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mercoledì 22 maggio 2019

Recensioni film || BLACKKKLANSMAN (Spike Lee) - IL TESTIMONE INVISIBILE (Stefano Mordini)



Cari lettori amanti del cinema, con questo post di oggi desidero segnalarvi un paio di film che ho avuto modo di vedere negli ultimi tempi.

Il primo è una pellicola di Spike Lee che, con una vena umoristica, affronta un tema sociale serio e purtroppo sempre attuale: la discriminazione razziale nei confronti dei neri da parte di una frangia di fanatici intenzionati a riesumare il Klu Klux Klan.


Il secondo è un thriller made in Italy: una donna viene ritrovata morta e del suo assassinio ne deve rispondere l’amante, che però si dichiara innocente; arrivare alla verità, gli ricorda l’abile avvocato, richiede però un percorso di sofferenza e un’attenzione meticolosa per i dettagli…


BLACKKKLANSMAN

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Regia: Spike Lee.
Cast: John David Washington, Adam Driver, Topher Grace, Laura Harrier, Ryan Eggold.

Il film ha ottenuto 6 candidature e vinto un premio ai Premi Oscar.

Diciamo subito che il film è ispirato a fatti ed eventi realmente accaduti (con qualche deviazione, of course) incentrati sulla figura di Ron Stallworth, un poliziotto afro-americano che negli anni Settanta riuscì ad entrare e a far parte del Ku Klux Klan.

Sono anni in cui infuria la lotta per i diritti civili da parte dei neri ma l’astuto ed efficiente Ron Stallworth riesce a diventare il primo detective afroamericano del dipartimento di polizia di Colorado Springs; certo, non tutti gli sono amici e anzi l’uomo viene visto e accolto con scetticismo ed ostilità da molti membri di tutte le sezioni del dipartimento.

Ma Ron ingoia qualche rospo e va dritto per la sua strada, convinto di poter farsi un nome e di fare la differenza nella sua comunità. Per dimostrare di non essere diverso dai suoi colleghi, chiede di poter infiltrarsi nel Ku Klux Klan per scoprirne le intenzioni criminali.

Fingendosi un estremista razzista, Stallworth contatta il gruppo e presto penetra all'interno della sua cerchia più ristretta, ottenendo anche la famosa tessera; ovviamente, essendo consapevole che nessun membro del KKK darebbe mai la tessera ad un nero, manda in missione segreta un collega, che finge di essere lui - Flip Zimmerman, di origine ebraica (e non è che gli ebrei siano più amati dei neri da codesti fanatici!).

Intanto però frequenta anche un gruppo di afro-americani coinvolti in modo attivo nella lotta alla discriminazione (Black Power) e tra loro conosce una bella ragazza, di cui si invaghisce.

Per sembrare un attivista del KKK convinto, Ron finge di essere chi non è, intrattenendo una “relazione telefonica” con il Gran Maestro del Klan, David Duke: a lui Ron non dice, ovviamente, di essere di colore e infatti l’altro è convinto di parlare con un perfetto esponente della pura razza ariana che si sta impegnando per il progresso dell'America Bianca.
Man mano che l'indagine sotto copertura procede, diventando sempre più complessa, il collega di Stallworth, Flip Zimmerman partecipa insieme a Ron agli incontri privati con membri del gruppo razzista, venendo così a conoscenza dei dettagli di un complotto mortale.
Stallworth e Zimmerman fanno squadra e uniscono gli sforzi per riuscire a distruggere l'organizzazione il cui vero obiettivo è modificare la propria retorica violenta per ottenere il consenso della massa.

È un film che si lascia guardare con piacere perché ha un ritmo vivace e un gradito black humor che guida le azioni del protagonista, per cui anche se si tratta di una tematica serissima non c’è alcuna pesantezza o vena melodrammatica, proprio grazie al simpatico inganno operato da Ron e il collega, che si “scambiano l’identità” per poter sembrare dei convinti membri del KKK.
Fanno sorridere le telefonate del Gran Maestro con Ron, perché il primo è straconvinto di poter riconoscere un bianco da un nero solo sentendolo parlare, ed invece non riuscirà mai a capire che dall’altra parte del filo c’è un uomo di colore che lo sta prendendo per i fondelli.

Ci sono, come dicevo, delle differenze con la storia vera, come ad es. il tocco sentimentale, ma in linea di massima le peripezie di Stallworth sono quelle descritte da Spike Lee.

I matti del KKK sono degli esaltati veri e propri, che si riempiono la bocca di parole come Dio, ariano, razza bianca, difesa della razza, e sia maschi che femmine risultano ridicoli e patetici nei loro atteggiamenti esagerati e isterici nei confronti dei “non ariani”. Però, lungi dal voler sminuire il fanatismo e il razzismo di una certa fascia di americani, a fine film ci vengono mostrate alcune immagini vere, di repertorio, di gruppi di individui fissati con la storia della superiorità razziale, quindi il tema sarà pure affrontato in modo simpatico ed ironico, ma è un fatto serio e c’è da tenere gli occhi aperti…!

A me i film che trattano questi argomenti piacciono, e di questo ho apprezzato non solo la storia in sé (che mi ha incuriosita, per cui poi ho cercato qualche informazione su questo coraggioso poliziotto) ma anche il tono leggero scelto per parlarne.



Il secondo film, come dicevo, è un thriller, diretto da Stefano Mordini, con Riccardo Scamarcio,  Miriam Leone, Fabrizio Bentivoglio e Maria Paiato.

IL TESTIMONE INVISIBILE



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Adriano Doria è un giovane imprenditore di successo che si incontra con l'amante, l’affascinante fotografa Laura, in un albergo  piuttosto isolato.
Qualcuno però - ci viene mostrato nelle prime sequenze - ferisce Adriano e poi colpisce mortalmente Laura, che muore all'istante.
Doria resta privo di coscienza, quando riprende i sensi s'accorge che Laura è morta: non ha neppure il tempo di realizzare lucidamente cosa sia successo, che la polizia fa irruzione nella camera e lo arresta.

Tutti i sospetti non possono che cadere su di lui, visto che erano insieme, la stanza era chiusa dall'interno e nessun testimone ha visto entrare o uscire qualcun altro..., quindi l'unico possibile assassino... è lui.

Ma Adriano non ci sta e afferma con decisione la propria innocenza, raccontando la propria versione dei fatti, che è appunto quella che viene presentata dai primi minuti allo spettatore: c'era qualcuno nascosto nella stanza, qualcuno che ha teso ai due amanti una trappola per poi ammazzare lei facendo in modo che la colpa ricadesse su di lui.

E chi potrebbe essere questo qualcuno?
Doria non lo sa: sa soltanto che qualcuno deve essersi intrufolato e aver  commesso il delitto, perchè lui non è stato.

L'uomo si ritrova a fare il punto della propria situazione al cospetto della penalista Virginia Ferrara, consigliatagli dal suo avvocato per la bravura e per non aver perso mai una causa.
La donna, dall'aspetto severo, deciso, professionale, e dallo sguardo penetrante, mette sotto torchio il proprio cliente, dicendogli che non possono permettersi di perdere tempo perchè entro poche ore il giudice potrebbe ordinare l'arresto del Doria: i due hanno, quindi, tre ore per preparare  la strategia difensiva e  cercare la prova della sua innocenza.

Messo con le spalle al muro, Adriano viene costretto a raccontare tutta la verità dalle domande serrate della Ferrara, una donna molto intelligente e astuta, che mette in guardia l'uomo dal tentare di prenderla in giro, perchè lei non è un tipo facile da raggirare.
Così, seguiamo Adriano nel suo racconto di come sono andati i fatti, secondo lui; del resto, essendo morta, Laura certo non può raccontare la propria versione!

I due sono stati amanti ma a un certo punto, per via dei sensi di colpa verso l'amata famiglia, Adriano decide di troncare la tresca adulterina; trascorrono insieme le ultime ore della loro relazione in un hotel sperduto in alta montagna e, mentre sono in macchina per poi lasciarsi definitivamente e tornare ognuno alla propria vita, accade un incidente: a causa di un cervo sbucato all'improvviso, Adriano perde il controllo dell'auto e sbanda...; i due ne escono illesi ma hanno urtato un'altra macchina, su cui c'erano un uomo...: scoprono subito che lo sfortunato autista è rimasto gravemente ferito, anzi... pare proprio morto.

E adesso che si fa? 
I due amanti sanno che, se dovessero denunciare l'incidente, verrebbe fuori che erano assieme e la loro relazione non resterebbe più un segreto, rischiando di rovinare le rispettive famiglie.
Per quanto siano scioccati, Laura e Adriano fanno delle scelte egoistiche che inevitabilmente li conducono su un terreno scivoloso e pericoloso, dando il via a tutta una serie di circostanze  torbide, ambigue, le sui conseguenze e implicazioni potrebbero svilupparsi in maniera insospettabile, coinvolgendo altre persone e mettendo a rischio i loro segreti e la montagna di bugie che man mano hanno costruito per nascondere le proprie malefatte...

Lo spettatore si ritrova quindi a seguire il presente e il passato: il primo è segnato dall'interrogatorio della penalista, che pretende da Doria tutta la verità, cosa che lui - comprendiamo man mano - è restio a raccontare in modo onesto: perché? Cosa sta nascondendo? C'è davvero qualcuno che potrebbe avere interesse a danneggiarlo mandandolo in galera per un omicidio che non ha commesso?
E c'è il passato: attraverso ripetuti flashback, conosciamo ciò che è accaduto prima dell'assassinio di Laura, e quindi la loro relazione, l'incidente causato dal cervo e le conseguenze nefaste delle scelte operate in quell'occasione.
Perchè ricordiamoci sempre che nell'altra auto c'era una persona e qualcuno la starà pur cercando...!

Nel corso delle domande della penalista, veniamo messi a confronto anche con altre versioni dei fatti, opposte a quelle raccontate da Doria: e se non fosse l'innocente imprenditore che vuole apparire? Se dietro quella faccia imperturbabile, quell'atteggiamento apparentemente calmo, si nascondesse un uomo disposto a tutto pur di non colare a picco e ritrovarsi al centro di uno scandalo? 
Ma soprattutto, resta il dilemma iniziale: chi ha ucciso Laura e perchè?

Intanto, la Ferrara fa sapere al suo arrogante cliente che è saltato fuori un testimone chiave, che potrebbe far crollare la sua versione dei fatti...

Ho guardato questo thriller dal primo all'ultimo minuto con molto interesse e coinvolgimento; i flashback non li ho trovati confusionari, anzi rendono la narrazione e la ricostruzione (che si incrocia con ciò che emerge attraverso il colloquio di Doria con la penalista) vivace e appassionante; mi è piaciuto molto il personaggio enigmatico della Paiato, cui l'attrice dà intensità e carattere, e davanti al cui sguardo determinato e alla voce dura, pure uno sicuro di sè come Adriano Doria rischia di vacillare; importanti sono i dettagli - come ripete quasi ossessivamente la Ferrara a Doria, che glissa, "dice e non dice", si innervosisce - e infatti anche lo spettatore deve stare attento a quelle che sembrano minuzie: uno sguardo, un cenno col capo, un oggetto poco importante...

Non si può nascondere per sempre la verità, perchè essa è come un corpo gettato in acqua: a un certo punto, viene a galla, e per quanto ci si sforzi per soffocarla, insabbiarla, per quanta motivazione si abbia nel farlo, ci sarà sempre qualcun altro altrettanto motivato a dissotterrarla... Qualcuno mosso dal dolore, dalla disperazione, consapevole di non aver più nulla da perdere, avendo già perso tanto..., troppo.

Il colpo di scena finale stupisce in positivo e per quanto mi riguarda lo reputo un thriller ben riuscito, sia per il cast che per come è stata sviluppata la storia; so che è il remake di una pellicola spagnola (Contratiempo), ma non l'ho vista e non posso fare paragoni o altre considerazioni in merito; leggendo la trama, mi pare di aver capito che sia praticamente uguale.
Comunque, a prescindere dal fatto che non sia originale, per me "Il testimone invisibile" è un film fatto bene e piacevole da guardare, in grado di mantenere costante la suspense e teneresveglia l'attenzione dello spettatore dall'inizio alla fine.

Consiglio ambedue le visioni ^_^

sabato 27 aprile 2019

Mini-recensioni film || TITO E GLI ALIENI (P. Randi) - A STAR IS BORN (B. Cooper)



Uno scienziato vedovo depresso e il suo nipotino rimasto orfano sono intenzionati a captare un segnale proveniente dallo spazio da parte dei loro cari.
Bradley Cooper, alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, ha confezionato un film drammatico e sentimentale bello e disperato.

TITO E GLI ALIENI


Regia di Paola Randi
con Valerio Mastandrea, Clémence Poésy, Luca Esposito (II), Chiara Stella Riccio.

Anita e Tito sono fratello e sorella; sono rimasti orfani, avendo appena perso il papà ed essendo già senza mamma.
Il padre, prima di morire, ha pensato al futuro dei figli, affidandoli al fratello, uno scienziato che vive in America.
I due ragazzi, quindi, sono costretti a emigrare in America da questo zio mai visto prima, un tipo solitario, di pochissime parole, che decisamente non risponde alle loro aspettative.

Il Professore vive nel deserto del Nevada e sta spendendo la vita ad ascoltare il suono dello Spazio alla ricerca di una voce; ma non una voce qualsiasi, bensì quella della cara moglie morta diversi anni prima.

Valerio Mastandrea è un attore fantastico, non c'è bisogno di sottolinearlo, e se c'è un tipo di personaggio che gli riesce benissimo è, un po' come la Buy, quello triste, dall'aria dimessa, stanca, un po' burbero, taciturno (per carità, è bravissimo anche in ruoli ironici e più leggeri, come in Perfetti sconosciuti o I Tre Moschettieri), e in questo film è proprio così.

L'uomo vive quindi a un passo dall'Area 51 per seguire, o almeno dovrebbe, un progetto per conto del governo degli Stati Uniti.
Il suo torpore esistenziale è interrotto quotidianamente da Stella, giovane wedding planner per turisti che credono ancora agli alieni; altra compagnia essenziale è un computer - con una voce femminile gentile e cortese - di sua creazione con il quale interagisce, finalizzato alla ricerca del famoso segnale nello spazio.

La sua esistenza viene rivoluzionata dalla ricezione di un pacco postale e una registrazione video che gli annunciano l'arrivo dei nipoti Anita e Tito, preziosa eredità del fratello morto a Napoli.

Sebbene si senta inadeguato al compito, il professore lo accetta (che altro può fare?) e si attrezza, letteralmente, per accogliere i nipoti.
La convivenza non sarà facile, dovendo rapportarsi con Anita, che ha sedici anni e sogna un tuffo in piscina con Lady Gaga, e Tito che ne ha sette e desidera sopra a ogni cosa parlare ancora col suo papà, che lui non sa essere morto.

Com'è comprensibile, i due ragazzi portano scompiglio nelle placide giornate del Professore, che non smette comunque di dedicarsi al proprio particolare progetto, nonostante abbia appreso che di lì a pochi giorni la sua postazione verrà smantellata, visto che finora risultati non ne sono stati prodotti e il Governo s'è stufato di promuoverlo.

Il Professore avrà un ben daffare a gestire l'esuberante e ribelle nipote e la vivacità di Tito, il quale si convince che il suo stranissimo zio possa davvero aiutarlo a parlare con suo padre; non solo, ma l'uomo si sta rendendo conto di essere attratto da Stella, anche se è difficile per lui ammetterlo perchè il ricordo della moglie è ancora troppo presente...

Tra baruffe e incomprensioni, pc che vanno in tilt e il rischio che il progetto venga bloccato, ce la faranno il Professore e il piccolo Tito a parlare, almeno una volta, con i propri cari, a sentire la loro voce?

Un film molto carino, io non amo la fantascienza ma questo è stato piacevole e, lo confesso, a un certo punto mi ha anche commossa...
Forse non sarà paragonabile ai film fantascientifici made in USA, spettacolari e con effetti speciali di ultimissima generazione, però qui ho trovato quella ricerca dei "buoni sentimenti" che male non fa mai; e fa niente se alla fine mi ha ricordato Ghost, a me la lacrima è scappata e tanto mi basta, perchè io credo che tutti noi vorremmo poter ascoltare la voce di una persona amata e perduta, fosse anche per una volta sola, e il film tocca questo desiderio racchiuso in ognuno di noi, e lo fa con dolcezza e leggerezza.


A STAR IS BORN



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A Star Is Born, di e con Bradley Cooper, accanto al quale troviamo Lady Gaga, è la quarta versione cinematografica di questo musical, raccontato per la prima volta in un film del 1937, cui seguirono due remake (nel 1954 con Judy Garland e nel 1976 con Barbra Streisand).

La trama è presto detta: Jackson Maine è un musicista di successo che purtroppo alza troppo spesso il gomito; ha ancora il suo bel pubblico di affezionati che cantano le sue canzoni ma si sta avviando sul viale del tramonto.

Una sera, un po' per caso, in un night conosce la squattrinata artista Ally, che non sarà la donna più bella del mondo ma ha carisma da vendere, nonchè una grande voce.
Lei s'è convinta di non poter sfondare nel mondo della musica - non è abbastanza bella, in particolare è il naso a darle "problemi" - ma Jack l'ascolta cantare, sente le sue canzoni, e la convince a credere nel suo sogno e a calcare il palcoscenico.

I due cominciano cantando insieme, sono sempre più innamorati l'uno dell'altra, si sposano e la loro relazione sembra iniziare sotto una buona stella.
Se non fosse che purtroppo Jack continua a bere e, per contro, Ally comincia a diventare famosa, le viene offerto un ottimo contratto e in poco tempo diventa una vera e propria star, acclamata, richiesta, ben pagata, pronta a viaggiare e fare tournèe.

La splendida carriera di Ally sembra essere inversamente proporzionale a quella del compagno: lei inizia a spiccare il volo e lui va sempre più giù, nel baratro dell'alcolismo, e in questo modo anche la loro relazione comincia a perdere colpi a causa della battaglia che Jack conduce contro i propri demoni interiori.
Jack sembra diventare quasi un ostacolo per Ally - che  lui ama moltissimo, ma è un po' diviso tra l'amore per lei e un pizzico di gelosia per la sfolgorante carriera della moglie, che si sta allontanando da lui sempre più, infatti, anche se Ally cerca di stare vicina al suo Jack, i mille impegni lavorativi la tengono spesso lontana da casa.

Jackson si lascerà andare alla propria infelicità o l'amore di e per Ally basteranno a scuoterlo e a salvare la loro relazione?

Ho visto questo film sia perchè mi è stato ardentemente consigliato da un'amica e sia perchè ero curiosa di vedere Lady Gaga in questa sua prima prova come attrice.
Solitamente i film d'amore non rientrano tra le mie preferenze, a meno che la love story non sia collocata all'interno di una cornice bella, ricca, con una trama articolata e ben sostenuta; la storia di Ally e Jackson ha uno sviluppo in fondo abbastanza prevedibile, però questo film mi è comunque piaciuto perchè non è solo il racconto drammatico di una relazione sentimentale difficile, ma anche dei fallimenti e dei successi che accompagnano la vita dei protagonisti, e la fatica che devono fare per tenere in piedi il loro matrimonio, nel quale continuano a credere nonostante i problemi.
Bradley dà al suo personaggio un'aria maledetta, tormentata, malinconica, di cantante country avviatosi verso la stagionatura ma sempre fascinoso (la voce del doppiatore non mi ha entusiasmata, troppo cavernicola); convincente Lady Gaga; le canzoni del film sono belle e mi piace che abbiano deciso di registrarle dal vivo.
Bel film, ogni tanto un buon film sentimentale ci sta, se strappa una lacrimuccia ancora di più ^_^

martedì 29 gennaio 2019

Recensione film: THE PLACE (P. Genovese) || MOSCHETTIERI DEL RE. La penultima missione (G. Veronesi)



Cosa sei disposto a fare pur di ottenere ciò che più desideri?
I quattro moschettieri sono in fase di decadenza: ce la faranno a portare a compimento l'ultima missione affidata loro dall'amata regina?


THE PLACE


Il film ha ottenuto 4 candidature ai Nastri d'Argento, 8 candidature a David di Donatello.

REGIA: Paolo Genovese
ATTORI: Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Silvia D'amico, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi, Sabrina Ferilli, Giulia Lazzarini
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The Place - ispirato alla serie tv americana "The Booth at the End" - è un film particolare che, credo, può non piacere a tutti, anci forse non piace alla maggioranza.
Le persone cui l'ho consigliato, e che ho quasi costretto a vederlo con me, l'hanno cortesemente detestato e trovato noioso...; a me è piaciuto, ovviamente (non l'avrei consigliato, altrimenti) ^_^

La storia è presto detta: un uomo in giacca e cravatta (V. Mastandrea) è perennemente seduto al tavolo di un locale, giorno e notte, con un'enorme agenda accanto, impegnato a mangiare e ad accogliere le persone che spontaneamente si rivolgono a lui.

Di chi si tratta? Chi è questo misterioso personaggio, di cui non sappiamo il nome, la professione, l'età..., nulla? Queste informazioni, sappiatelo, non vi verranno mai date perchè, semplicemente, non è importante saperle.

L'uomo, dall'aria triste che più triste non si può, solo e di pochissime parole, riceve ogni giorno e per tutto il giorno visite da svariate persone: uomini, donne, persone anziane e ragazzi.

Chi sono queste persone?
Di loro, qualcosa veniamo a saperla.
C'è la giovane suora (A. Rohrwacher) che non riesce più a sentire Dio e questo la manda in crisi; c'è il padre disperato (V. Marchioni) con un figlio ammalato di cancro che vorrebbe poter salvare; c'è la ragazza caruccia che però vorrebbe essere bellissima (S. D'Amico); c'è la signora in là con gli anni col marito malato d'Alzheimer che vorrebbe le fosse restituito (G. Lazzarini); il meccanico innamorato della pornoattrice che ogni giorno lo guarda dal calendario (R. Papaleo) e con cui lui vorrebbe passare una notre; c'è il ragazzo cieco che sogna di recuperare la vista (A. Borghi); il poliziotto non proprio incorruttibile che desidera il perdono del figlio (M. Giallini); c'è il giovanotto sballato che odia suo padre e vorrebbe non doverlo più vedere (S. Muccino); c'è la moglie bella ma insoddisfatta del marito indifferente (V. Puccini), di cui vorrebbe risentire l'amore.

Insomma, un gruppetto di persone che si alternano in questo locale, il The Place appunto, e che si dirigono spedite al tavolo in fondo al locale, dove è seduto l'uomo del mistero, e a lui raccontano delle cose.
Cosa?
Ciascuna delle persone che vi ho menzionato sopra, come leggete, ha un desiderio profondo, difficile da realizzare, se non impossibile. 
L'uomo misterioso è lì per loro, pronto a esaudire ogni drammatica o superficiale richiesta, senza dare giudizi di sorta: egli ascolta con attenzione, prende appunti, fa poche ma incisive domande, insomma sembra mostrare disponibilità ed empatia ma non lasciatevi ingannare: quest'uomo non mostra mai vera pietà o comprensione.
Il suo ruolo è quello di affidare dei compiti a chi si rivolge a lui affinchè possa ottenere ciò che vuole.
Non c'è desiderio che possa essere realizzato senza soddisfare prima le terribili condizioni poste dall'uomo.
Vuoi diventare più bella? Ok, ma perchè questo avvenga devi fare una rapina.
Vuoi sentire nuovamente la voce di Dio? Ok, non devi fare altro che restare incinta.
Vuoi salvare tuo figlio dal cancro? Ammazza una bambina qualsiasi.
Vuoi riavere tuo marito guarito dall'Alzheimer? Benissimo, però prima metti una bomba da qualche parte e la fai scoppiare.

E via di questo passo.

A questi disperati, che sfilano ora arrabbiati ora angosciati ora eccitati davanti agli occhi attenti ma mesti dell'uomo con l'agenda, quest'ultimo dice che il loro sogno si può realizzare, solo che c'è un prezzo da pagare, uno specifico compito da portare a termine. E quanto più il loro desiderio è importante, tanto più il compito affidato è di un certo "tenore".

Quanto saranno disposti a spingersi oltre i protagonisti per realizzare i loro desideri? Chi di loro accetterà la sfida lanciata dall'enigmatico individuo, per il quale tutto sembra possibile?

Tutti gli chiedono chi egli sia veramente: il diavolo? un truffatore? 

Una cosa è certa: l'uomo è un pezzo di ghiaccio privo di sentimenti, che chiede cose mostruose ai suoi clienti.

"Perchè chiedi cose così orrende  tu?""Perchè c'è chi è disposto a farle".

E' vero, è portato a riflettere lo spettatore: Mastandrea pone condizioni tremende ai clienti, non ne considera la disperazione (ad es. quella del padre col figlio morente o del ragazzo cieco che vorrebbe vedere), ma pure essi...: una volta aver sentito la richiesta assurda, in molti casi crudele e disumana, perchè non se ne vanno via indignati? Perchè tornano da lui e sottostanno alle sue condizioni? Possibile che il loro desiderio è così grande e irrinunciabile che essi sarebbero disposti a commettere azioni immonde per ottenerlo?

Chi è il mostro?
L'uomo seduto al tavolo o chi va da lui?

"Sei un mostro.""Diciamo che dò da mangiare ai mostri".

Tutto questo via vai di gente si svolge sotto gli occhi della bella cameriera del The Place, Angela (S. Ferilli), che prova ad aprirsi un varco verso Mastandrea, cercando di farci amicizia, di farlo parlare di sè (visto che trascorre la giornata ad ascoltare i fatti altrui)..., pur rendendosi conto di come negli occhi di quell'uomo solo - che sembra non avere mai bisogno di dormire - sembri annidarsi tutta la sofferenza possibile, quella che proviene dai mali del mondo, dell'umanità.

Mastandrea dà al suo personaggio quell'aria seria, sofferente, di chi ogni giorno viene a contatto col Male che è negli uomini e questo è oltremodo stancante per lui.
Il personaggio della Ferilli è il suo esatto contrario: ingenua, solare, affabile, empatica, cerca di vedere il buono negli altri, compreso il suo abitudinario cliente che staziona nel locale, e la sua purezza alla fine sfiderà l'inquietante imperturbabilità di lui...

E' un film che inevitabilmente fa sorgere un sacco di domande nello spettatore.
Ad es. sul protagonista: chi è quest'uomo? Un essere sovrumano? Non ha un'identità, una casa, o mangia o sfoglia l'agenda e parla con i clienti, non dorme mai, non si alza dalla sedia neppure pur un attimo. Di lui non sappiamo nulla, se non che fa questo "mestiere" bislacco.
Chiaramente questo alone di mistero ha un che di paranormale, "fantascientifico", e può far storcere il naso perchè le perplessità su di lui non vengono mai risolte.
Del resto, tutto il film segue un filone "assurdo", nel senso di "non realistico", come lo è il legame - che ha un che di magico in quanto inspiegabile - tra sogno realizzato e condizioni da ottemperare.

Mi rendo conto che un film ambientato in una location statica, fissa, con la telecamera per lo più puntata sull'uomo e, alternativamente, sui clienti che si susseguono, possa non risultare particolarmente avvincente, ma il punto è che per me è uno degli aspetti più geniali di Genovese, il cui film si gioca tutto sui dialoghi, sulle espressioni facciali.

Il cast è eccezionale e ciascuno fa la sua parte in modo credibile, Mastandrea compreso, con la sua faccia stravolta per 90 minuti.
A me questo film piace perchè punta i riflettori sull'animo umano, su cosa si è disposti a fare quando si vuole a tutti i costi ottenere qualcosa di importanza vitale, anche se ciò significa andare contro dei principi che solitamente si giudicano imprescindibili.

"C'è qualcosa di terribile in ognuno di noi, e chi non è costretto a scoprirlo è molto fortunato".


MOSCHETTIERI DEL RE. La penultima missione



Regia: Giovanni Veronesi.
Cast: Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo, Sergio Rubini, Margherita Buy, Alessandro Haber, Matilde Gioli, Giulia Bevilacqua, Lele Vannoli, Valeria Solarino.


I Moschettieri sono cambiati.
Non sono più i quattro eroi che sbaragliavano decine e decine di nemici con l'abilità nell'uso della spada e del moschetto, impavidi e agili: sono quattro uomini di mezza età, invecchiati, ingrigiti, tristi, patetici, ognuno chiuso nel proprio orticello e nella propria piccola esistenza priva di grossi stimoli.

D'Artagnan (P. Favino) fa il "maialaro" e il suo fetore si sente da lontano; l'unica ragione per la quale attualmente prende in mano la spada è per battersi con i mariti gelosi delle proprie moglie, che guarda caso sono le sue amanti.

Athos (R. Papaleo) ha un alluce valgo che lo tormenta e trova momenti di piacere solo nel sesso con chiunque respiri.

Aramis (S. Rubini) è un frate indebitato che non ricorda neanche come si prende un'arma in mano e Porthos (V. Mastandrea) è forse il peggio conciato: un locandiere ubriacone, dipendente dall'oppio, che ha perso la gioia di vivere e con le emorroidi ad affliggerlo.

La regina Anna (M. Buy) - ignara di che brutta fine abbiano fatto i suoi moschettieri - si rivolge al fido e coraggioso amico D'Artagnan affinchè raduni gli altri tre e portino a compimento la più importante delle missioni: salvare la Francia dalle trame ordite a corte dal perfido Cardinale Mazzarino (A. Haber) con la sua cospiratrice, l'affascinante e astuta Milady (G. Bevilacqua).

Sono passati più di venti anni dall'ultima volta che i quattro amici si sono dati da fare per il trionfo della giustizia e del bene, e guardarli ora - demotivati, indolenziti, apatici, cinici e disillusi - non t'aspetteresti chissà che impresa, ma i Moschettieri non possono deludere, sono gli eroi un po' di tutti noi, della nostra infanzia, e anche  in questa versione dissacrante e comica i quattro eroici compagni di ventura, nati dalla penna di Dumas, sapranno come trovare la spinta e la motivazione per dare il loro contributo alla Francia, al grido di "Tutti per uno, uno per tutti!".

Ad accompagnarli nelle incredibili gesta ci sono Servo (Lele Vannoli), un gigante buono, muto e con un'alta sopportazione del dolore, e l'esuberante Ancella della regina (M. Gioli), tanto carina e maliziosa quanto furbetta e coraggiosa.

I quattro - in sella a destrieri più matti di loro - combatteranno per la libertà dei perseguitati Ugonotti e per la salvezza del giovanissimo, parruccato e dissoluto Luigi XIV. 

La commedia di Veronesi è davvero molto molto godibile, adatta per tutta la famiglia; mi ha divertita tanto, i quattro protagonisti sono esilaranti, perfettamente a loro agio nei panni di eroi pasticcioni e sgangherati ma in fondo sempre eroi nell'animo; i dialoghi sono pieni di umorismo, Favino fa ridere con il suo modo di parlare sgrammaticato, che mescola italiano, francese e mezzo spagnolo; gli altri tre conservano il loro accento e ugualmente risultano simpaticissimi; ironica e divertente anche Margherita Buy.

Promossa a pieni voti questa commedia avventurosa, una rivisitazione originale e piacevolissima di un classico senza tempo.
Unica pecca: il finale, che non c'entra granchè con tutto il resto della storia ed è quindi un po' forzato, a mio avviso.
Ma gli ultimi 5 minuti non inficiano assolutamente il mio giudizio complessivo del film, che è positivo e per questo ve lo consiglio!!!

martedì 4 dicembre 2018

Recensioni film: SENZA NESSUNA PIETA' || LA TERRA DELL'ABBASTANZA || THE BRIDGE #2



Buongiorno, lettori!
In questo post di oggi non parleremo di libri, bensì di tre film, di cui due italiani e il terzo made in Usa; quest'ultimo appartiene al genere sentimentale in odor di Natale, mentre i primi due, drammatici, sono ambedue collocati a Roma e in ambienti decisamente pericolosi, dove farsi inghiottire dalla microcriminalità è piuttosto "semplice", tanto quanto è difficile uscirne.



SENZA NESSUNA PIETA'


2014
Regia: Michele Alahique.
Cast: Pierfrancesco Favino, Claudio Gioè, Greta Scarano, Adriano Giannini, Ninetto Davoli.


Mimmo (Pierfrancesco Favino) è un muratore tranquillo e dall'aria inoffensiva, è taciturno, riservato e agli occhi di tutti rispettato ed esemplare; in realtà, ha una "seconda vita", in cui si occupa di riscuotere crediti con metodi poco ortodossi nei quartieri poveri di Roma, per conto del datore di lavoro, nonché zio (Ninetto Davoli), il quale lo ha allevato come un figlio. 
Lo zio ha un figlio, Manuel (A. Giannini), un tipo arrogante, viziato, abituato a fare il pascià coi loschi guadagni del padre; i due cugini non si sopportano, soprattutto perchè Manuel tratta il silenzioso e remissivo Mimmo con disprezzo, strafottenza e l'avversione reciproca che entrambi provano si può toccare con mano.
L'unica presenza amica è costituita dal "collega", soprannominato il Roscio (C. Gioè), con cui condivide i lavoretti di recupero crediti.
Il mondo in cui vive Mimmo è fatto di gerarchie da rispettare, da ordini ai quali non si può contravvenire, di regole cui sottostare senza fare obiezioni e commettere errori... se si vuol sopravvivere.

Favino riesce a rimandarci del suo Mimmo una personalità solo apparentemente semplice, nel senso che nei momenti iniziali l'uomo ci sembra un tipo poco intelligente,troppo chiuso e poco sveglio, sottomesso ai voleri dello zio, succube delle battutine cretine dell'odiato cugino, e anche come si muove e parla (quando parla) danno l'impressione di essere di fronte ad uno "non proprio normale", ma un po' "tocco"; invece, andando avanti ci accorgiamo non solo che Mimmo sa essere molto, molto pericoloso e che in sè ha una carica di aggressività che sfoga con freddezza contro le vittime prescelte, ma che allo stesso tempo dentro di lui c'è una scintilla di umanità che chiaramente non ha modo di venir fuori in un contesto degradato, criminale, in cui a muovere tutto sono i soldi, la violenza, e dove manca qualsiasi rispetto per il prossimo (tranne che per i membri del clan, ovviamente).

Tutto procede così finché nella sua vita non irrompe irrompe Tania (Greta Scarano), una giovane escort, bella e disinibita, consapevole del fatto che gli uomini sono disposti a pagare per averla e che concedersi a loro le dà modo di guadagnare soldi facili e veloci. 
Purtroppo per lei, non di rado i clienti si rivelano spesso violenti e convinti di poter fare del suo corpo ciò che vogliono in quanto la pagano, e uno di questi è Manuel; è proprio Mimmo ad accompagnare Tania da lui, anche se preferirebbe non farlo perchè si sente attratto dalla ragazza e cederla al malefico cugino è l'ultima cosa che vorrebbe fare.
Ma gli tocca ubbidire e così Tania è pronta a diventare per una notte il giocattolo dell'altro..., fino a quando qualcosa scatta nella testa di Mimmo, che decide di ribellarsi a questa vita e di portare con sè Tania, nella quale lui vede ben altro che una escort, e provare a dare a se stessi l'opportunità di una vita migliore, decisamente differente da quella squallida e brutale nella quale si trovano e che rischia di ucciderli dentro.

Il prezzo per la libertà però è alto, per esso Mimmo commette una cosa che proprio non avrebbe dovuto fare e che lo mette contro "la sua famiglia", che non è disposta a passarci su e a lasciarlo andare.
Inizia una fuga da quelli che da un momento all'altro diventano i suoi nemici, e afferrare la libertà potrebbe rivelarsi ancora più difficile di quanto avesse immaginato, tanto per lui quanto per Tania, che si rimette completamente nelle mani di quest'orso grande e, in fondo, buono, l'unico che l'abbia mai fatta sentire amata e protetta senza chiedere nulla in cambio.

Film piacevole, con un cast di tutto rispetto, Favino sempre eccezionale per me, nel dare corpo a questo suo personaggio che proviene sì da un contesto di delinquenti, ma del quale percepiamo qualcosa di diverso, una sorta di bontà innata che finora è stata soffocata.

E' un film (ce ne sono diversi su questa falsariga) che ci ricorda quanto complicato sia dire addio definitivamente a un'esistenza criminale in cui sei costretto a sottostare a determinate regole, pena la morte se le vìoli, e dove fidarti davvero di qualcuno potrebbe rivelarsi oltremodo pericoloso.
CONSIGLIATO.


LA TERRA DELL'ABBASTANZA


2018
Regia: Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo.
Cast: Andrea Carpenzano, Matteo Olivetti, Milena Mancini, Max Tortora, Luca Zingaretti.


Protagonisti di questo film d'esordio dei fratelli D'Innocenzo sono Mirko e Manolo, due adolescenti amici appartenenti alla periferia di Roma. 
Provengono da famiglie non benestanti ma oneste, con genitori single, e loro stessi sono due bravi ragazzi, che sognano di poter un giorno diventare ricchi, sogno per ora rimandato al futuro, mentre entrambi si arrangiano con lavoretti occasionali per arrivare a fine mese.

Sfortunatamente, il caso vuole che, in seguito ad un incidente spiacevole, si trovino catapultati in una realtà pericolosa che step by step diventerà una discesa verso l'inferno.

Una sera, infatti, investono un uomo e decidono di scappare senza soccorrerlo. 
I ragazzi sono impauriti perchè temono che si scopra che sono stati loro ad ammazzare il pover'uomo, ma in realtà questa disgrazia si rivela essere il loro colpo di fortuna...
Infatti, l'uomo che hanno ucciso "per sbaglio" altri non è che un pentito di un clan criminale di zona, e facendolo fuori Mirko e Manolo si sono guadagnati un ruolo, il rispetto e il denaro all'interno della mafia locale, che costituisce un'attrazione troppo grande da poter essere ignorata da due giovanotti con la fissa delle donne e dei soldi facili.
Le loro vite cambiano drasticamente quando cominciano a ricevere "missioni" criminali da portare a termine da parte dei loro nuovi capi e a sporcarsi le mani di sangue. 
Ma la strada sbagliata intrapresa, che loro pensano li stia portando verso il paradiso, porta con sè drammatiche conseguenze e ben presto la vita in questo contesto brutale, spietato, diventerà estremamente dura, così che Mirko e Manolo finiranno per allontanarsi dalla famiglia e dagli ex amici, andando incontro a una spirale verso il basso che sembra senza fine.

Anche questo film mi è piaciuto perchè si sofferma sulla discesa disgraziata di questi due ragazzi, che non erano dei ragazzacci in fondo, forse un tantino presuntuosi e sfacciati, ma qualcosa di buono in loro c'era...; vivere fianco a fianco con dei criminali senza scrupoli però non può che incidere sulla loro giovane personalità e fagocitarli, togliendo loro il buono che c'era, rendendoli aggressivi anche nei confronti dei genitori, come succede a Mirko verso la madre, la quale s'accorge che il figlio sta cambiando, che in tasca ha troppi soldi... e comprende che evidentemente se li sta guadagnando in modo molto sporco...

Drammatico, realistico, duro, ben interpretato (i due attori protagonisti sono molto bravi), descrive bene la realtà di periferia e in particolare quella delinquenziale, ponendo attenzione all'evoluzione in negativo di questi due giovanotti, che si sono buttati a capofitto per una strada senza via d'uscita.
CONSIGLIATO.




THE BRIDGE #2. Pagine d'amore


2017
Regia di Mike Rohl
Con Katie Findlay, Wyatt Nash, Faith Ford, Ted McGinley, Andrea Brooks, Denis Corbett, Natasha Burnett, Jaime M. Callica.


Questo film è in realtà la seconda parte di un altro che però non ho visto; entrambi sono tratti dal romanzo di Karen Kingsbury, PAGINE D'AMORE, che ho recensito QUI sul blog.

Il libro mi era piaciuto per due aspetti fondamentali: l'importanza data ai libri e alla libreria come luogo magico, in grado di donare qualcosa di bello e indimenticabile a chi la frequenta, soprattutto se essa è gestita da un appassionato di libri che non soltanto te li vende, ma te li consiglia con amore, per scopi ben precisi, provando ad incidere positivamente sulla tua vita di lettore, casuale o seriale che sia.

Il secondo aspetto era quello della fede in Dio, il motore che guida le azioni e le scelte di vita dei personaggi.
Ecco, se il primo aspetto c'è in maniera palese, il secondo un po' meno, e personalmente ne ho sentito la mancanza.

Ad ogni modo, la storia è questa ed è molto semplice: Molly e Ryan si sono incontrati alla libreria The Bridge, gestita dai coniugi Charlie e Donna, ai quali tutti a Franklin vogliono un gran bene.
Pur provando forti sentimenti l'uno per l'altra, i due non si sono mai fidanzati, anzi le loro strade si sono divise: lei segue la strada decisa dal padre imprenditore e che la porta a prendere in consegna l'azienda di famiglia, lui sogna di poter sfondare come cantautore.
Un terribile incidente occorso a Charlie riporta Molly e Ryan a Franklin, obbligandoli a riavvicinarsi e a fare i conti con il loro amore mai vissuto.
I due si mettono in testa di aiutare Charlie e Donna ed uniscono le forze a quelle di altri cittadini per contribuire a salvare lo storico e amato locale dalla chiusura. 
Così facendo, vecchi sentimenti si riaccenderanno dando a Molly e Ryan una seconda possibilità.
Sapranno sfruttarla?

La risposta è quasi scontata, considerato il genere di film, sentimentale, romantico e intriso di atmosfera natalizia, che infonde una leggera euforia e una gran voglia di essere buoni.
La trama non si discosta dal libro, assolutamente (se non per l'aspetto della fede che qui è meno preponderante), ma forse mi ha coinvolta di meno; anzi, devo confessare che questo è il genere di film da cui sto molto lontana in quanto solitamente hanno intrecci fin troppo semplificati e prevedi il corso degli eventi e il finale sin dalle prime battute.
Diciamo che sono quelle pellicole adatte a queste settimane dicembrine in cui ci si prepara alle festività natalizie, ideali per tutta la famiglia, senza grosse pretese di concentrazione (se abbandoni un po' il film per andare a controllare l'arrosto e resti in cucina pure mezzora non è che hai perso più di tanto il filo del discorso, ecco), carini, contrassegnati dai buoni sentimenti e in cui il lieto fine è obbligatorio.

CONSIGLIATO? Mah..., ripeto, è caruccio, soprattutto grazie al riferimento ai libri, ma per il resto è un film d'amore come se ne trovano a bizzeffe - basta mettere su La5 in prima serata per farsene delle belle scorpacciate -, di quelli che metti in sottofondo alle cene di Natale e che si guarda distrattamente, finchè qualcuno sbotta: "Ma chi ha messo 'sta roba? Non c'è qualcosa di più allegro?".

martedì 6 novembre 2018

Recensione film: DOGMAN di Matteo Garrone // FIGLIA MIA di Laura Bispuri



Due film made in Italy decisamente differenti, per tematiche e stile narrativo.
Il primo si ispira molto liberamente ad uno dei crimini più efferati risalenti agli Anni Ottanta - il delitto del Canaro -, mentre l'altro racconta il dramma di due donne che si contendono la stessa bambina, della quale ciascuna vorrebbe essere l'unica madre.


DOGMAN 

Regia: Matteo Garrone
Cast: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi.

Il film è stato premiato al Festival di Cannes, ha ottenuto 9 candidature e vinto 7 Nastri d'Argento ed è stato selezionato per rappresentare l'Italia ai premi Oscar 2019 nella categoria per il miglior film in lingua straniera.


Prima di questo film ammetto di non aver mai sentito parlare del delitto compiuto da Er Canaro, al secolo Pietro De Negri, che s'è fatto più di venti anni di carcere per aver barbaramente ucciso Giancarlo Ricci, 27enne criminale e pugile dilettante, con cui il De Negri aveva avuto uno strano e torbido rapporto d'amicizia e "collaborazione" criminale, che culmina in un feroce assassinio per il quale, alla fin fine, non è che si siano capite le vere ragioni...

Non sto qui a riassumervi il caso di cronaca nera (nerissima, se consideriamo i particolari raccapriccianti riportati nel proprio memoriale dall'assassino) perchè chi è interessato non deve far altro che cercarne informazioni in web; piuttosto ci interessa il film di Garrone.

Che tragga spunto dal delitto è pacifico, ma senza dubbio se ne discosta nell'intento, nel senso che al regista non interessa raccontare i dettagli truculenti per impressionare lo spettatore e soddisfarne così quella morbosa (e un tantino inquietante) curiosità che spesso si prova verso ciò che ci disgusta o ci fa accapponare la pelle.
Ammetto di aver pensato, prima di vedere la pellicola, che essa potesse essere troppo fedele quindi alla realtà (raccontata nei tanti articoli circa le modalità del delitto), ma mi son dovuta ricredere ed essere d'accordo con il non voler spettacolarizzare l'esplosione di violenza.
Attenzione, non sto dicendo che non ce ne sia, di violenza; c'è, ma è misurata e comunque contestualizzata in quella ambientazione scelta, la periferia romana selvaggia, degradata, sporca, triste, grigia, frequentata da gente tutt'altro che raccomandabile, in cui si spaccia e si sniffa cocaina e in cui non manca mai il bullo che è poi la piaga del quartiere.

Marcello è un uomo tranquillo che possiede un negozio di toelettatura dei cani; ama il proprio lavoro, lo svolge con passione, ama i cani di cui si prende cura, con loro è paziente, dolce, si rivolge ad essi come se fossero persone in grado di capirlo.
Ed effettivamente Marcello si trova meglio con gli animali che con le persone, e con loro riesce ad avere quell'autorevolezza che proprio non gli è consentita con i suoi simili; l'unica persona cui riesce a dare amore e tenerezza e a riceverne incondizionatamente è la figlioletta Alida.

Marcello è un uomo mite, cerca di essere amico dei commercianti del quartiere, di farsi benvolere... ma purtroppo per lui ha tra le sue amicizie un soggetto assolutamente poco rassicurante: Simone, pugile, violento, cocainomane e delinquente.
Di lui gli uomini della zona hanno paura e sono ormai stufi delle sue angherie; l'idea di farlo fuori è molto concreta...
L'unico che non vuole fargli del male è proprio Marcello, che partecipa a piccole rapine con Simone, gli fornisce la coca..., insomma i due sembrano amici; sembrano perchè in realtà c'è un rapporto di sudditanza del mingherlino canaro nei confronti del pugile, grande e grosso e con modi di fare  da criminale psicopatico.
Marcello fa ciò che gli dice l'altro, abbozza dei dinieghi ma poco convincenti e Simone riesce a fargli fare ciò che vuole quando vuole. E si riserva pure il diritto di non renderlo partecipe di quella parte di "bottino" che spetterebbe all'amico, fedele come un cagnolino.

Quella narrata in questo film è quindi una storia di violenza e microcriminalità collocate in un contesto abbandonato, brutto, dove non possono che svilupparsi sopraffazioni ed umiliazioni da parte del "pesce grosso" verso quello piccolo.

Ma insospettabilmente può arrivare il giorno in cui il pesce piccolo tira fuori coraggio e aggressività e decide che è giunta l'ora di dire basta a questo amico che tale non è che non ha fatto mai altro che maltrattarlo e umiliarlo.

Marcello architetta una trappola per rinchiudere Simone nel proprio negozio, sperando che questi possa finalmente fare ammenda e chiedere scusa per tutti i soprusi compiuti..., ma le cose precipitano e il canaro è quasi costretto a tirar fuori il sangue freddo e a fare quello che nessuno avrebbe mai creduto fosse capace di compiere.

Marcello Fonte è straordinario nel ruolo del Canaro, conferendogli quella mitezza e quel suo essere vittima di un uomo più grosso di lui e animalesco, contro cui egli non riesce nè fisicamente nè psicologicamente a opporre la benché minima resistenza; però allo stesso tempo, Marcello non è un santo, è comunque un delinquentello che ha deciso di stare dalla parte sbagliata, e purtroppo neanche il pensiero della figlia, che pure gli vuole un gran bene, lo fa desistere.

Il personaggio di Edoardo Pesce, appunto Simone, lo si odia dai primi momenti e un po' si finisce per sperare che qualcuno gliela faccia pagare una volta e buona.
Certo, chi potrebbe mai sospettare del secco e umile Marcello?

Ho guardato il film con molto interesse, è girato e recitato splendidamente, realistico, e ho apprezzato, come ho anticipato più su, la scelta di non soffermarsi sul "fattaccio", al quale in fin dei conti son dedicate le battute finali, che pure però erano cariche di tensione e mi hanno tenuta col fiato sospeso in determinati momenti.
Bello, son contenta che ci rappresenti agli Oscar.


Passiamo al film di Laura Bispuri con Valeria Golino, Alba Rohrwacher, Sara Casu, Michele Carboni: una figlia contesa tra la madre biologica e quella che l'ha cresciuta e amata come fosse propria.

FIGLIA MIA


Siamo in Sardegna e l'attenzione è tutta sulle tre donne protagoniste: la dolce Tina (V. Golino), la scapestrata Angelica  (A. Rohrwacher) e la figlia di quest'ultima, la rossa Vittoria (S. Casu).

La ragazzina è cresciuta con Tina, amata e coccolata da lei e dal marito, convinta di essere figlia loro, ma così non è; ben presto viene a conoscenza della dura verità: la sua vera madre è Angelica, una donna che vive alla giornata, schiava del demone dell'alcol, che si dà al sesso promiscuo e vive in una baracca disordinata e deprimente.
Angelica non ha un grande istinto materno, tant'è che "si è liberata" della sua creatura subito dopo la nascita, cedendola alla buona e brava Tina, che ha accolto quel fagottino strillante come una benedizione, non potendo, lei e il devoto marito, avere figli.
Per Tina Vittoria è la figlia che avrebbe voluto avere e non può che tirarla su con tutto l'amore e la cura di cui è capace una donna che sente dentro sè il forte desiderio di essere mamma ma che deve fare i conti con una maternità negata.

Arriva però il momento in cui Angelica si introduce nelle loro vite; a dire il vero, non se n'è mai andata e Tina non ha mai smesso, nel corso degli anni, di aiutarla economicamente e non solo, a patto però che ella stesse lontana da Vittoria.

Ma evidentemente il legame innato che unisce una figlia alla sua vera mamma è qualcosa di istintuale, e quando la ragazzetta capisce che quella sbandata di Angelica è la sua vera mamma, qualcosa la spinge a volerle stare accanto.
Nonostante veda coi suoi occhi che la donna non è in grado di prendersi cura neppure di se stessa, figuriamoci di una bambina.
Nonostante senta tante sciocchezze (alcune anche "crudeli") dalla bocca di quella snaturata che non sa cos'è la tenerezza.
Nonostante sappia che Tina è in grado di amarla come merita, e infatti è così da sempre.

Eppure, lo spettatore assiste impotente al "su e giù" di Vittoria che, da semplice figlia super amata di Tina, diventa la figlia che accudisce la madre che da sola proprio non ce la fa.
Vittoria è confusa, smarrita e anche arrabbiata nell'apprendere che la sua vita fino a quel momento è stata una bugia e che Tina l'ha tenuta lontana da Angelica, si ribella e vuole poter decidere da sola cosa è meglio per lei.
E se da una parte Angelica - troppo presa dai propri guai finanziari e inghiottita dai suoi problemi di disadattata - lascia che la figlia (ri)entri nella sua vita perchè dopotutto è sua, dall'altra Tina non può accettare che esca dalla propria, perchè l'amore che la lega a Vittoria è indissolubile, e lei sente di avere il diritto di considerarla figlia sua.

Vittoria sarà costretta a scegliere tra le due madri?

"Figlia mia" affronta il tema della figlia contesa, della maternità negata e di quella rifiutata, con garbo, sensibilità, delicatezza, ma anche con l'intensità propria dei sentimenti che legano le madri a questa figlia che entrambe rivendicano come "figlia mia"; sempre bravissime la Golino e la Rohrwacher in due ruoli tanto differenti tra loro; tutto si gioca attorno alle tre donne, non si può dire che ci sia un vero e proprio intreccio, che si creino dinamiche con altri personaggi, ma più che altro ci si concentra sulle singole donne e sul rapporto che c'è tra loro, sugli allontanamenti e i riavvicinamenti.
Parere positivo anche per questo film, la cui protagonista mi ha ricordato l'Arminuta (trovate la recensione sul blog) e la sua storia, anch'ella divisa tra due famiglie, quella d'origine e quella acquisita.


domenica 28 ottobre 2018

Recensione film: EUFORIA di Valeria Golino



Due fratelli - che più differenti, per carattere, ambizioni, stile di vita.., non potrebbero essere trovano in un fatto drammatico, come può essere un male incurabile, l'occasione per ritrovarsi e conoscersi davvero.


EUFORIA


ottobre 2018
Regia: Valeria Golino.
Casto: Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea, Jasmine Trinca, Isabella Ferrari.


Matteo è un businessman di successo, è sicuro di sè,  spregiudicato, affascinante, sempre allegro e dinamico; sguazza nella bella vita, guadagna una barca di soldi, vive in un attico moderno e super arredato a Roma; trascorre le sue impegnatissime giornate tra il lavoro e i momenti goliardici con amici più matti di lui; narcisista fin nel midollo, si concede piaceri a più non posso, attraverso il sesso compulsivo e l'assunzione di droghe.

Quella di Matteo potrebbe sembrare, a un occhio superficiale, una vita spensierata, ricca di soddisfazioni, priva di problemi seri; uno come lui, di cosa si potrebbe mai lamentare?
E in effetti Matteo non si lamenta proprio, è cosciente di come non gli manchi nulla e tutto quello che vuole, ogni sfizio e desiderio, quando vuole, se lo toglie senza pensarci su.
Eppure dietro questa sorta di ottimismo, questa frenesia un po' folle, esagerata, sbattuta in faccia e vissuta senza freni e pudori, si cela un immenso vuoto interiore.

Scamarcio ha preso su di sè il personaggio di Matteo con convinzione, facendolo proprio, interpretandolo con tutta l'intensità e la passione di cui è capace, restituendoci il ritratto di un giovane uomo molto complesso, pieno di eccessi che però nascondono profondi limiti, una personalità ricca di sfaccettature e contraddizioni, che cerca di placare la propria irrequietezza, i propri dèmoni interiori  buttandosi a capofitto nella ricerca dei piaceri estremi, che sia attraverso il sesso promiscuo, sniffando polverina bianca o spendendo soldi come e quando vuole.

Matteo è un personaggio affascinante perchè, pur avendo delle caratteristiche di personalità e un modo di vivere che in diversi momenti possono costituire per lo spettatore un elemento di "disturbo" e addirittura infastidirlo, in realtà - a ben guardare - non si può far a meno di provare per lui simpatia, soprattutto quando lo vediamo interagire col fratello.

La sua esistenza esuberante e all'insegna di una felicità che non ha nulla di interiore ma solo l'ostentazione di un culto di se stesso, del denaro e della bella vita in senso materiale, viene in un certo qual modo "disturbata" da una brutta notizia, che manda Matteo - che pure potrebbe sembrare un superficiale - in crisi: suo fratello Ettore ha un tumore al cervello e le sue condizioni non sembrano far ben sperare...
Lui, però, ancora non lo sa. E Matteo è intenzionato a nasconderglielo.

Ettore è l'opposto esatto del fratello: insegnante di Scienze alle scuole medie, ha scelto di condurre una vita dimessa, tranquilla; vive ancora nella piccola città di provincia dove entrambi sono nati, è un tipo poco ambizioso, che non ha mai osato granchè nella sua vita; attualmente lui e la moglie (I. Ferrari) stanno attraversando una crisi matrimoniale...

Con la bravura che gli è propria, Mastandrea dà al "suo" Ettore un'aria grigia, triste, propria di chi è sull'orlo della depressione, di chi ha disimparato a gioire e a trovare un senso per vivere ogni giorno; da quando, poi, si è accorto di star poco bene (sa di avere un "problema alla testa", che gli provoca fitte, svenimenti e altri sintomi preoccupanti, ma non sa ancora di che si tratta) è diventato ancora più ombroso, taciturno, tende ad isolarsi e non sopporta la presenza (che lui giudica un po' invadente) della madre e della moglie (che si preoccupano della sua salute), e anche del figlioletto, limitandosi a trattar tutti con sufficienza e indossando una maschera di sarcasmo e cinismo dietro la quale si nasconde un uomo ormai disilluso e profondamente insoddisfatto.

Ettore e Matteo sono fratelli, sì, ma si conoscono molto poco; non hanno mai parlato davvero, non hanno condiviso mai grandi cose, essendo agli antipodi caratterialmente e per il personale modo di concepire la vita.
In realtà sono più affini di quanto possa apparire a un primo sguardo.

 La malattia, e lo spettro della morte che essa si porta dietro, diventano insospettabilmente l'occasione giusta per riavvicinarli, dando loro modo di trovarsi finalmente l'uno accanto all'altro, facendo i conti con una verità che fino a quel momento entrambi non avevano ammesso con loro stessi e che in fin dei conti è ciò che li accomuna: seppur per motivi opposti, sia Matteo che Ettore stanno rischiando di perdersi, il primo affogando in un'esistenza apparentemente piena ma sostanzialmente vacua, l'altro annaspando nella propria, depressa, frustrata, priva di stimoli.

Matteo prende con sè Ettore, offrendogli ospitalità così che possa sottoporsi alle cure giuste per quella che lui pensa si tratti di una semplice e benigna cisti, quando invece è un tumore inoperabile.
Matteo si ostina a voler nascondere la verità al fratello: non vuole che si scoraggi sapendo cos'ha realmente, perchè Ettore deve poter credere che la guarigione sia possibile, e se per farlo deve  riempirlo di bugie, pazienza, Matteo lo fa senza problemi, con la leggerezza che lo contraddistingue e con la innocente e quasi infantile presunzione da manipolatore inconsapevole che crede di poter controllare tutto, anche la malattia e la morte.

La convivenza sarà tutt'altro che facile e automatica e non mancheranno momenti di scontro, litigi, incomprensioni, con Matteo che rinfaccia ad Ettore di essere un fallito che non ha mai rischiato nella vita e Ettore che accusa il fratello di voler gestire la vita altrui perchè è un ricco che deve farsi "perdonare" la propria omosessualità.

Tra momenti più drammatici ed altri quasi comici, alternando un taglio narrativo da commedia che però resta sempre sobrio, discreto, intelligente e in grado di far sorridere lo spettatore, con uno drammatico che non è mai pietoso, melenso, Valeria Golino torna alla regia dopo "Miele", riproponendo un tema ad esso affine: la presenza della morte nella vita, che è poi qualcosa di estremamente "naturale", nel senso che - benchè aleggi attorno alla parola (e all'evento) morte qualcosa di cupo, pauroso, angosciante - essa è allo stesso tempo inevitabile tanto quanto il nascere e il vivere, è qualcosa cui proprio non possiamo sfuggire.

La Golino si riconferma un'ottima regista, sensibile, genuina, autentica, asciutta e diretta nello stile e al contempo capace di portare, con delicatezza e decisione insieme, lo spettatore a farsi delle domande su questioni importanti, senza necessariamente offrirgli alcuna "soluzione" o giudizio; come attorno a Miele non c'era l'ombra del giudizio morale circa il suo particolare lavoro e l'aspetto etico ad esso legato, così non ce n'è su Matteo e sulla sua joie de vivre decisamente sopra le righe.

Mi ha fatto tenerezza vedere come un uomo di successo e convinto di poter avere il mondo in mano o di poter ottenere ciò che vuole grazie ai soldi, faccia di tutto e si inventi le cose più strambe per far credere a quel fratello così diverso, che fino a quel momento era quasi un perfetto sconosciuto, che è tutto ok, che non è ancora finita, che c'è ancora la vita che lo aspetta.

In fondo, Matteo è meno "leggero" e superficiale di quanto sembri e forse prendersi cura del fratello è il suo piccolo riscatto da una vita frivola, e in questo, mi ripeto, Riccardo Scamarcio è stato eccellente nella sua interpretazione, permettendoci di entrare in empatia col suo non facile personaggio, che si fa amare pur non condividendo tutto di lui, anzi, forse il "bello" sta proprio qui; credo di non sbagliare sostenendo che è proprio lui, col suo effervescente Matteo, ad essere il motore trainante del film, in quanto concentra in sè complessità, contraddizioni, debolezze e punti di forza che gli conferiscono una grande efficacia e veridicità.

E' un film "al maschile", in quanto ci si concentra sul rapporto tra due fratelli, anche se le tre donne più importanti hanno comunque il proprio significativo ruolo, che sia la mamma, l'ex-moglie o l'amante.

Trovo sia davvero un film molto bello, girato e interpretato egregiamente, potente nelle tematiche e nella costruzione dei suoi due protagonisti, ma anche delicato nella scelta di come raccontare il tutto; non mancano scene intense e, soprattutto nel finale, emozionanti.


Curiosità: la Golino ha scelto questa parola, Euforia, come titolo per la propria opera, riferendosi a quella sensazione potente e pericolosa insieme che provano i subacquei quando si trovano a grandi profondità: si sentono pienamente liberi, felici. Ma proprio quando si affaccia in loro questa euforia, è arrivato il momento di risalire immediatamente, prima che sia troppo tardi.

domenica 14 ottobre 2018

Recensioni film: "Valzer con Bashir" (Ari Folman) || "Sulla mia pelle" (A. Cremonini)



Massacro: questa è la parola che accomuna questi due film, diversissimi tra loro per stile, argomento... ma allo stesso tempo aventi in comune una triste realtà: l'annientamento dell'altro, della sua dignità, del suo diritto di vivere.



Il primo film è Valzer con Bashir ed è un film d'animazione del 2008 scritto e diretto da Ari Folman, che ha lo scopo di documentare, in modo romanzato - ma neanche troppo - e mescolando i tantissimi legami a fatti realmente accaduti ad altri, pochi, di fantasia, un tragico evento storico avvenuto nel settembre del 1982 in Libano: il massacro, appunto, di tanti innocenti palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila.

La storia inizia con immagini che hanno un che di angoscioso e spaventoso: dei cani dall'aspetto davvero poco rassicurante e dallo sguardo famelico e aggressivo stanno inseguendo qualcosa o qualcuno...
Queste immagini è un amico del protagonista a raccontarle una sera,  seduto al tavolo di un bar insieme al regista Ari Folman: si tratta di un incubo ricorrente nel quale questo amico è inseguito da 26 cani furiosi. Ogni notte, lo stesso numero di cani.
"Come fai a sapere che sono proprio 26 e non 30?, gli chiede Ari incuriosito, e l'altro non ha alcuna esitazione a rispondergli che lui sa che sono 26 perchè è esattamente il numero di cani da lui uccisi durante un'operazione militare cui partecipò nel corso della guerra in Libano, ad inizio anni '80.

Questo ricordo condiviso porta Ari a riflettere su un aspetto importante legato alla missione di guerra dell'esercito israeliano (di cui anche lui ha fatto parte vent'anni prima) in Libano: non ricorda quasi nulla di quel periodo e questa improvvisa consapevolezza lo sorprende, tanto da convincerlo ad esplorare il mistero rintracciando e intervistando vecchi amici...

La prima cosa che fa è rivolgersi ad un amico esperto di psicologia, che gli fa capire come non di rado succeda che si costruiscano dei ricordi falsati per colmare dei "buchi" nella memoria; i flash e le confuse immagini che Ari ha di quella guerra potrebbero essere dei ricordi non reali, ma creati da lui stesso, inconsciamente.

"La memoria è dinamica, è viva. Se mancano dei particolari o ci sono dei buchi, la memoria riempie i vuoti fino a "ricordare" completamente qualcosa che non è mai successo".

A suffragare la spiegazione dell'amico ci sono vari esperimenti..., eppure Folman non ne è convinto, anche perchè lui in Libano c'è stato davvero!

Così decide bene di cercare ed incontrare alcuni suoi ex-commilitoni per chiarire i dubbi che ha in particolare su un episodio che lo tormenta: il genocidio all'interno dei campi profughi di Sabra e Shatila, evento che lui pare aver rimosso...

Non tutti gli ex-soldati rammentano il massacro, ma qualcuno sì ed è proprio mettendo insieme i propri e gli altrui flashback che Ari riuscirà a far riaffiorare in memoria i ricordi di quella terribile esperienza, compreso lo sterminio di quella parte del popolo libanese - la stima dei morti va da alcune centinaia ad alcune migliaia - ad opera dei falangisti libanesi e con l'aiuto dell'esercito israeliano.

Il titolo del film si riferisce alla "danza" di un soldato che spara all'impazzata con il suo mitra sotto un poster di Bashir Gemayel, politico libanese assassinato nel 1982, fatto che provocò, come ritorsione, l'eccidio che è al centro della pellicola, avvenuto tra il 16 e il 18 settembre.
Il film ha catturato tutta la mia attenzione, riuscendo a farmi vivere in modo vivido e drammatico i fatti narrati; Ari Folman, alla ricerca della verità seppellita nei propri ricordi rimossi, fa un lavoro su se stesso, di autoanalisi, raccoglie informazioni e testimonianze al pari di un giornalista, ma un giornalista non esterno, chiaramente, bensì strettamente coinvolto con ciò che ascolta, perchè egli è stato testimone oculare dei fatti tragici di cui ci racconta in questa sua opera, e deve fare i conti con il dato di fatto che ciò cui ha assistito da giovane lo ha talmente turbato che la sua memoria aveva scelto la strada dell'oblio.

Nonostante sia un film d'animazione, "Valzer con Bashir" riesce ad essere comunque un racconto realistico, intenso e coinvolgente, che mette in risalto l'orrenda e disumana realtà che è la guerra, come essa rechi solo distruzione, dolore, spargimenti di sangue, e non guardi in faccia nessuno...., uomini, donne bambini.
Mi è piaciuta l'idea di raccontare questo episodio orribile della Storia del Libano attraverso flashback che, come tessere di un mosaico, pian pian si va formando.

L'intensità e la vividezza delle immagini raggiunge il suo culmine negli ultimi minuti, dove il lettore viene messo davanti ad immagini reali, tratti da filmati d'archivio, che mostrano in modo ancora più forte e d'impatto tutto il dolore e la tragicità del massacro, le macerie e i cadaveri dei profughi barbaramente assassinati.
Mi sarebbe piaciuto leggere la graphic novel, ma per ora non sono riuscita a procurarmela, così ho ripiegato sul film, di cui vi consiglio assolutamente la visione; a me è servita..., ammetto infatti la mia ignoranza in merito a questo eccidio del popolo libanese, di cui non so se sarei venuta a conoscenza se non mi fossi accostata a quest'opera cinematografica, vincitrice del Golden globe per il Miglior Film Straniero nel 2009.



Il secondo film che voglio condividere con voi è il racconto sobrio, onesto ma comunque forte dell'ultima settimana di vita di Stefano Cucchi, un caso di cronaca di cui si sta parlando moltissimo da 9 anni e soprattutto in questi giorni per via delle svolte verificatesi in seguito alla confessione di uno dei carabinieri, testimone del pestaggio ad opera dei colleghi.

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Sulla mia pelle è un film diretto da Alessio Cremonini; è stato selezionato come film d'apertura della sezione "Orizzonti" alla 75ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.  Stefano Cucchi è interpretato magistralmente da Alessandro Borghi;  a dare i volti ai genitori sono Milva Marigliano e Max Tortora; Ilaria Cucchi è interpretata da Jasmine Trinca.

Credo che ormai tanti di noi (per non dire tutti) conoscano i drammatici fatti che hanno preceduto la morte del giovane geometra romano Stefano Cucchi: fermato la sera del 15 ottobre 2009 dai carabinieri con l'accusa di possedere droga, viene in effetti trovato in possesso di varie confezioni di hashish e cocaina, pronte - dicono i carabinieri che lo fermano - per essere spacciate; gli trovano anche una pasticca di un medicinale per l'epilessia, patologia di cui soffriva.

Scatta immediatamente il fermo, Stefano viene messo in custodia cautelare; il giorno dopo è processato per direttissima e arriva davanti al giudice sì sulle proprie gambe ma in cattive condizioni: riporta, infatti, ematomi al viso e mostra difficoltà nel camminare e nel parlare.

Per decisione del giudice, Cucchi resta in custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli, ma poichè le sue condizioni di salute peggiorano ulteriormente, viene visitato in ospedale dove sono messe a referto lesioni, fratture ed ematomi diffusi su tutto il corpo. 
In carcere le sue condizioni peggiorano ulteriormente e il 22 ottobre Stefano Cucchi muore nell'ospedale Sandro Pertini. 

Il film si sofferma quindi sugli ultimi sette giorni di vita del povero Stefano; l'ho apprezzato davvero molto per la sua onestà, nel senso che, prima di vederlo, uno potrebbe pensare che esso metta in risalto i maltrattamenti e le percosse subite in caserma, essendo un film denuncia; in realtà, non c'è alcuna ostentazione di violenza..., pur essendone visibili gli effetti, sul volto magrissimo, scavato, e sul corpo indolenzito e anoressico di Stefano...

Di Stefano non c'è alcuna santificazione, questo è evidente: era un ragazzo con un problema bello grosso, la tossicodipendenza, e la sua famiglia era preoccupata al pensiero di questo figlio/fratello "drogato"; i genitori sono amareggiati quando vengono a sapere - in seguito all'arresto - che Stefano non è affatto uscito dal tunnel, come invece loro credevano; la stessa Ilaria ne è delusa e forse un po' arrabbiata  perché il fratello non aveva chiuso con quel giro.

Il racconto di quest'ultima terribile settimana è essenziale ed asciutto e in pratica mostra Stefano steso su un letto, lasciato lì a morire d'inedia, privo di cure; prima di morire, egli viene a contatto con 140 persone fra carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri e in pochi, pochissimi, sembrano intuire che il giovane stesse lentamente consumandosi.

Nel film vediamo Borghi/Cucchi rifiutare ogni cura (l'unica cosa che chiede all'inizio sono i farmaci per l'epilessia) e, da parte loro, i dottori alzare la spalle e ordinare che si scriva che è l'assistito a non voler essere curato..., negligenza gravissima che sappiamo a cosa porterà.

Borghi è bravo sempre, e qui ne da un'ulteriore prova, conferendo grande intensità alla propria interpretazione, vestendo con efficacia e convinzione gli scomodi panni di Cucchi; "vedere" questo giovane morire a poco a poco, tra l'indifferenza di un personale sanitario che va e viene, sofferente, macilento, con la faccia livida, che non riesce neppure a parlare..., è straziante e non può che far scuotere il capo per l'indignazione e la rabbia; che sia possesso di droga o qualsiasi altro reato, nessuna persona - affidata allo Stato, come nel nostro caso - può essere lasciata a se stessa nè tanto meno pestata, e la consapevolezza che Stefano abbia ricevuto un trattamento ingiusto e inumano fa tanta rabbia, perchè se lo Stato - nella persona delle Forze dell'ordine - perde di vista questo obiettivo e su di esso non possiamo aver la certezza di contare per trovare giustizia..., e beh stiamo freschi.

Indigna ma addolora anche vedere come alla famiglia sia stato negato ogni contatto per vedere il ragazzo, che non ha potuto ricevere neanche mezza visita dai propri cari, che quindi non  hanno potuto rendersi conto di come stesse Stefano.
Un momento molto commovente - l'unico contatto tra Cucchi e il padre, prima di essere messo in custodia cautelare - è il breve abbraccio tra un addolorato e sgomento Tortora e lo spaesato Borghi, con questi che sussurra al papà "Abbracciame".

Come nella realtà, anche nel film i genitori di Stefano hanno un atteggiamento dignitoso, ed è con tanta preoccupazione e tanto dolore che cercano - insieme all'agguerrita Ilaria - di avere informazioni sul figlio, scontrandosi con cavilli vari che impediranno loro di 
vederlo vivo.

Al termine del triste resoconto, leggiamo che quando Stefano Cucchi muore nelle prime ore del 22 ottobre 2009, è il decesso in carcere numero 148. Al 31 dicembre dello stesso anno, la cifra raggiungerà l’incredibile quota di 176: in due mesi trenta morti in più. 

Personalmente, mi ha commosso molto; è vero che ho letto informazioni sul caso diverse volte, provando dispiacere e sdegno per una tale ingiustizia e crudeltà, ma vedere per immagini la ricostruzione delle sofferenze cui è andato incontro Stefano - nonchè quelle emotive della famiglia - mi ha toccato molto.
Non l'ho trovato polemico, e ripeto, non c'è in esso l'obiettivo di santificare nessuno, non si nasconde di certo che Cucchi fosse un tossico e che comunque possedesse droga (lui, l'unica volta che comparve davanti al giudice, dichiarò sì di possederla, ma per uso personale non per spaccio...), ma credo esponga in modo equilibrato i fatti.

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