In un mondo impazzito e ormai ridotto a un lugubre cumulo di macerie, è possibile coltivare la speranza in un futuro più luminoso e umano?
LA STRADA
di Cormac McCarthy
Einaudi trad. M. Testa 218 pp 12 euro |
“Su questa strada non c’è benedetta anima viva. Sono scomparsi tutti tranne me e si sono portati via il mondo”.
Immaginare di calcare il suolo della terra in cui siamo nati e destinati a vivere, e non ritrovare nulla di ciò che è stato un tempo, credo sia qualcosa di terribile.
Siamo in America e lo scenario proposto e immaginato dall’Autore è davvero, terribile, e il lettore ne è spettatore diretto attraverso gli occhi dei due protagonisti, un padre e il suo figlioletto che, in compagnia di un carrello in cui riporre i pochi oggetti e viveri a disposizione, camminano lungo una strada, dirigendosi verso un indefinito sud, forse con la speranza di trovare altre persone con cui unirsi e provare a ricominciare a vivere (?).
Non sappiamo chi siano questi due sopravvissuti, non ci viene detto il nome, l’età, la provenienza (ogni cosa è stata loro tolta, dall’identità alla casa, dal cibo alla propria città): lui è semplicemente l’uomo e l’altro è il suo bambino, suo figlio, l’unico legame rimastogli con la sua vita “precedente”.
Fa freddo, molto freddo, e i due proseguono stanchi, affamati, alla perenne ricerca di coperte e quant’altro possa servire per scaldarsi e coprirsi i piedi, così da poter camminare senza congelarsi o ferirsi; ma la priorità è il cibo, ed il padre sa di dover superare diffidenze e timori pur di sfamare il suo bambino, e se questo significa infilarsi in abitazioni ormai ridotte a tuguri puzzolenti e disabitati, col rischio di non trovare alcun alimento commestibile ma solo qualcuno pronto a spararti, lui è disposto a farlo. Perché mantenere in vita suo figlio è la sola missione che gli resta.
Non sappiamo bene cosa sia successo alla terra, se non che non moltissimi anni prima si presume ci sia stata una mega catastrofe nucleare che l’ha resa un postaccio invivibile, spoglio, infernale, ricoperto da uno spesso strato di cenere; le notti sono lunghe, buie, di un gelo assassino; ovunque si possono trovare cadaveri mummificati, corpi senza vita raggrinziti, sempre senza scarpe (i sopravvissuti le hanno rubate); le macchie boschive rimaste sono anch’esse tetre, bruciacchiate, ciò che resta di case o negozi è un cumulo di rovine tristi, carbonizzate, i pochi specchi d’acqua sono putridi e stagnanti.
Il mondo ha perso ogni minima traccia di bellezza, non vi è che un’oscurità implacabile, un vuoto nero e opprimente, un “terra morta senza testamento” e, al pari di due fantasmi impauriti e disorientati, l’uomo e suo figlio vagano lungo questa strada desolata, senza mai discostarsi troppo da essa se non per trovare un rifugio per la notte, provando a riposare per riprendere le forze in vista di un nuovo eterno cammino verso “questo sud” indicato su una mappa sgualcita.
Il padre è sempre all’erta, con la pistola in pugno e l’altra mano sul carrello; una pistola con due soli colpi disponibili, per difendersi da altri sopravvissuti come loro ma che non fanno parte dei “buoni” bensì dei “cattivi”.
Lungo il percorso solitario, infatti, i due viaggiatori incontrano altri esseri umani: alcuni hanno maschere antigas, tute antiradiazioni, sono aggressivi, affamati, incattiviti e da essi bisogna proteggersi (eventualmente sparando per primi) e scappare; e poi ci sono altre creature disgraziate peggio del padre e del figlio, con pochi e sporchi stracci addosso, lo stomaco vuoto, i radi capelli unti, il corpo paurosamente scheletrico.
È un viaggio connotato dalla ripetitività di parole ed azioni (mettersi in cammino, nascondersi, cercare cibo, dormire) ma non per questo meno drammatico, faticoso, lento e pericoloso, perché c’è da stare attenti e guardarsi sempre le spalle, in quanto i pericoli non mancano, in giro ci sono i “cattivi” che hanno davvero brutte intenzioni verso i “buoni”…, e vi lascio immaginare in tempi di carestia quali “misure” estreme si può arrivare ad adottare pur di nutrirsi…
Il padre sa com’era la vita prima, ha conosciuto il mondo antecedente l’apocalisse, e ogni tanto i suoi ricordi prendono il sopravvento, così in quei pochi flashback conosciamo la moglie, nonché mamma del bambino, che ha preferito non esserci per non assistere agli orrori successivi all’olocausto nucleare; il bimbo è nato proprio durante la guerra e al suo fianco ha solo questo padre che cerca in tutti i modi di tenerlo in vita.
Il rapporto tra i due è intenso, tenero, sincero; il padre si preoccupa sempre di chiedere al figlio un suo parere su ciò che accade loro durante il giorno, cerca di farlo parlare e di impedirgli che si chiuda in se stesso, gli spiega sempre ciò che sta per fare e, quando può, fa di tutto perché non assista a visioni orribili e di morte (come dicevo poche righe su, l’uomo arriva a commettere azioni davvero turpi in tempi oscuri, non esitando ad essere “lupo” per i suoi simili), anche se è difficile evitare che il bambino non guardi la distruzione e il contesto raccapricciante che gli è intorno.
Spesso il ragazzino diventa triste e taciturno, osserva in silenzio quel padre che a volte sembra perdersi tra gli spettri del passato e di ricordi lontani, e non sempre condivide le sue scelte; fa tenerezza leggere episodi in cui emerge tutta l’innocente bontà presente nell’animo puro del bimbo, rispetto all’atteggiamento più pratico e comprensibilmente egoistico dell’uomo, che non si fida di nessuno - neanche di chi sta messo peggio di loro e probabilmente non è in grado di danneggiarli realmente - e che mal volentieri è disposto a donare ad altri qualcosa dei pochi viveri che riesce a racimolare con un po’ di fortuna e che servono al figlio e a lui stesso.
I dialoghi tra i due sono brevi, essenziali e spesso si concludono con un ok, rassegnato e non sempre convinto da parte del ragazzino, che accetta, in un misto di passività e fiducia, le decisioni e le spiegazioni paterne, anche se magari non le comprende appieno.
Commuove l’insistenza con cui l’uomo cerca di incoraggiare il figlio a non arrendersi, a credere che sì, loro sono i buoni e che, nonostante i cattivi in giro, troveranno altri buoni come loro; lo esorta a preservare il fuoco e il bene che sono dentro di lui perché saranno la sua salvezza.
Ciò che colpisce di questo libro non è tanto la storia in sé, che comunque riesce ad essere tremenda e soffocante nella sua semplicità, ma è lo stile: l’Autore sa come conciliare lo sfondo crudo e cupo con punte di lirismo che caratterizzano diversi momenti ed in particolare nelle ultime pagine - pura poesia - che stringono il cuore e indirizzano il lettore a simpatizzare con i suoi “poveri” protagonisti fino alla fine.
Lo ammetto: un po’ mi è mancato sapere in modo chiaro cosa sia successo alla terra e all’umanità per ridursi in un tale stato di abbandono e miseria - materiale e non -, mi sarebbe piaciuto anche conoscere qualcosa di più del passato dell’uomo e di come stavano vivendo questo stato di cose altre persone, ma sono pensieri che ho formulato soprattutto all’inizio, quando ho dovuto prendere familiarità con la storia e capire in quali anguste condizioni stessero sopravvivendo l’uomo e suo figlio.
Andando avanti, camminando insieme a loro lungo la strada, questi interrogativi si attenuano e ciò che resta è l’aspetto emotivo che accompagna la narrazione: si resta rapiti dal legame padre-figlio, dai tentativi del primo di non soccombere (per il bene del ragazzo) e dalle osservazioni così umane e sensibili del secondo, che ci lasciano comprendere come proprio nel ragazzino, in un cuore pulito e buono come il suo, possa risiedere l’unica possibilità per l’umanità.
Un romanzo post-apocalittico scritto con grande sapienza narrativa; le descrizioni vivide, realistiche di un ambiente desolato, grigio e silenzioso - in cui le persone rimaste vivono in una condizione primitiva, degna dei cannibali e dei selvaggi, in cui ogni forma di civiltà e progresso è un lontanissimo ricordo - viaggiano di pari passo con lo stato d’animo e l’aspetto fisico dei protagonisti (malinconici, sofferenti, sfiniti, emaciati, lerci).
Un romanzo che merita di essere letto, a mio avviso; recupererò il film.
Immaginare di calcare il suolo della terra in cui siamo nati e destinati a vivere, e non ritrovare nulla di ciò che è stato un tempo, credo sia qualcosa di terribile.
Siamo in America e lo scenario proposto e immaginato dall’Autore è davvero, terribile, e il lettore ne è spettatore diretto attraverso gli occhi dei due protagonisti, un padre e il suo figlioletto che, in compagnia di un carrello in cui riporre i pochi oggetti e viveri a disposizione, camminano lungo una strada, dirigendosi verso un indefinito sud, forse con la speranza di trovare altre persone con cui unirsi e provare a ricominciare a vivere (?).
Non sappiamo chi siano questi due sopravvissuti, non ci viene detto il nome, l’età, la provenienza (ogni cosa è stata loro tolta, dall’identità alla casa, dal cibo alla propria città): lui è semplicemente l’uomo e l’altro è il suo bambino, suo figlio, l’unico legame rimastogli con la sua vita “precedente”.
Fa freddo, molto freddo, e i due proseguono stanchi, affamati, alla perenne ricerca di coperte e quant’altro possa servire per scaldarsi e coprirsi i piedi, così da poter camminare senza congelarsi o ferirsi; ma la priorità è il cibo, ed il padre sa di dover superare diffidenze e timori pur di sfamare il suo bambino, e se questo significa infilarsi in abitazioni ormai ridotte a tuguri puzzolenti e disabitati, col rischio di non trovare alcun alimento commestibile ma solo qualcuno pronto a spararti, lui è disposto a farlo. Perché mantenere in vita suo figlio è la sola missione che gli resta.
“Io ho il dovere di proteggerti. Dio mi ha assegnato questo compito. Chiunque ti tocchi, io lo ammazzo”.
Non sappiamo bene cosa sia successo alla terra, se non che non moltissimi anni prima si presume ci sia stata una mega catastrofe nucleare che l’ha resa un postaccio invivibile, spoglio, infernale, ricoperto da uno spesso strato di cenere; le notti sono lunghe, buie, di un gelo assassino; ovunque si possono trovare cadaveri mummificati, corpi senza vita raggrinziti, sempre senza scarpe (i sopravvissuti le hanno rubate); le macchie boschive rimaste sono anch’esse tetre, bruciacchiate, ciò che resta di case o negozi è un cumulo di rovine tristi, carbonizzate, i pochi specchi d’acqua sono putridi e stagnanti.
Il mondo ha perso ogni minima traccia di bellezza, non vi è che un’oscurità implacabile, un vuoto nero e opprimente, un “terra morta senza testamento” e, al pari di due fantasmi impauriti e disorientati, l’uomo e suo figlio vagano lungo questa strada desolata, senza mai discostarsi troppo da essa se non per trovare un rifugio per la notte, provando a riposare per riprendere le forze in vista di un nuovo eterno cammino verso “questo sud” indicato su una mappa sgualcita.
Il padre è sempre all’erta, con la pistola in pugno e l’altra mano sul carrello; una pistola con due soli colpi disponibili, per difendersi da altri sopravvissuti come loro ma che non fanno parte dei “buoni” bensì dei “cattivi”.
Lungo il percorso solitario, infatti, i due viaggiatori incontrano altri esseri umani: alcuni hanno maschere antigas, tute antiradiazioni, sono aggressivi, affamati, incattiviti e da essi bisogna proteggersi (eventualmente sparando per primi) e scappare; e poi ci sono altre creature disgraziate peggio del padre e del figlio, con pochi e sporchi stracci addosso, lo stomaco vuoto, i radi capelli unti, il corpo paurosamente scheletrico.
È un viaggio connotato dalla ripetitività di parole ed azioni (mettersi in cammino, nascondersi, cercare cibo, dormire) ma non per questo meno drammatico, faticoso, lento e pericoloso, perché c’è da stare attenti e guardarsi sempre le spalle, in quanto i pericoli non mancano, in giro ci sono i “cattivi” che hanno davvero brutte intenzioni verso i “buoni”…, e vi lascio immaginare in tempi di carestia quali “misure” estreme si può arrivare ad adottare pur di nutrirsi…
Il padre sa com’era la vita prima, ha conosciuto il mondo antecedente l’apocalisse, e ogni tanto i suoi ricordi prendono il sopravvento, così in quei pochi flashback conosciamo la moglie, nonché mamma del bambino, che ha preferito non esserci per non assistere agli orrori successivi all’olocausto nucleare; il bimbo è nato proprio durante la guerra e al suo fianco ha solo questo padre che cerca in tutti i modi di tenerlo in vita.
Il rapporto tra i due è intenso, tenero, sincero; il padre si preoccupa sempre di chiedere al figlio un suo parere su ciò che accade loro durante il giorno, cerca di farlo parlare e di impedirgli che si chiuda in se stesso, gli spiega sempre ciò che sta per fare e, quando può, fa di tutto perché non assista a visioni orribili e di morte (come dicevo poche righe su, l’uomo arriva a commettere azioni davvero turpi in tempi oscuri, non esitando ad essere “lupo” per i suoi simili), anche se è difficile evitare che il bambino non guardi la distruzione e il contesto raccapricciante che gli è intorno.
Spesso il ragazzino diventa triste e taciturno, osserva in silenzio quel padre che a volte sembra perdersi tra gli spettri del passato e di ricordi lontani, e non sempre condivide le sue scelte; fa tenerezza leggere episodi in cui emerge tutta l’innocente bontà presente nell’animo puro del bimbo, rispetto all’atteggiamento più pratico e comprensibilmente egoistico dell’uomo, che non si fida di nessuno - neanche di chi sta messo peggio di loro e probabilmente non è in grado di danneggiarli realmente - e che mal volentieri è disposto a donare ad altri qualcosa dei pochi viveri che riesce a racimolare con un po’ di fortuna e che servono al figlio e a lui stesso.
I dialoghi tra i due sono brevi, essenziali e spesso si concludono con un ok, rassegnato e non sempre convinto da parte del ragazzino, che accetta, in un misto di passività e fiducia, le decisioni e le spiegazioni paterne, anche se magari non le comprende appieno.
Commuove l’insistenza con cui l’uomo cerca di incoraggiare il figlio a non arrendersi, a credere che sì, loro sono i buoni e che, nonostante i cattivi in giro, troveranno altri buoni come loro; lo esorta a preservare il fuoco e il bene che sono dentro di lui perché saranno la sua salvezza.
Ciò che colpisce di questo libro non è tanto la storia in sé, che comunque riesce ad essere tremenda e soffocante nella sua semplicità, ma è lo stile: l’Autore sa come conciliare lo sfondo crudo e cupo con punte di lirismo che caratterizzano diversi momenti ed in particolare nelle ultime pagine - pura poesia - che stringono il cuore e indirizzano il lettore a simpatizzare con i suoi “poveri” protagonisti fino alla fine.
Lo ammetto: un po’ mi è mancato sapere in modo chiaro cosa sia successo alla terra e all’umanità per ridursi in un tale stato di abbandono e miseria - materiale e non -, mi sarebbe piaciuto anche conoscere qualcosa di più del passato dell’uomo e di come stavano vivendo questo stato di cose altre persone, ma sono pensieri che ho formulato soprattutto all’inizio, quando ho dovuto prendere familiarità con la storia e capire in quali anguste condizioni stessero sopravvivendo l’uomo e suo figlio.
Andando avanti, camminando insieme a loro lungo la strada, questi interrogativi si attenuano e ciò che resta è l’aspetto emotivo che accompagna la narrazione: si resta rapiti dal legame padre-figlio, dai tentativi del primo di non soccombere (per il bene del ragazzo) e dalle osservazioni così umane e sensibili del secondo, che ci lasciano comprendere come proprio nel ragazzino, in un cuore pulito e buono come il suo, possa risiedere l’unica possibilità per l’umanità.
“Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.”
Un romanzo post-apocalittico scritto con grande sapienza narrativa; le descrizioni vivide, realistiche di un ambiente desolato, grigio e silenzioso - in cui le persone rimaste vivono in una condizione primitiva, degna dei cannibali e dei selvaggi, in cui ogni forma di civiltà e progresso è un lontanissimo ricordo - viaggiano di pari passo con lo stato d’animo e l’aspetto fisico dei protagonisti (malinconici, sofferenti, sfiniti, emaciati, lerci).
Un romanzo che merita di essere letto, a mio avviso; recupererò il film.
“Ricordati che le cose che ti entrano in testa, poi ci restano per sempre (…) Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ci ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare”.
Il film mi era piaciuto molto, grande Mortensen! Il romanzo, invece, in lista da anni. Mi hai fatto venire voglia...
RispondiEliminaSono curiosa di vedere il film!!
EliminaCiao Angela, conoscevo il romanzo solo per il titolo, ma non sapevo nemmeno di cosa parlasse... grazie per avermelo fatto scoprire ;-)
RispondiEliminaMerita, secondo me :)
EliminaCertamente deve piacere il genere
Affascinante storia che ci richiama ad essere più attenti verso la salute del nostra pianeta. Ferire la Terra vuol dire uccidere l'uomo. Prima lo comprendiamo meglio è :)
RispondiEliminaHai ragione, siamo responsabili di come trattiamo il nostro pianeta e certe brutte conseguenze ce le attiriamo con la nostra mancanza di rispetto.
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