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venerdì 21 giugno 2024

L'UNITÀ di Ninni Holmqvist [ RECENSIONE ]



Potrebbe accadere, in un futuro lontano ma forse neanche troppo, che gli uomini e le donne che non sono genitori o che non possono più aspirare a diventarlo, vengano isolati, posti in un luogo creato proprio per loro e costretti a vivere una vita (o ciò che ne resta) a servizio della società cui appartengono. Immaginiamo che non possano ribellarsi al "programma" pensato per loro.
E infine immaginiamo che però qualcosa "vada storto" in questi programmi e che qualcuno possa pensare di far valere il proprio diritto a decidere per sé, per il proprio corpo, per il proprio futuro.
Cosa accade quando il singolo ha valore e scopo solo se funzionale ai bisogni stabiliti dalla collettività? Quando una persona non può essere single ma per vivere deve necessariamente essere in coppia?


L'UNITÀ
Ninni Holmqvist



Fazi Ed.
trad. M. Podestà Heir
276 pp
Dorrit è una scrittrice cinquantenne single e senza figli; aveva un cane affezionatissimo ma adesso questi è morto e lei si sente sola, come se l'avessero privata di un pezzo fondamentale di sé; non ha un marito e l'ultima relazione sentimentale è stata con un uomo sposato, che non ha mai avuto alcuna intenzione di lasciare la moglie per stare con l'amante.

Ed è così che un giorno Dorrit  viene tradotta in un luogo denominato l’Unità
È un posticino che accoglie "quelli/e come lei" - vale a dire uomini e donne di una "certa età", privi di una relazione sentimentale definita, privi di coniuge e soprattutto di prole - e che apparentemente è un piccolo paradiso: una struttura all’avanguardia dotata di ogni comfort, con eleganti appartamenti immersi in splendidi giardini, dove gli ospiti possono usufruire di pietanze elaborate, degni di ristoranti  gourmet, e dove si può decidere di passare le giornate dedicandosi ai propri hobby, dallo sport al cinema o alla musica, dalla lettura al semplice passeggiare negli ameni parchi di questo cosmo separato dal resto del mondo. 

Qui finalmente Dorrit si sente libera dal peso del giudizio sociale, che l'ha sempre fatta sentire sbagliata, una donna incompleta perché sola, indipendente e senza marito né figli.
Tra queste mura, ella fa amicizia con persone come lei, con cui trascorre le ore a chiacchierare, a scherzare...

Ma l'idillio è solo apparente: pian piano emerge con chiarezza come tutti i residenti dell'Unità siano lì non per fare "la bella vita" a spese della società (del "governo" e dei contribuenti, potremmo dire), bensì per ragioni ben precise.
Tutti loro sono denominati Dispensabili e la loro permanenza nell'Unità ha senso solo in quanto essi donano sé stessi - corpo, mente, intelligenza..., tutto - alla ricerca, alla comunità, al benessere degli altri.

Cosa vuol dire in termini pratici?

I Dispensabili sono lì per fare da cavie per una serie di test farmacologici e psicologici; ma non è finita qui: sono tenuti a donare "parti" di sé - i loro organi - e se per alcune donazioni non si muore (se si dona un rene, ad es.), per altre... beh, si può eccome perdere la vita.
Gli ospiti non possono rifiutarsi di donare i loro organi: uno per uno daranno ciò che viene loro richiesto, fino alla cosiddetta “donazione finale”. 

È l'unica via perché anch'essi siano utili alla società e non dei meri parassiti; insomma, devono sacrificarsi per chi, nel mondo di fuori, è genitore e, magari, ha problemi di salute (gli serve un cuore, il fegato, i reni...) e, se non avesse un donatore, morrebbe lasciando allo sbando la famiglia, i figli in primis.

Dorrit e gli altri dell'Unità accettano e si rassegnano, giorno dopo giorno, a questo destino, sapendo di non avere libertà di scelta; possono soltanto cercare di vivere più serenamente possibile sino alla donazione finale.

Del resto, la rassegnazione sopraggiunge con facilità per queste persone che trascorrono le giornate sempre nello stesso modo e che sanno di non poter mai più mettere piedi fuori, nell'altra parte del mondo.

Ma la vita sa riservare sorprese anche in un contesto protetto come l'Unità, dove tutto è controllato rigorosamente, dove non c'è una vita privata per il singolo ospite, dove le telecamere sono presenti - in stile Grande Fratello - in ogni anfratto, anche in bagno.

L'amore, ad es., è una forza tanto potente da sfuggire ai controlli e irrompe nell'esistenza monotona di Dorrit nella persona di Johannas, un uomo un po' più grande di lei con cui inizia una relazione prima fisica e poi anche d'amore; i due si innamorano follemente e l’inaspettata felicità li travolge donando nuovi colori alla scialba e fin troppo abitudinaria vita nell'Unità.

L'amore con e per Johannas induce Dorrit a riconsiderare ogni cosa, anche le regole cui devono essere soggetti i Dispensabili.

Ma chi ha deciso, e con quale autorità, che le persone portate forzatamente nell'Unità debbano rassegnarsi a un destino così triste e ingiusto, in cui è previsto che il loro corpo sia donato alla scienza e alla società senza che esse possano decidere se vogliono sottostare volontariamente a questi programmi?

Chi l'ha detto che chi non ha un coniuge o dei figli non sia utile o che lo sia solo nel modo in cui altri ("quelli che comandano") hanno deciso per loro?

Dorrit fa una scoperta personale che cambia il suo modo di vedere le cose, che instilla in lei il pensiero di ribellarsi, di non accettare passivamente quel triste destino determinato da volontà esterne.

È possibile anche per un dispensabile essere felice? Avere la possibilità di uscire dall'Unità e andare a vivere fuori, all'esterno dell'Unità?
O una volta entrati in quel luogo falsamente bucolico e piacevole non è più possibile uscirne vivi?

A dispetto di ciò che ci si aspetta da lei, Dorrit sogna e spera un futuro differente, in cui lei è viva, innamorata e appagata.
Ne ha il diritto, lo sente, perché è un essere umano come tutti, con dei desideri, la voglia di avere una famiglia, di essere felice.

Riuscirà a trovare il modo per uscire da quel posto e vivere la propria vita al di fuori di quella prigione?

"L'unità" è un romanzo distopico che mi ha sorpreso positivamente e che ho ascoltato con molto interesse e lasciandomi coinvolgere emotivamente.

Fa rabbia immaginare un tipo di società in cui delle persone vengano emarginate, poste in luoghi separati dal resto del mondo e giudicate non utili solo perché non sono mariti/mogli né genitori, che esse non abbiano il potere sul proprio corpo, sulla propria vita, ma siano costrette ad andare incontro a un destino già segnato e che li rende dei topolini da laboratorio, di cui la scienza può disporre come e quando vuole.
È triste immaginare che un individuo possa essere considerato meritevole di vivere solo se risponde a determinati requisiti e convenzioni sociali, e come un tipo di vita differente (con obiettivi diversi dall'essere "accasati" e fare figli) non sia contemplato e ammesso.
Hai senso e valore solo se sei in coppia, in pratica.

Crea angoscia il pensiero di questi ospiti che vivono giorno per giorno chiedendosi: "La prossima volta verrò chiamata per donare... quale organo? Per partecipare a quale tipo di esperimento? E quando arriverà la donazione finale?"
È come essere un condannato a morte che sa di dover andare incontro alla propria esecuzione ma non sa il giorno, che potrebbe essere l'indomani o tra cinque anni.

È un romanzo che dà modo di riflettere su cosa ci si aspetta dalle donne all'interno della società, su come vengano considerate le persone ormai ritenute "troppo grandi anagraficamente" e non più in età fertile, su cosa sia "normale" e socialmente accettabile e cosa non lo sia.

Consigliato a chi ama le distopie e ha voglia di una lettura avvincente, originale per diversi aspetti e che pone l'attenzione su tematiche etiche e sociali profonde.

Promosso!!

4 commenti:

  1. Segno subito! Non leggo distopici da un pezzo. Un abbraccio.

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    1. Per me è stata una bella scoperta ✌️(⁠。⁠•̀⁠ᴗ⁠-⁠)⁠✧
      Un abbraccio a te

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  2. Ciao Angela, che storia agghiacciante, peggio di un horror! Il solo leggere la recensione mi ha fatto venire l'ansia 😨

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    1. Ahah beh non hai tutti i torti (⁠・⁠o⁠・⁠)

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz