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martedì 14 marzo 2023

♠️ RECENSIONE ♠️ OGNI MATTINA A JENIN di Susan Abulhawa

 

"Anche se i personaggi di questo libro sono fittizi, la Palestina non lo è, né lo sono gli eventi storici e i dati riportati in questa storia".

Sono parole di Susan Abulhawa nelle note a fine libro e, anche se le ho lette una volta giunta al termine, è una consapevolezza che ha mi ha accompagnato da subito e durante tutta la lettura: i personaggi saranno pure inventati, e così gli specifici avvenimenti che ne caratterizzano le esistenze, ma ciò che è - purtroppo! - fin troppo reale è ciò che i palestinesi vivono ogni giorno da 75 anni.



OGNI MATTINA A JENIN
di Susan Abulhawa


Ed. Feltrinelli
trad. S. Rota Sperti
400 pp
17 euro
"Il campo profughi di Jenin era lo stesso di un tempo, un brandello di terra di due chilometri quadrati e mezzo, escluso dal tempo e imprigionato in un eterno 1948."

Conosciamo la protagonista, Amal Abulheja, quando è ormai una donna adulta e si trova a Jenin, nei terribili giorni in cui - nell'aprile del 2002 - le forze di difesa israeliane hanno invaso il campo profughi palestinese a Jenin, uccidendo centinaia di persone e compiendo uno spietato massacro.

Pur essendo nata a Jenin, Amal non vi ha trascorso tutta la sua vita; da ragazzina se n'era andata per cogliere l'opportunità di un futuro migliore, e in seguito dovette volare (di nuovo) negli USA per cercarvi rifugio.

Cosa ci fa, allora, nel 2002, nel campo profughi della sua infanzia?

È la sua stessa voce, ripercorrendo un periodo di tempo che va dal 1941 fino ai primi anni del Duemila, a narrarci la storia della famiglia Abulheja: del nonno, il patriarca Yehya, di sua moglie Bassima e dei loro due figli, tutti residenti ad 'Ain Hod, un villaggio della Palestina. 
Ci sembra di vederli, impegnati nella raccolta delle olive e nel condurre la loro vita semplice, come quella della maggior parte dei contadini palestinesi prima che la Nakba ("catastrofe") si abbattesse su di loro nel 1948 e fossero costretti a lasciare i loro villaggi e le loro case, per trovare rifugio in città e terre straniere. 

"Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l'anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico."

Amal ci racconta di Dalia, la sua mamma beduina, forte, testarda, che ha sposato Hassan (il figlio di Yehya), dandogli tre figli: Yussef, Isma'il e Amal.

Quando Amal nasce (nel 1955), la sua famiglia ha già subito sofferenze, privazioni, espropri, lutti; in particolare, ad aver segnato irrimediabilmente l'animo della povera Dalia è stata la perdita del secondogenito, Isma'il, sottratto alle sue braccia durante la fuga da 'Ain Hod, assediata dalle truppe israeliane nel '48.

Cosa è accaduto al piccolo Isma'il (ancora in fasce) in quel maledetto giorno? Qualcuno l'ha rapito o forse il piccolo è "semplicemente" e disgraziatamente morto nella confusione della gente che correva per le strade disperata?

Durante i primi anni di vita, Amal si è svegliata tra le braccia di suo padre Hassan, respirando l'aroma di miele e tabacco e lasciandosi cullare dall'incanto dell'alba e della poesia.
Ogni mattina quel dolce risveglio costituiva un tesoro speciale per la bambina, cresciuta all'ombra dello sguardo rassicurante e amorevole del suo papà, un uomo semplice e amante della poesia; negli anni, il ricordo di quelle mattine le avrebbe donato il conforto necessario per continuare a vivere nonostante la morte nel cuore.

Amal, nonostante le scarse risorse e la vita non facile in un campo per rifugiati, è una bimba serena, che viene su con un carattere deciso e determinato, sempre pronta a giocare e correre mano nella mano con l'amichetta del cuore (Huda) e a fare da messaggera d'amore per suo fratello Yussef e la ragazza di cui è innamorato, la dolce Fatima.

Ha solo 12 anni quando, nel 1967, vive il trauma della guerra ("dei sei giorni"), che le strapperà via suo padre, ma non Yussef, il quale però di lì a poco deciderà di unirsi alla resistenza palestinese.

In un paesaggio costellato di torrette di controllo israeliane, Amal e la sua gente continuano a vivere un incubo terribile e senza fine. 

"Pervasi dal sapore terroso della morte, quei giorni si conficcarono nei miei ricordi come particelle di polvere insanguinata, come l'odore dolciastro della vita in decomposizione e della terra bruciata. Ci spostavamo, ma senza andare da nessuna parte. (...) Eravamo profughi, tutti quanti. Quelli che erano scappati, erano diventati profughi ancora una volta (...) E quelli di noi che erano rimasti diventarono prigionieri a Jenin."


Sensibile e dalla mente brillante, Amal, come dicevo, non resterà sempre a Jenin, ma prima se ne allontanerà per andare a Gerusalemme, per studiare e concedersi “la possibilità di far fiorire la vita che giace addormentata..." e in seguito, la vita la porterà in America (a Filadelfia) e poi in Libano, dove vivrà momenti di pace famigliare assieme ai cari che le sono rimasti, e la sua vita verrà arricchita dalla presenza di un uomo, che sarà il suo grande amore, da cui nascerà Sara, la loro unica figlia. 
Ma quel miraggio di un'esistenza felice crollerà nel momento in cui, ancora una volta, soffieranno venti di guerra e Israele attaccherà il Libano nell' "Operazione Pace in Galilea".

"...com'era facile usare il termine 'incidente' in Libano – che era anche un'atrocità. Andava al di là di ciò che gli israeliani in altre circostanze avrebbero chiamato atrocità terroristica. Era un crimine di guerra."


➤Le pagine che descrivono l'atroce massacro di Sabra e Chatila (settembre 1982) sono strazianti e leggerle è davvero un colpo al cuore.


La vita di Amal viene nuovamente stravolta, colpita e affondata; anche se ella (con la creatura che porta in grembo) riesce a salvarsi ritornando negli USA, le separazioni, il dolore, la morte... viaggiano con lei, la seguono, e il suo soggiorno americano sarà solo un sopravvivere per amore di Sara ma avendo ormai perduto per sempre ogni gioia e motivo per vivere.

"Mi chiusi in me stessa. (...)
La mia vita sapeva di cenere e vivevo nel perpetuo silenzio di una canzone senza voce. Nella mia amarezza e paura, mi sentivo sola come nella solitudine più nera."

L'Amal madre ripete, suo malgrado, il modello materno: Dalia era stata una madre sì presente e attenta, ma molto riservata e, soprattutto, emotivamente poco generosa; a renderla fredda e chiusa erano state le tante disgrazie vissute e, in particolare, il dolore per la perdita del piccolo Isma'il; quando ci fu la guerra del '67 la sua salute mentale non fece che peggiorare sempre più.
Amal sapeva che sua madre l'amava ma vedeva come non sapesse dimostrarglielo con gesti o parole affettuose; il suo motto era: "Qualsiasi cosa senti, tienila dentro".

Similmente, anche Amal si ritrova ad affrontare i doveri della maternità trattenendo l'amore ardente che prova per quell'unica figlia, barricandosi dietro alle fredde mura della paura e preferendo trascorrere più tempo possibile al lavoro per non permettere all'angoscia di sopraffarla.

Ma il richiamo della Palestina si fa strada prepotentemente nella sua vita in terra americana e una telefonata giunge improvvisa a sconvolgerla, riportandola bruscamente nel passato e, nello stesso tempo, donandole qualcuno che le era stato tolto e che credeva essere ormai perso per sempre: suo fratello Isma'il.

Yussef, Isma'il e Amal: "tre fratelli, emersi dalla culla di una tragedia senza fine. Ciascuno separato dall'altro, ma continuamente inseguiti dai sussurri strappati dalla consapevolezza degli altri."


Yussef, il combattente, colui che non poteva accettare passivamente che altri (gli occupanti) scrivessero per i palestinesi delle vite che non erano altro che prolungate sentenze di morte, degli atroci calvari senza fine. "Io non vivrò questo copione. Se morirò da martire, che sia."

Amal, che ha lasciato il cuore e i suoi affetti più cari in quella terra straziata, dalla quale non s'è mai allontanata davvero, perché "La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei."

E poi c'è lui, il figlio perduto, Isma'il, cresciuto "dall'altra parte del muro" ma nel cui viso Amal ritrova i tratti delle persone amate.

Imprevedibile come solo essa sa esserlo, la vita ora divide, ora riunisce; come ti lacera strappandoti via con crudele ferocia chi ami, creandoti un vuoto dentro che, per non soccombere, riempi di indifferenza e freddezza, così ti ricorda che lì, in mezzo al petto, c'è ancora un cuore capace di amare.

Susan Abulhawa ha scritto un romanzo che dà voce a chi è stato silenziato a favore di una narrativa "ufficiale" che inevitabilmente distorce la verità, la rende opaca, la nasconde, finendo per ribaltare i ruoli di "aggressore" e "aggredito", di occupante e occupato, di vittima e carnefice.

La scrittrice racconta con sensibilità e intensità la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di "senza patria".

Cercando di raccontare la verità della propria gente e di farlo il più onestamente possibile, l'autrice non si lascia andare a riduttive e fin troppo ovvie demonizzazioni,  non esprime giudizi, ma racconta semplicemente le vicende di una famiglia che, intrecciandosi con la storia della Palestina, diventa simbolo di tutte le famiglie palestinesi: la gioia e la vita degli uni contro la morte e la tragedia dell'esilio degli altri, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in un eterno stato di sospensione, di attesa che qualcosa cambi, che si possano infilare di nuovo le chiavi in quelle che sono state le proprie umili abitazioni e che possano tornare a vivere in quella terra come avevano sempre fatto.


Leggendo, ci si affeziona ai personaggi: alla tenace Dalia, a questa madre che il dolore ha portato alla perdita della ragione; al coraggioso Yussef, dal cuore grande, tanto da contenere l"amore per i suoi cari e quello per il proprio paese, per il quale è disposto a combattere, a resistere; alla sua Fatima, dolce, allegra, generosa, che è stata come una sorella per Amal.

Soprattutto ci si sente vicini a lei, ad Amal, che vediamo crescere e passare dall'essere una bimba felice a diventare una ragazza chiamata a fare delle scelte per cercare di andare avanti.

La vediamo nelle sue fragilità e contraddizioni, mentre da universitaria e ragazza libera cerca di lasciarsi alle spalle la povera e disgraziata vita di una palestinese circondata da soldati, in una quotidiana condizione di occupazione militare.

Ma anche se per qualche anno vive libera da soldati, trasformandosi in un'araba  occidentalizzata e senza radici, la Palestina riemerge dal profondo del suo cuore senza preavviso, costringendola a ricordare chi è e da dove viene.

Leggendo, si empatizza con queste persone che, "prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità", conducevano un'esistenza semplice ma serena.
Fino a quel giorno in cui, denudate della propria umanità, furono buttate come spazzatura in campi profughi, lasciati senza diritti, senza casa né nazione, " mentre il mondo si voltava dall'altra parte a guardare e ad applaudire l’esultanza degli usurpatori che proclamavano il nuovo stato che chiamavano Israele."

Tra queste pagine si parla di lotta, di resistenza all'occupante, di amore per le proprie radici, di ingiustizie e morti davanti alle quali o ti rassegni o combatti.

"La durezza trovò un terreno fertile nei cuori dei palestinesi e i germi della resistenza si radicarono nella loro pelle. La sopportazione diventò una caratteristica distintiva della comunità dei profughi. Ma il prezzo che pagarono fu l’annientamento della loro dolce vulnerabilità. Impararono a esaltare il martirio. Solo il martirio offriva la libertà. Solo nella morte potevano essere invulnerabili a Israele. Il martirio diventò il rifiuto supremo dell'occupazione israeliana.".


Ogni mattina a Jenin è un romanzo intriso di profonda umanità: è una storia che ci parla di memoria, di identità (personale e nazionale), di amicizia e amore, di famiglia, di guerre e massacri, di coraggio e speranza. 

E io non posso che consigliarvene caldamente la lettura, che regala molte emozioni, commuove e fa arrabbiare, e soprattutto porta a riflettere su ciò che da decenni accade in questa piccola porzione di terra. 


ALCUNE CITAZIONI 

"Il nocciolo della loro esistenza era il legame con Dio, con la terra e la famiglia, ed era questo che volevano difendere e custodire."

“Possono portarti via la terra e tutto quello che c'è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose che hai studiato”.

"Veniamo dalla terra, le diamo il nostro amore e il nostro lavoro, e lei in cambio ci nutre. Quando moriamo, torniamo alla terra. In un certo senso, le apparteniamo. La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei."

"Ogni centimetro di questa città racchiude i segreti di antiche civiltà, le cui morti e tradizioni sono impresse nelle sue viscere e nelle macerie che la nebbia. (...) Gerusalemme trasmette umiltà. In me suscita un innato senso di familiarità – l'indubbia, inconfutabile sicurezza palestinese di appartenere a questa terra. Mi possiede, indipendentemente da chi la conquista, perché il suo suolo è il custode delle mie radici, delle ossa dei miei antenati."


"Sono figlia di questa terra, e Gerusalemme mi rassicura di questo titolo inalienabile molto più degli atti di proprietà ingialliti, dei registri catastali ottomani, delle chiavi di ferro delle nostre case rubate, di tutte le risoluzioni o i decreti che potranno emanare l’Onu o le superpotenze."


"Pensa alla paura. Quella che per noi è semplice paura per altri è terrore, perché ormai siamo anestetizzati dai fucili che abbiamo continuamente puntati contro. E il terrore che abbiamo conosciuto è qualcosa che pochi occidentali proveranno mai. L'occupazione israeliana ci ha esposto fin da piccoli a emozioni estreme, e adesso non possiamo che sentire in maniera estrema. “Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal. “È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. È un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.”


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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz