per provare a salvarsi. 

"Invece degli stormi di uccelli, a riempire il cielo di Giaffa nella sua ultima primavera fu una raffica di ventimila proiettili, che la colpirono al cuore per tre giorni consecutivi, indiscriminatamente, fino a metterla in ginocchio. (...) Caddero sugli ospedali e confusero i morti con i vivi e i bisognosi di cure. 
(...) Nessun rumore se non quello che riempiva il cielo azzurro di grigio, di fumo, di morte. E morti e feriti furono abbandonati per strada. Gli altri, quelli che non restavano a terra, si davano alla fuga, come potevano. E allora sì, si sentivano voci e grida, ma soffocate: scappa, fuggi, mettiti in salvo, o entrerai anche tu nel regno dei morti. (...) E nel teatro di tanta distruzione si avvertiva il fruscio della paura, la violenza dei saccheggi, delle aggressioni, la vergogna delle rapine. Niente più acqua, niente luce, niente benzina. Non c’era un forno per fare il pane, non un negozio per comprare farina. La città era una macchina che aveva smesso di funzionare."

Subhi si guarda attorno desolato e spaventato: che ne è della sua vita nella sua amata città delle arance? Che ne è del suo lavoro e del suo futuro di "miglior meccanico della città"? Che ne è della famiglia? E Shams? Che ne sarà del loro amore, che non ha avuto neppure il tempo di sbocciare?

"Scomparso, pensava ossessivamente. È tutto scomparso. La sua famiglia, la sua casa, scomparse. I vicini, il quartiere, scomparsi. (...) E, soprattutto, era scomparsa Shams. A cosa gli serviva l’abito inglese adesso che sposarsi era diventato un sogno impossibile? (...) 
Era scomparsa Giaffa, “la Madre dei Forestieri”. Adesso la straniera era lei. Il 9 maggio era stata dichiarata “città aperta”. Per Subhi quell’espressione evocava l’immagine di uno stupro. Sì, Yaffa ‘Arous el Bahar, Giaffa la Sposa del Mare, era stata violentata, disonorata."

Il racconto delle vicende che vedono coinvolto Subhi, la sua famiglia, i suoi amici, il suo popolo, perdono la freschezza e la spensieratezza iniziali per lasciare il posto allo smarrimento, alla paura, all'impotenza, al pianto, alla rabbia, alle ingiustizie perpetrate dalle forze occupanti.

E mentre Subhi, lontano dai propri cari, cerca di sopravvivere nel ghetto in cui è confinato insieme ad altri sfollati, i riflettori si spostano su Shams.
Anche lei è stata separata dai famigliari ed è rimasta sola con le sorelline minori, in balia della confusione e del terrore; leggiamo in che modo, nell'arco di un mese, anche la sua esistenza sia stata ovviamente stravolta e come, almeno apparentemente, i guai siano iniziati a motivo di... una mucca!
Sì, una mucca... ebrea!

"Una mucca è semplicemente una mucca", direte voi, "che senso ha etichettarla come ebrea o araba?", e avreste ragione; ma evidentemente, quando è il sadismo a guidare le azioni, per accusare qualcuno - che è già in una posizione di "svantaggio" - basta anche una motivazione surreale come quella di aver rubato e mangiato un ovino che apparteneva (presumibilmente, perché pure a voler chiedere informazioni all'animale....) a qualcun altro per dar vita ad una sfilza di soprusi e umiliazioni.*

«Maledetta la vostra mucca ebrea! Se ci punite per aver rubato una mucca, cosa vi meritate voi per aver rubato una nazione intera?»

Shams e le sorelline vivranno una serie di situazioni drammatiche ma riceveranno aiuto da persone che, almeno in teoria, non dovrebbero essere loro amiche.

"Avevano (...) imparato che passaporto e religione non hanno niente a che fare con la struggente bellezza delle anime generose."

Cosa accadrà a Subhi e Shams, due ragazzi con sogni, ambizioni, speranze..., frantumati davanti alla furia cieca di chi arriva per conquistare la terra in cui vivi e per scacciarti come se l'intruso fossi tu?

Tra queste pagine, si passa da una narrazione - come dicevo più su - leggera e vivace, che si sofferma sulle vicende quotidiane di protagonisti che vivono un'esistenza piuttosto serena e "normale", ad una drammatica, come può esserlo il racconto di una delle tragedie umane più brutte del nostro tempo e che vede coinvolto un intero popolo.

"I loro figli, e i figli dei loro figli, si aggirano ancora oggi in quelle terre sconosciute, lontano da casa."


Suad Amiry si è delicatamente appoggiata ad una storia d'amore adolescenziale per narrarci, con realismo ed un pizzico di humor, cosa è accaduto da quando, a partire da 29 novembre 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 181, che sanciva la divisione della Palestina sotto mandato britannico in due Stati, uno arabo e uno ebraico, delimitandone i confini.

Attraverso di lei il lettore viene trasportato, per quanto solo con l'immaginazione, in una terra segnata in modo indelebile dalle atrocità, dalla morte e dalla desolazione, dove interi villaggi vennero sfollati, le città rase al suolo, i floridi mercati resi deserti, i negozi tristemente vuoti, le ville abbandonate, le famiglie distrutte, e tanti... troppi cuori spezzati.

Shams e Subhi mi hanno fatto tanta tenerezza: due ragazzi così giovani, le cui esistenze sono state investite letteralmente da una guerra che ha strappato loro affetti e desideri.

Lei, che a un certo punto diventa quasi una madre per le proprie sorelle, di cui deve prendersi cura in attesa di riabbracciare - chissà! - la propria famiglia, e con la speranza che intanto qualche anima pia venga in loro soccorso.
E lui, Subhi, il meccanico più giovane e promettente di Giaffa, si ritrova aggrappato, come fosse un salvagente, al suo abito inglese, e pur essendo ormai ridotto a brandelli che rispecchiano in tutto e per tutto il suo stato d’animo, esso è altresì la manifestazione tangibile dei suoi sogni e dei suoi sentimenti, nonostante la tragedia che lo ha colto.

"Non sapeva se ciò che andava cercando fosse il suo passato o il suo futuro, ma una cosa era certa: il presente gli era insopportabile."

Immaginiamo anche soltanto un po' cosa possa voler dire vedersi strappato brutalmente ciò che ti appartiene - materialmente e non solo? Riusciamo a sentire lo spaesamento, l'inevitabile rabbia impotente, la paura, la disperazione, il dolore... di chi ha vissuto questa nakba?

«Lontano da casa non si è mai a casa.» Ripeteva questa frase come un mantra. E poi aggiungeva: «A casa tua muori una volta sola. Ma fi il ghurbeh, in esilio, muori ogni giorno, per tutta la vita.»


La scrittrice palestinese Suad Amiry, figlia di rifugiati in Giordania, è cresciuta vedendo la speranza – ma anche il dolore – di suo padre che sognava di tornare a casa sua a Giaffa, che lei ha visitato solo negli anni '80;  ciò che ha scritto di questa città è frutto del racconto e delle testimonianze di che ha vissuto la Nakba in prima persona, quando nel 1948 nove palestinesi su dieci furono cacciati dalle loro case nella Palestina storica diventata Israele; suo padre era uno dei tanti sfollati.
E tra queste voci da lei ascoltate e che l'hanno guidata nella narrazione ci sono proprio Subhi e Shams, che sono realmente esistiti:  nei loro occhi, nei racconti di un orrore vissuto sulla propria pelle, l'autrice ha potuto vedere una malinconica dolcezza e una grande capacità di perdonare, non lasciandosi logorare dall'odio, che pure avrebbe avuto le sue ragioni per mettere radici.

Suad Amiry si è fatta hakawati, narratrice di una storia di amore e dolore; un dolore che va raccontato perché - anche se a volte le parole non danno conto appieno delle sofferenze provate - la Storia passa anche attraverso di esse, per questo le parole sono fondamentali  per conservare la memoria di ciò che è stato.
E in questo libro si è scelto di lasciare molte parole in arabo e di scriverne subito affianco il significato, permettendo così al lettore di assaporarne la carica evocativa e rafforzandone il significato.

Un romanzo tratto dalla piccola storia vera di due persone comuni e molto giovani, attraverso le quale l'Autrice ha raccontato anche la storia di un intero popolo,quello palestinese. Il suo popolo.




* Questo episodio di una mucca rubata, del cui furto l'oppresso deve rendere conto all'oppressore, mi ha rimandato con la memoria ad un altro luogo, un'altra storia, un altro popolo, anch'esso cacciato, perseguitato, costretto a lasciare la propria terra perchè i "conquistatori" si sono sentiti in diritto di prendersi ciò che non gli spettava neppure lontanamente. In quel caso, da quella mucca mangiata dai pellerossa e sottratta ad un mormone, si scatenò un'ondata di battaglie sanguinose, volte a sterminare gli indiani d'America.   

2 commenti:

  1. Ciao Angela! Sembra un libro interessante! E' sempre bello poter apprendere qualche nuova informazione sul passato, mantenendo però anche una narrazione più leggera che rende meno pesante la lettura! :)

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    1. È vero, Sara, ed infatti l'autrice racconta di eventi di per sé tragici senza alcuna pesantezza ;)

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz