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martedì 8 novembre 2022

[ DIETRO LE PAGINE ] "L'isola delle anime" di Johanna Holmström e l'ospedale di Själö



Ho in lettura L'isola delle anime, un romanzo di Johanna Holmström ambientato a Själö, in un manicomio per donne ritenute incurabili, un luogo di reclusione dal quale in poche se ne andavano, dopo esservi entrate.

Cosa spinse la scrittrice a concentrarsi su un tema delicatissimo quale la follia, e a farlo da una prospettiva unicamente femminile?

Uno dei motivi che l'hanno spinta è stato constatare come molti dei suoi lettori tendessero a vedere nei suoi personaggi femminili immaginari delle patologie di tipo psichiatrico, indicando queste donne come borderline, depresse o psicotiche. 
Johanna aveva già scritto di donne in situazioni di crisi di vario tipo, ma qualcosa la indusse a chiedersi con quali occhi stesse guardando alla salute e alla malattia mentale.

Nel 2012 cominciò a cercare su Google "storia delle malattie mentali femminili in Finlandia", imbattendosi subito nella tesi della ricercatrice Jutta Ahlbeck-Rehn sulle donne di Själö nel periodo 1889-1944
All'epoca non sapeva nulla di Själö, ma intuì di aver appena trovato il soggetto per un nuovo libro.

Nel romanzo il lettore incontra un certo numero di donne e la domanda sorge spontanea: avendo raccolto dati e fatti basandosi sulla tesi di Jutta Ahlbeck-Rehn "Diagnosi e disciplina: discorso medico e follia femminile all'ospedale di Själö 1889- 1944" (a cui lei stessa fa riferimento nella postfazione), quanto e cosa di questo materiale Johanna Holmström ha inserito nel proprio libro?

La Holmström ha dichiarato che i personaggi del romanzo sono frutto di un mix di diverse storie di pazienti.

Quando lesse per la prima volta la tesi di Juttas Ahlbeck-Rehn, immaginò di avere davanti a sé le donne di cui la sociologa raccontava le vicende personali all'interno della struttura ospedaliera; si trattava allora "solo" di sceglierle e farle prendere vita, anche se ovviamente le storie specifiche di ciascun personaggio di per sé sono inventate e anche i loro nomi non sono quelli reali (documentati negli archivi), visto che sarebbe stato poco rispettoso menzionare le donne realmente esistite. 
Così decise di creare le proprie storie di vita, plausibili e basate su eventi reali e sulle persone rimaste a Själö.

Johanna Holmström
fonte
Prima di iniziare a lavorare al progetto del libro, aveva un'immagine piuttosto stereotipata dell'assistenza sanitaria: nella sua immaginazione, il tipo di infermiera che lavorava in un manicomio, somigliava alla inquietante Miss Ratched (personaggio che compare nel romanzo "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e attorno al quale ruota la serie RATCHED), fredda e poco sensibile verso i poveri malati. Ma questi pensieri sono cambiati durante il processo di scrittura.
La scrittrice si è presa del tempo per fare ricerche negli archivi di Turku, guidata dal prezioso studio di Ahlbeck-Rehn; ha studiato le storie dei grandi ospedali psichiatrici in Finlandia, ha letto Foucault, Freud, Lacan, consultato i giornali degli anni ’30 e vari materiali.


L'ospedale di Själö è stato chiuso definitivamente nel 1962, in quanto ritenuto troppo lontano rispetto alla terraferma. Paradossale, se si pensa che si scelse quest'isoletta proprio per il fatto che fosse remota, distante, così da lasciare i ricoverati al loro destino...

Själö o Nagu Själö (in svedese) o Seili (in finlandese) è una piccola isola al largo della costa sud-occidentale della Finlandia; fa parte del comune di Pargas. 
Il nome Själö si riferisce, etimologicamente, al fatto che l'isola sia stata dimora di foche.

L'isola è nota per la sua chiesa e la sua natura, per ospitare un istituto di ricerca e, certamente, per l'ex ospedale; quest'ultimo viene menzionato per la prima volta nel 1689, sebbene i pazienti si trovassero sull'isola già da molto prima.

ospedale visto dall'alto
(Wikipedia)


Infatti nel 1619 fu costruito il lebbrosario per ordine del re svedese Gustavo II Adolfo, che scelse Själö per la sua posizione remota. 
Quando, nel 1700, la lebbra iniziò a scomparire dalla Finlandia, sull'isola principale fu costruito un manicomio; più precisamente, nel 1785 l'ospedale da lebbrosario fu convertito in una struttura per malati di mente. 
Nel 1889 tutti gli uomini furono trasferiti da Själö e il nosocomio divenne esclusivamente dedicato alle pazienti di sesso femminile. Alcune di loro erano molto giovani; una aveva solo 9 anni.

Il numero di pazienti a Själö variava tra 30 e 50; all'interno, l'edificio era diviso da un lungo corridoio fiancheggiato da stanze (ciascuna accoglieva una sola persona) di 1,87 x 2,07 metri. 
Il personale si assicurava che i pazienti fossero tenuti in isolamento e non era molto attenta a che le "celle" fossero curate per bene.
Ad essere ricoverati erano persone ritenute incurabili e i "pazzi", che restavano là praticamente fino alla morte e le loro proprietà passavano alla chiesa.

l'interno di una camera
source

I soggiorni delle donne a Själö, dunque, erano spesso molto lunghi, quando non terminavano con la loro morte.

I "metodi di trattamento" dell'ospedale di Själö erano la terapia occupazionale, la camicia di forza, l'isolamento in una cella "calmante" con figure geometriche marroni; non mancò l'utilizzo anche di bagni bollenti o ghiacciati.

Durante i periodi di guerra, le donne non ricevevano molto cibo e spesso si ammalavano; attorno a loro solo sporcizia, fame e miseria.

Dopo la chiusura del manicomio (1962), gli edifici furono rilevati dall'Università di Turku e l'istituto di ricerca concentrò i propri studi sugli ecosistemi del Mare dell'Arcipelago e sull'intera area del Mar Baltico. 

Come dicevo più su, la ricercatrice Jutta Ahlbeck-Rehn ha studiato cosa è successo alle donne di Själö e in che modo l'appartenenza a determinate classi sociali influenzasse il loro destino; anche lo stesso genere sessuale contava: le donne, infatti, erano classificate come malate molto più degli uomini. 
Dei quasi 200 pazienti presenti nei dati di Ahlbeck-Rehn, 52 non avevano una diagnosi psichiatrica precisa.
Pochi furono coloro che lasciarono l'istituto; ci sono state donne che hanno fatto ritorno a casa solo dopo essere state sterilizzate...
Le donne povere delle classi sociali inferiori o le donne sessualmente "disinibite" (o ritenute tali) erano le tipologie più frequenti di pazienti.
Negli anni '30 del secolo scorso, criminali appartenenti alla classe inferiore furono mandati all'ospedale psichiatrico di Själö. Secondo la teoria dell'igiene razziale, c'era la convinzione che il sottoproletariato fosse biologicamente incline a malattie, follia e ubriachezza.

In pratica, la follia era un fenomeno sociale, non soltanto un fatto medico.



Fonti consultate:

Articolo 3 (da "Il manifesto")
Wikipedia.org 

lunedì 6 giugno 2022

❤ Storie dietro storie ❤ "Le verità di Miracle Creek" di Angie Kim

 

Domani sera cercherò di pubblicare la recensione dell'ultimo romanzo terminato: Le verità di Miracle Creek di Angie Kim, che ha uno sfondo a mio avviso originale e particolare: le sedute di ossigenoterapia iperbarica, che permettono la somministrazione dell’ossigeno a puro al cento per cento a una pressione atmosferica tre volte superiore a quella normale e si svolgono in una camera iperbarica concepita appositamente.


Il romanzo è un thriller giudiziario che affronta tematiche importanti, come l'immigrazione e le sue

source
foto di Tim Coburn

tante difficoltà d'integrazione, il rapporto genitori-figli, la disabilità (in particolare l'autismo) e come ci si rapporta ad essa, che siano i genitori (in primis, il caregiver) o la gente attorno.


Quello dei tribunali è un mondo noto ad Angie Kim, che ha lavorato come avvocato in un grande studio; non solo, ma anche gli altri temi le sono familiari, a partire da quello dell'immigrazione.

La famiglia di Angie, infatti, è arrivata negli Stati Uniti dalla Corea del Sud quando lei era una bambina, cosa che accade anche ai personaggi centrali del libro. 
Per quanto riguarda la presenza di condizioni patologiche serie e gravi, la Kim ha tre figli, ciascuno dei quali ha affrontato problemi medici con conseguenti test e trattamenti ad essi associati.

L'input - che è poi il cuore del romanzo - viene proprio da questa singolare ambientazione (la camera iperbarica) e dalla domanda: potrebbe accadere qualcosa di tragico e terribile in un contesto del genere, che dovrebbe essere comunque protetto?

L'Autrice ha dichiarato di aver fatto esperienza (ai tempi non era ancora una scrittrice) dell'HBOT (Hyperbaric oxygen therapy) a motivo di  uno dei suoi figli e di ritrovarsi quindi a condividere con altre persone questo ambiente in cui sei "rinchiuso" con altre famiglie mentre si svolgono le sedute.

Inevitabili scattavano le confidenze personali, e la condivisione di quel tipo di esperienza  avrebbe potuto essere interessante da esplorare in un eventuale romanzo. 

Dopo avere iniziato a pubblicare racconti personali e brevi, ha pensato di buttarsi nell'avventura di scrivere, appunto, un romanzo e il pensiero è subito andato all'HBOT come a una delle idee principali, in special modo al fatto di stare in un ambiente di gruppo in cui potesse accadere un fatto tragico, in grado di provocare feriti (e ferite) e morti.

Ma questa era solo una delle due idee che le frullavano in testa; l'altra era decisamente differente e partiva dalla condizione personale della Kim, cioè della sua famiglia immigrata negli States: i suoi genitori lavoravano al centro di Baltimora in un negozio di alimentari ed Angie aveva in mente di partire proprio dall'idea del negozio di un droghiere coreano e da un mistero ad esso legato (una pistola nascosta, un cadavere o forse un corpo ferito...); i limiti dovuti alla lingua avrebbero avuto il loro peso, impedendo all'uomo di parlare di questo mistero, che faceva parte della sua vita. 

Nel sottoporre entrambe le idee ad un amico scrittore (che fa parte del suo gruppo di sceneggiatori), questi le consigliò di  unire le due storie e fare in modo che la famiglia di immigrati coreani fossero proprietari e operatori di questa attività legata all'HBOT. 

Più pensava a questa storia, più ne era intrigata... fino ad arrivare a dar forma al romanzo.


Vi ho presentato in questo post i temi affrontati e l'idea di partenza del libro d'esordio di Angie Kim, sperando abbiano stuzzicato il vostro interesse.
A domani per la recensione!!



Fonti consultate:

https://www.writeordietribe.com/author-interviews/interview-with-angie-kim
https://www.elle.com/culture/books/a27253585/angie-kim-interview-miracle-creek/

mercoledì 23 febbraio 2022

Dietro le pagine di... "La custode dei peccati"

 

In questi giorni sto leggendo LA CUSTODE DEI PECCATI di Megan Campisi, che ha al centro la storia di una ragazzina - May Owens - cui è toccato un triste "destino": in seguito ad un furto, è stata condannata a diventare una mangiapeccati




Chi erano i/le mangiapeccati? C'è traccia di loro nella storia?

Confesso di non aver mai sentito parlare né di aver letto nulla a proposito di queste figure realmente esistite, prima di leggere il libro della Campisi.

Presa dalla curiosità, ho provato a cercare qualche informazione al di fuori dal contesto del romanzo, che chiaramente, per ragioni narrative, contiene sì elementi storici ma anche fittizi, inventati.

Inquadriamo anzitutto il periodo storico: XVIII e XIX secolo, ma in realtà è una pratica presente in età Medievale e sopravvissuta al trascorrere del tempo, visto che verso la fine del 1600 si registra ancora questa "vecchia usanza ai funerali", che pare sia stata praticata fino all'inizio del XX secolo; gli studiosi hanno ipotizzato, a proposito della sua origine, che essa presumibilmente potesse essere frutto di un'interpretazione dell'uso del capro espiatorio menzionato nel Levitico

fonte

Altri hanno ritenuto che provenisse da tradizioni pagane, ma in Death, Dissection and the Destitute, Ruth Richardson scrive di un'usanza medievale che riguardava proprio il "mangiare il peccato": prima di un funerale, i nobili una volta davano cibo ai poveri in cambio di preghiere a favore di un loro caro morto di recente.

Dove si praticava? In Inghilterra, Scozia e Galles.
I "mangiatori di peccati" (sin eaters) erano persone della comunità che consumavano i peccati della gente morta di recente.

A dare una prima vera testimonianza della pratica è stato lo studioso del 1600 John Aubrey (1626-1697), il quale annotò che nell'Herefordshire c'era questo costume: nei funerali venivano assunti dei poveri che avrebbero dovuto "prendere su di loro" tutti i peccati del defunto, e in che modo? Il mangiapeccati doveva consumare, sul corpo del morto, pane e birra, e avrebbe ricevuto sei pence in denaro, il tutto nella convinzione che in questo modo l'anima della persona deceduta potesse andare dritta dritta in Paradiso perchè i suoi peccati non gravavano più su di essa... ma su quella del mangiapeccati.

Siccome consumare i peccati di un'altra persona non era un attività proprio allettante, solitamente a prendersi quest'onere erano individui poveri e già magari emarginati dalla comunità, disposti quindi a mettere a rischio la propria salvezza in cambio di un magro compenso o di un pasto gratuito.

È facile immaginare come queste figure fossero oggetto di profondo disprezzo; i loro tristi servigi dovevano essere esercitati in modo discreto e, una volta fatto il loro lavoro, costoro venivano cacciati di casa, spesso picchiati e maltrattati fino a quando non se ne erano andati.
Si pensava che incrociare lo sguardo di un mangiatore di peccati attirasse una maledizione, anche perché questi disgraziati erano comunque ritenuti dannati, più peccatori degli altri e, in una certa misura, più malvagi. Essere in presenza di un mangiatore di peccati significava essere in presenza dei peccati di molte persone.

Va da sé che i mangiapeccati vivessero spesso come dei derelitti, lontani dagli altri, odiati ma comunque necessari nel caso in cui qualcuno morisse prima che potesse confessare i propri peccati. 

La Chiesa non ha mai punito quest'usanza alternativa... ma neanche incoraggiata, tant'è che poi è andata man mano scomparendo.
Ne parlano anche John Bagford (1650–1716, scrittore, bibliografo) e Catherine Sinclair, che annota nel suo diario di viaggio del 1838 (Hill and Valley) come la pratica fosse sì in declino ma se ne trovassero ancora tracce nel Monmouthshire (contea del sud-est del Galles) e in altre contee ad ovest. 

Richard Munslow, sepolto nel 1906 a Ratlinghope (un villaggio nello Shropshire, Inghilterra) pare sia l'ultimo mangiatore di peccati. 






Fonti consultate:

https://www.atlasobscura.com/
https://historyofyesterday.com/
https://www.secondshistory.com/

domenica 30 gennaio 2022

Dietro le pagine di... "La ragazza del sole" di Lucinda Riley


Come dico ogni volta che scrivo la mia opinione sui romanzi di Lucinda Riley, uno degli aspetti che più gradisco delle sue narrazioni è il mix tra finzione e realtà: mi piace molto che i personaggi inventati dei suoi libri interagiscano (e la loro vita è spesso da essi rivoluzionata) con personaggi realmente esistiti.

È ciò che si verifica anche nel sesto libro della saga Le Sette Sorelle, LA RAGAZZA DEL SOLE (recensione), dove la giovane protagonista è in qualche modo collegata a una donna nera che ha dato il suo notevole contributo per aiutare concretamente i figli di tossicodipendenti nel quartiere di Harlem, a New York: sto parlando di Mother Clara Hale.


Clara McBride è nata nel 1905 a Elizabeth City, nella Carolina del Nord; rimasta orfana molto giovane, dopo il liceo sposa Thomas Hale e insieme si trasferiscono a New York, ad Harlem.

C'è da dire che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, Harlem era un quartiere piuttosto povero e con un elevato tasso di disoccupazione e criminalità, tanto che per anni è stato considerato tra i più pericolosi e malfamati nell'isola di Manhattan.

Purtroppo, dopo pochi anni dal matrimonio, Thomas muore di cancro, lasciando la giovane vedova con tre bambini (Nathan e Lorraine, Kenneth era stato adottato) piccoli da crescere e mantenere. Avendo bisogno di soldi, Clara comincia a lavorare come donna delle pulizie nelle case durante il giorno e nei teatri di notte.

Essendo lei per prima ad incontrare non poche difficoltà nel crescere i propri figli ad Harlem e da madre sola, la signora Hale sente una forte empatia per i bambini abbandonati e trascurati. 
Così, negli anni '40 apre le porte della propria casa per fornire assistenza a breve e lungo termine ai bambini della comunità; si preoccupa anche di trovare alloggio a bambini senzatetto e questo suo impegno fa sì che venga chiamata affettuosamente "Mother Hale", essendo stata riconosciuta come  madre affidataria autorizzata che fornisce assistenza a centinaia di bambini nella propria casa. Inizialmente il suo aiuto è volto a prendersi cura di bambini i cui genitori lavorano durante il giorno, offrendo ai piccoli ospiti un ambiente premuroso ed e amorevole.  

"hold them, rock them, love them
 and tell them how great they are."
Nel 1969 le cose cambiano: Lorraine Hale (la figlia, medico, di Clara) incontra in un parco di Harlem una donna eroinomane, con il suo bambino di due mesi, e le dà l'indirizzo di sua madre. 

Da quel momento Clara decide di prestare assistenza e aiuto ai figli di persone tossicodipendenti, supportata dai propri figli; insieme a Lorraine fondano Hale House, una comunità in cui venivano accolti bambini/ragazzi tossicodipendenti per fornire loro cure ed assistenza: li cresceva come fossero figli suoi e, una volta guariti dalla dipendenza, si preoccupava di trovare famiglie interessate all'adozione.

Ad Hale House, inoltre, i genitori con problemi di droga venivano aiutati ad imparare a prendersi cura di se stessi e dei loro bambini partecipando a un programma di riabilitazione. 
Negli anni '80, Hale ha ampliato i servizi di Hale House includendo l'assistenza ai bambini colpiti dall'HIV e a coloro che avevano perso i genitori a causa dell'AIDS.

Durante gli anni in cui ha operato ed aiutato tante persone, Mother Clara Hale ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi per il suo servizio alla comunità; nel 1985 il presidente Ronald Reagan l'ha definita una "eroina americana" per il suo impegno nei confronti dei bambini a rischio.

Clara McBride Hale è morta il 18 dicembre 1992 a New York City all'età di 87 anni.





Come spiegato già nella sinossi del libro, la storia si sviluppa su due piani temporali: il 2008 e gli anni '40 del Novecento, in cui conosciamo la co-protagonista la newyorchese Cecily, che trascorrerà non pochi anni in Kenya.
Là viene in contatto con la comunità di bianchi aristocratici denominata Happy Valley.

Si tratta di un gruppo di ricchi signori e signore britannici e anglo-irlandesi, stabilitisi nella regione Happy Valley della Wanjohi Valley, vicino alla catena montuosa di Aberdare, tra gli anni 1920 e gli anni 1940; l'area intorno al lago Naivasha è stata una delle prime ad accogliere comunità bianche.
In particolare negli anni Trenta il gruppo diventò noto per i suoi stili di vita "decadenti", edonistici, per l'abitudine all'uso di droga e per la promiscuità sessuale.

Tra i membri di Happy Valley sono annoverati personaggi cui si è ispirata la stessa Lucinda e che vengono da lei menzionati: Kiki Preston (1898 - 1946), Jock "Jack" Delves Broughton e la moglie Diana Delves Broughton, Josslyn Hay, 22esimo conte di Erroll, Alice de Janzé.


Wanjohi Valley, Kenya





Kiki Preston


lago Naivasha



https://blackdoctor.org/
https://ifatti.wiki/
https://www.blackpast.org/

bursarts.wordpress.com
https://it.knowledgr.com/
https://therake.com/stories/happy-valley-set/
https://www.kenyavacanze.org/safari/lago-naivasha/

venerdì 7 agosto 2020

Dietro le pagine di "Il colore dei fiori d'estate" (The dry grass of August) di A.J. Mayhew



Recentemente ho avuto modo di leggere ed apprezzare "Il colore dei fiori d'estate" (The dry grass of August) e, come spesso accade, mi son chiesta: cosa o chi ha ispirato l'autrice nella stesura del suo libro?

Anna Jean Mayhew ha dichiarato che la sua famiglia ha avuto in casa una domestica di colore quando lei era una ragazzina; inoltre, insieme alla sorella e alla domestica, partecipò alla Daddy Grace Parade  e, proprio come nel romanzo, sull'autobus lei e la sorella sedettero davanti e la donna che lavorava per la sua famiglia si mise dietro. 
La scrittrice racconta inoltre che c'è stato un episodio che l'ha segnata profondamente e che, per quanto non traumatico o straordinario in sé, le ha donato una prospettiva diversa con cui vedere le cose; solo dopo trent'anni ha avuto la forza di scrivere quali sentimenti quell'avvenimento avesse suscitato in lei.

Era il 1957 e Anna aveva diciassette anni; nell'estate di quell'anno lavorava come bagnina, il che le permetteva di sfoggiare un'abbronzatura profonda. 
RECENSIONE

Quando a Charlotte fu concesso ai neri di salire sugli autobus in cui viaggiavano anche i bianchi, i suoi genitori le dissero che se "uno di loro" (una persona di colore) fosse salito sull'autobus e le si fosse seduto accanto, lei avrebbe dovuto scendere o almeno cambiare posto. Un giorno una donna di colore si sedette accanto a lei sull'autobus e le parole dei genitori le balenarono nella mente. Eppure, Anna si sentiva inchiodata al proprio posto e, ritenendo scortese alzarsi, decise di restare seduta lì; a un certo punto, guardando le braccia sue e della signora, che quasi si toccavano, si è accorta che la propria pelle era molto più scura di quella della donna. Questo fatto la fece riflettere molto.

Anna è nata ed è cresciuta a Charlotte (stessa ambientazione del romanzo) e, sebbene la maggior parte dei fatti principali del libro siano pura finzione, altri invece si rifacevano ad esperienze accadute davvero, che a suo gusto erano troppo belle per non essere usate, come la scena in cui Paula Watts, dopo aver attraversato il fiume Chattahoochee, si ritrova la propria auto con due ruote su un traghetto e due ruote a terra. È successo davvero.

La protagonista e voce narrante, June Bentley Watts, alias Jubie, era nella sua testa molto prima che iniziasse il libro. È un anno più giovane di lei nel 1954, ma ciò non deve indurre i lettori a credere che l'Autrice e Jubie si confondano, anzi: il suo personaggio man mano ha assunto una propria personalità e la strada giusta per scrivere il libro era  quella di lasciare libera Jubie di guidarla, prestandole la giusta attenzione.

L'idea di ambientare la storia proprio nel 1954 risiede nel fatto che alcuni avvenimenti  importanti per l'affermazione dei diritti dei neri si collocano proprio nel periodo da lei scelto.

Anzitutto il caso Brown v. Board of Education of Topeka (​​17 maggio 1954): una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche, ponendo fine alla dottrina del "separato ma uguale". 

Un anno dopo, un ragazzo di nome Emmett Till fu brutalmente assassinato (agosto 1955) per motivi razziali e - fatto scandaloso, che contribuì ad inasprire gli animi della comunità nera, e non solo - nessuno fu condannato per l'omicidio.

Da ricordare anche il boicottaggio degli autobus a Montgomery (dicembre 1955), in seguito al coraggioso rifiuto di Rosa Park di alzarsi dal proprio posto in autobus per far sedere una persona bianca.

Per scrivere questo romanzo ci sono voluti 18 anni.
Complice gli impegni lavorativi, la Mayhew ammette che comunque un periodo così lungo le ha consentito di affinare, negli anni, il proprio stile, e  di assecondare la propria "ossessione" di essere il più precisa possibile.
Inoltre, quando iniziò a scrivere non c'era ancora Internet, per cui le prime ricerche procedettero piuttosto lentamente, consultando libri, riviste degli anni '50, annuari dell'enciclopedia relativi al 1954, ecc.

Suo marito le regalò un atlante stradale del 1954 (trovato su eBay), grazie al quale ha potuto mappare il viaggio che la famiglia Watts ha fatto andando verso sud. Nel maggio 2004 è andata a Washington, DC, per celebrare il cinquantesimo anniversario di Brown v. Board presso lo Smithsonian e la Library of Congress. 
La Biblioteca pubblica di Charlotte e della Contea del Mecklenburg  le fornì le mappe online di Charlotte nel 1954.


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Fonti consultate:    https://bookpage.com/     https://www.bookbrowse.com/

martedì 24 marzo 2020

Dietro le pagine di "La tua vita e la mia"



La lettura di LA TUA VITA E LA MIA di Majgull Axelsson mi ha spinta a interessarmi all'istituto per disabili mentali di Vipeholm a Lund in Svezia, menzionato dall'Autrice, che, a proposito di ciò che succedeva tra le mura del manicomio, cita - senza soffermarvisi troppo - gli esperimenti sulle carie dentali fatte sui pazienti.
I suddetti esperimenti sono avvenuti tra gli anni 1945 e 1955. In seguito, essi furono oggetto di una profonda discussione etica in relazione alle modalità in cui furono condotti.

In Svezia negli anni '30 gli studiosi avevano scoperto che anche i bambini di 3 anni avevano delle carie nell'83% dei loro denti, cosa non insolita se pensiamo che la cura dentale era molto scarsa nella maggior parte dei paesi.
Il trattamento dei denti era praticamente inesistente e quelli in decomposizione venivano semplicemente tirati via; pensate che la mancanza di denti era così diffusa negli Stati Uniti che l'esercito limitò le reclute per la prima e la seconda guerra mondiale a quegli uomini che avevano almeno sei denti opposti intatti.

Di fronte a un'epidemia nazionale di riparazione dei denti troppo costosa da intraprendere, il governo svedese decise di concentrarsi sulla prevenzione e commissionò uno studio (finanziato dall'industria dello zucchero) sul ruolo e l'importanza della dieta e dei dolci.

Decisero che il luogo perfetto per svolgere un simile studio fosse il Vipeholm Mental Institution, una grande struttura appena fuori Lund capace di accogliere fino a 1000 persone ricoverate.
Dal 1935 era diventata una casa per soggetti con gravi disabilità intellettive e dello sviluppo.

Questi pazienti erano definiti idioti, e secondo la medicina di allora un "idiota" era una persona con un QI inferiore a 25; un "imbecille" aveva un QI compreso tra 26 e 50 (l'intelligenza di un bambino di sette anni).
In questo manicomio, vi erano grandi sale in cui i pazienti venivano più che altro lasciati a se stessi; se eccessivamente fastidiosi, li si bagnava con acqua fredda; alcuni di loro erano allettati.

In pratica, alla fine degli anni '40 i pazienti di questa struttura furono deliberatamente nutriti con caramelle appiccicose per vedere cosa sarebbe successo ai loro denti: l'obiettivo era studiare l'effetto delle caramelle sui denti.
A dare il permesso fu il direttore, non certo le famiglie dei degenti, che non furono consultate.

I partecipanti allo studio erano stati tutti nutriti con la stessa dieta di base, poi suddivisi in sette gruppi per confrontare il modo in cui leggeri cambiamenti nei tempi e nella quantità di consumo di zucchero influissero sulla loro salute dentale.
Com'è logico immaginare, molti di questi pazienti hanno finito per perdere i denti.



Un altro aspetto molto triste è stato evidenziato da Kristina Engwall* quando ha confrontato lo stato nutrizionale negli ospedali e nelle istituzioni psichiatriche svedesi per i "deboli di mente" durante le due guerre mondiali con quelli delle istituzioni tedesche delle stesse due epoche. 
Entrambi i paesi avevano alti tassi di mortalità durante la prima guerra mondiale; durante la seconda guerra mondiale, i nazisti usavano la fame come mezzo per uccidere i disabili. 
Similmente, in Svezia, il razionamento dovuto alla guerra ha colpito i pazienti in quanto fu ridotto il cibo disponibile per i pazienti negli ospedali psichiatrici e negli ospedali in generale, ma nonostante la marcata perdita di peso dei pazienti in questo tipo di istituti, non ci sono prove che i tassi di mortalità nelle istituzioni svedesi fossero in aumento, fatta eccezione per il Vipeholm, dove i pazienti, essendo gravemente disabili, richiedevano assistenza nel mangiare.
E' probabile che l'alto tasso di mortalità a Vipeholm tra il 1941 e il 1943 fosse il risultato della carenza di personale e di un'assistenza insufficiente ai pazienti che necessitavano di maggiore aiuto, con conseguente denutrizione e morte. 
In generale, i pazienti istituzionalizzati per lunghi periodi mostrano un alto tasso di mortalità, 
attribuibile alle condizioni di affollamento e alla facile diffusione dell'infezione; durante gli anni della guerra, quando il cibo era di per sè scarso, i tassi di mortalità non poterono che aumentare ulteriormente.




Articoli consultati
  • Fonte 1
  • *Fonte 2:  Engwall, K., 2005. Affamato di morte? Nutrizione nei manicomi durante le guerre mondiali. Scandinavian Journal of Disability Research , 7 (1), pagg. 2-22. DOI: http://doi.org/10.1080/15017410510032172
  • Fonte 3: Seeman, Mary. (2006). Starvation in psychiatric institutions in Sweden. International Journal of Mental Health. 35. 81-87. 10.2753/IMH0020-7411350409. 
  • Fonte 4

lunedì 21 ottobre 2019

Dietro le pagine di "The Chain" di Adrian McKinty



Non troppi giorni fa ho letto e pubblicato il mio modesto parere su un thriller verso il quale nutrivo più di un'aspettativa... ma che purtroppo mi aveva in (larga) parte deluso.

Parlo di THE CHAIN di Adrian McKinty    >>>>>  RECENSIONE


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da cosa ha tratto ispirazione l'Autore
per scrivere il libro?


Vi riassumo la trama: una donna single, mamma della 13enne Kylie, un giorno riceve una terribile telefonata anonima, che le comunica che sua figlia è stata rapita, che entrambe sono ormai entrate a far parte della cosiddetta "catena", una sorta di gruppo criminale segreto che rapisce minori e costringe i genitori della vittima a rapire a sua volta un ragazzino, mettendo in condizione la successiva famiglia a fare lo stesso..., se vogliono veder vivo il proprio figliolo.
Una catena di crimini, insomma, che non va spezzata, pena la morte di chiunque trasgredisca le regole.

Il tema del rapimento è super sfruttato all'interno di film e serie TV, ma l'idea di fondo di McKinty ha dalla sua un buon punto di partenza (che ahimè poi si va a perdere), che è quella di costringere il genitore della vittima (una persona comune ed onesta) a commettere a sua volta un rapimento per poter riavere il proprio bambino.
Qual è stata l'ispirazione per questa idea?

L'autore ha dichiarato che lo spunto ha preso avvio da tre elementi distinti.
Il primo affonda le proprie radici ai tempi della scuola elementare. Una delle prime cose studiate nella prima settimana di scuola è stata la mitologia greca, nella quale c'è il mito di Demetra e Persefone. Demetra va letteralmente all'Inferno per salvare sua figlia dagli inferi; questa storia lo colpì molto ed è rimasta nella sua mente per quarant'anni per poi finalmente emergere e accendere una lampadina.

Il secondo elemento è stato il soggiorno a Città del Messico
Stava lavorando a questo libro che sembrava non andare da nessuna parte.
Una sera, mentre era solo a leggere un giornale, gli occhi sono finiti su un articolo che raccontava proprio questo schema di rapimento in uso in Messico, in base al quale rapirebbero un membro di una famiglia e, mentre questa si sbatte per trovare i soldi del riscatto, deve anche scegliere chi dare come scambio ai rapitori per ottenere la liberazione del rapito, che è più vulnerabile.
Ha pensato: "È davvero intrigante, questa idea di rapimento e scambio". Lo ha davvero incuriosito in quanto bizzarra: una persona viene scambiata con un'altra!

Il terzo elemento ha a che fare con l'Irlanda (McKinty è di Belfast) e il mondo delle superstizioni; negli anni '70 i bambini, nel periodo di Halloween, si mandavano lettere piene di maledizioni e disegni di esagoni e altre diavolerie simili, e se chi li riceveva non ne faceva delle copie inviandole a sua volta ad altri ragazzi, i genitori sarebbero stati uccisi. 
Accadde poi che la sua insegnante di quarta elementare, la signora Carlyle, scoprisse tutto su queste catena di lettere che si inviavano i ragazzini e la trovo terrificante, tanto da chiedere ai ragazzi di portargliele: fece un grande falò fuori dalla classe per "spezzare" la catena di maledizioni e sfortune. 
Tutto ciò impressionò Adrian, che anno dopo si informò della signora Carlyle e seppe che.. no..., le maledizioni non avevano avuto alcun effetto su di lei, non le era accaduto nulla di brutto e, anzi, era viva ed in buona salute all'età di ottantotto anni!

Gli scambi di rapimenti, queste lettere a catena, una donna che spezza la catena: elementi che gli frullavano in testa, e poi l'idea di una madre che va letteralmente all'inferno per salvare sua figlia. 

E così quella notte a Città del Messico, si è seduto e ha iniziato a scrivere un racconto basato su questi punti: scrisse circa cinque pagine, per poi lasciarlo in un cassetto per circa cinque o sei anni. Fino al giorno in cui gli fu proposto di scrivere una "storia americana", lui disse di sì... ed è venuto fuori, "The Chain", tutto in una volta.



Fonti consultate per l'articolo:

sabato 15 giugno 2019

Dietro le pagine di... SEGRETI SEPOLTI di Lisa Unger



La settimana scorsa vi ho parlato di un piacevole thriller psicologico che mi ha presa dalla prima all'ultima pagina: SEGRETI SEPOLTI (Beautiful lies) di Lisa Unger.

E' la storia di Ridley Jones, una giovane giornalista che, in seguito ad un evento apparentemente accidentale, comincia a dubitare della solidità di tutta la propria esistenza, scoprendo gradualmente che essa era fondata su tante, troppe bugie. Ed è intenzionata a scoprirle tutte!


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Ciò che leggiamo spesso è ed della fantasia dell'Autore ma altre volte quest'ultimo
trae ispirazione da storie/situazioni/persone reali, di cui ha avuto conoscenza diretta o indiretta.
La rubrica "Dietro le pagine" prende nome e idea da una presente nel blog "Itching for books"
e cercherà di rispondere a questa curiosità:
Cosa si nasconde dietro le pagine di un libro? Qual è stata la fonte di ispirazione?".


In un'intervista l'autrice ha spiegato che inevitabilmente c'è sempre una componente autobiografica in in che scrive, infatti anche quando la trama ed i personaggi sono per lo più frutto della sua immaginazione, allo stesso tempo questi elementi sono una fusione delle sue esperienze, relazioni, osservazioni, influenze letterarie, ecc.

Nel caso di Segreti sepolti, gran parte dell'impostazione prende le mosse dalla sua vita, a incominciare dall'appartamento in cui vive Ridley e che è un preciso richiamo al primo appartamento in cui ha vissuto la Unger a New York nell'East Village. 
Anche le zone in cui Ridley si ferma sono le stesse frequentate da Lisa, che sia la strada per cercare di fermare un taxi a luoghi come Five Roses e Veniero (nota pasticceria italiana), che sono reali in quel quartiere da lei amato. Le strade che la protagonista percorre, i sottopassaggi e i taxi sono tutti frutto dell'esperienza diretta della scrittrice, che ama la Grande Mela, la conosce bene, per lei è quasi un essere vivente, che annusa e di cui sente il ritmo quando scrive di essa.

L'idea di base del romanzo è partita in modo casuale: una mattina per posta ha ricevuto uno di quei volantini raffiguranti sul retro la faccia di un ragazzo scomparso; si trattava di una foto scattata nel giorno della laurea e raccontava come egli fosse sparito ormai da anni, senza che ci fossero mai state novità sul suo destino.
Ovviamente già in passato Lisa aveva  ricevuto questo tipo di cartoline, eppure il terribile mistero di cosa potesse essere successo a quello come ad altri scomparsi, l'ha sempre colpita, inducendola a immaginare eventuali dinamiche che si possono creare in queste drammatiche storie. Mentre fissava quella foto, si è immedesimata e posta una domanda: cosa succederebbe se, guardando uno di quei volantini, mi riconoscessi? Da lì, la storia ha preso il via.

In pratica, a ispirare Lisa Unger può essere qualsiasi cosa: il verso di una poesia, una notizia, una fotografia, particolari dunque che vanno a costituire il seme di un nuovo romanzo. E se quel seme sboccia perchè trova terreno fertile nel suo subconscio, le "voci"dei suoi personaggi cominciano a farsi sentire e lei inizia ad immaginare chi essi siano, cosa stia succedendo nelle loro vite e come lo affrontino.



Fonti consultate: 

https://www.bookbrowse.com
crimebythebook.com

venerdì 17 maggio 2019

Dietro le pagine di “Country Dark” di Chris Offutt



L’ultimo libro di cui vi ho parlato sul blog è “Country Dark” di Chris Offutt.

Chi o cosa ha ispirato la storia e la scelta dell’ambientazione?

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Country Dark è incentrato sul personaggio principale, Tucker, un giovane veterano della Guerra in Corea, e sulla sua famiglia, tormentata dalla sfortuna, la cui situazione, a un certo punto, non fa che peggiorare.

Chris Offutt ha dichiarato che inizialmente voleva scrivere una saga famigliare che coinvolgesse su tre generazioni che vivevano sulle colline. Aveva già un finale in mente per la seconda e terza generazione, ma bisognava iniziare dal capostipite, e man mano restava sempre più affascinato da Tucker e non è più riuscito a superare il 1971! Più scriveva su di lui, più si interessava a questo giovane uomo, duro, di poche parole, che non beve nonostante contrabbandi alcolici, non si auto-esamina e non è un imbranato; è molto intelligente e pieno di risorse, agisce senza riflettere troppo eppure non lo si può giudicare uno spericolato; puoi esser sicuro che qualsiasi cosa gli tirerai addosso, lui lo affronterà a testa alta.

fonte
Country Dark è ambientato lì dove Offutt è cresciuto, una comunità rurale, fatta di strade sterrate, ruscelli e sentieri che attraversano i boschi, animaletti (dai simpaticissimi scoiattoli ai pericolosi serpenti, lasciati allo stato brado); un posto insolito in cui crescere, ma se n’è reso conto dopo essersene andato. 
Ci sono voluti anni per capire che la sua infanzia era avvenuta durante un periodo di cambiamenti drammatici - la costruzione dell'Interstatale, la Guerra alla Povertà, l'arrivo della TV via cavo. 
Quando cominciò a scrivere, il suo intento era narrare degli adulti che assistettero a questo enorme cambiamento culturale sulle colline.

La terra del Kentucky orientale e il modo di pensare della sua gente fa parte di lui; Offutt dice di sentire su di sé la “sporcizia” dal Kentucky, che ha portato con sè per oltre trent'anni in una piccola borsa di pelle. La bandiera del Kentucky è nel suo studio, il posto della casa in cui scrive, come a ricordargli di mantenere vivo il suo legame con lo stato e la terra.

Ad influenzare enormemente i suoi lavori hanno contribuito sicuramente la propria capacità di osservazione (ce l'ha anche Tucker!), l'ascolto, il parlare con gli estranei, i viaggi, la solitudine nei boschi e la lettura (in particolare, leggere testi incentrati proprio sulle colline l'ha aiutato moltissimo).


Fonti consultate per il post:
https://medium.com
http://newlimestonereview.as.uky.edu

domenica 12 maggio 2019

Dietro le pagine di... “Lascia dire alle ombre” (Himself)



Non molti giorni or sono ho recensito il romanzo “Lascia dire alle ombre” (Himself) di Jess Kidd, una storia misteriosa, dalle tinte dark e con elementi fantastici, che ruota attorno a una fitta maglia di misteri che una piccola cittadina irlandese custodisce gelosamente per anni, fino a quando uno straniero - personalmente coinvolto in quei segreti - giunge per svelarli e comprendere finalmente la verità su se stesso e la sua povera mamma.

Come sempre, mi son chiesta cosa o chi potesse aver offerto alla Kidd gli spunti giusti per creare la trama e l’ambientazione del suo libro.

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La scrittrice ha dichiarato di lasciarsi ispirare dalle persone con cui le capita di avere a che fare, compresi estranei con cui iniziare casualmente una conversazione; la gente possiede, in maniera differente, una ricchezza di storie incredibili, e alcune persone non aspettano altro che poterle raccontare. Le piace viaggiare da sola per questo motivo, perché trova che le persone siano spesso più disposte a chiacchierare con un singolo individuo, che con più d’uno!

Diverse fonti influenzano la sua scrittura; ad es. la poesia, che l’aiuta a rimanere concentrata sul ritmo e le immagini e a scegliere parole “forti”, cosa per lei molto importante.

È stata anche enormemente influenzata dal lavoro di Angela Carter, Charles Dickens, George Saunders, Flann O'Brien, Toni Morrison e William Kennedy; altre fonti di ispirazione sono stati Under Milk Wood di Dylan Thomas e The Playboy of the Western World di JM Synge.


Tornando al romanzo, le vicende fondamentali sono per lo più inserite nel 1976 (con “incursioni” nel

passato, attorno al 1950), che poi sono anche gli anni ai quali risalgono i personali ricordi sull’Irlanda dell’Autrice.

La storia di Orla (la madre di Mahony, il protagonista) si svolge tra la metà degli anni '40 e il 1950; la ricerca per questa prima fase narrativa era basata su resoconti personali e orali di persone che all'epoca vivevano a Mayo (la cittadina in cui viveva la sua famiglia prima di trasferirsi a Londra), insieme a fotografie e letture del periodo in generale.

Per quanto riguarda la scelta del paesino (immaginario) in cui ambientare le vicende - Mulderrig -, esso è frutto di diverse “influenze”, dei tanti posti in cui Jess è stata, in particolare pare si ispiri principalmente a Mayo; il suo intento era che chiunque provenisse da una piccola comunità potesse sentirsi parte del luogo fittizio da lei creato, reso quasi “ultraterreno” in virtù della presenza dell’elemento magico.

L’hanno molto aiutata le storie sentite nell’infanzia, quando visitò Mayo per la prima volta, trascorrendovi del tempo. La sua mamma è sempre stata una grande narratrice e amava condividere storie sulla città in cui era cresciuta, sulla gente del posto.

Jess precisa di essere stata molto attenta a non basare nessun personaggio su una persona realmente conosciuta o di cui aveva sentito parlare, non in maniera evidente, quanto meno, desiderando più che altro che le persone si identificassero con i personaggi e i loro caratteri, le loro scelte.
jess kidd

Ciò non toglie che alcuni personaggi prendano spunto da qualcuno che lei ha davvero avuto modo di conoscere; è il caso della vivace signora Cauley, vagamente basata su una signora incontrata da piccola (la cui madre a volte si prendeva cura di lei) e che era piuttosto eccentrica. È un personaggio che s’è fatto spazio spontaneamente nella mente, è così vivida da sembrare vera e la Kidd non nega che le piacerebbe scrivere un romanzo basato sul suo passato, in quanto sembra una persona molto complicata e potrebbe essere bello ed interessante costruire una storia dell'Abbey Theatre (Dublino) intorno a lei. 

Spero di aver solleticato un pochino il vostro interesse per questo romanzo, che a me è piaciuto davvero tanto!!

lunedì 29 aprile 2019

Dietro le pagine di DOPO (The never list) di Koethi Zan




Una decina di giorni fa ho recensito sul blog DOPO di Koethi Zan (RECENSIONE), un thriller psicologico incentrato su delle ragazze tenute prigioniere in uno scantinato; esse riescono a liberarsi ma il ricordo traumatico di quella terribile esperienza non le lascia, neanche a distanza di dieci anni, però allo stesso tempo dà l'insospettabile coraggio di andare a caccia del loro "Hannibal Lecter".


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Cosa/chi ha ispirato questo romanzo?


Dopo (The never list) prende ispirazione in parte dalle incredibili e terribili storie di sopravvissute alla prigionia, come Elizabeth Fritzl, Natascha Kampusch (recensione libro), Sabine Dardenne, Jaycee Lee Dugard. 
Ragazze che hanno fatto una delle esperienze peggiori in assoluto e ognuna di loro ha dimostrato una forza inimmaginabile nel riprendersi la propria vita, nonostante un simile trauma. 
L'Autrice dice di essersi sentita quasi in soggezione rispetto a loro, cosciente di come le proprie quotidiane difficoltà fossero nulla in confronto a quelle vissute da queste donne.
Il suo scopo era creare un personaggio del genere: una donna forte di fronte all'orrore insondabile vissuto, che aveva bisogno di confrontarsi con il passato per capirlo.

Quando già aveva cominciato a scrivere il libro, venne fuori la notizia della fuga di una delle tre prigioniere di Ariel Castro (il mostro di Cleveland), Amanda Berry, che portò al salvataggio delle altre due (Michelle Knight e Georgina "Gina" DeJesus); Koethi era sbalordita e ciò che stava scrivendo divenne più surreale man mano che la storia procedeva. Aveva scritto un libro basato sul suo peggior incubo, ed eccolo lì sullo schermo, purtroppo reale, anzi, anche peggio della storia che aveva inventato.

Inevitabilmente saltavano agli occhi le somiglianze tra libro e fatti di cronaca, anche se la scrittrice non si era ispirata direttamente a loro: scrivere il libro era "solo" il suo modo di cercare di comprendere le difficoltà e la forza delle donne le cui storie l'avevano ispirata.

Ovviamente la Zan ha condotto ricerche prima di cominciare a realizzare il proprio romanzo.
Aveva passato gli ultimi dieci anni a fare ricerche indirette. in particolare studiando psicopatici, prigionieri di rapimenti e la mente criminale. Inoltre, ha frequentato una scuola di specializzazione in Studi cinematografici, avvicinandosi al Surrealismo con Annette Michelson, che, in un certo senso, ha un debole per il "lato oscuro".

Durante la stesura del libro, ho fatto ricerche formali su BDSM (Bondage, Dominazione/Disciplina, Sottomissione/Sadismo, Masochismo), psicologia anormale, studi sulle vittime, esperienze di donne rapite, le loro memorie, trascrizioni di prove, articoli di giornale. 
Per le parti riguardanti le pratiche BDSM, ad es., ha letto diversi libri sull'argomento, ma ha anche trascorso molto tempo in Internet, entrando proprio in siti Web e blog specifici, approdando su bacheche e in chat scioccanti, finendo per leggere una tal quantità di racconti inquietanti da iniziare a credere che, giunta a quel punto, nulla più l'avrebbe mai potuta sorprenderla, ma in realtà, proseguendo ad informarsi, era costretta e ricredersi perchè più si addentrava in "quel mondo", più conosceva altri siti, altre storie, altre immagini... che le restavano impresse nella mente.

Si è sommersa letteralmente di materiale, ritrovandosi in un mondo davvero molto oscuro e spaventoso, per tanto tempo; anche se chiaramente non può sapere come sia realmente vivere quel tipo di esperienza, sente di aver sviluppato una particolare empatia per quelle vittime e si augura che ciò che ha imparato emerga nel libro.

Infine, per quanto concerne gli autori che le sono stati di ispirazione, Koethi cita soprattutto due autori di romanzi polizieschi che hanno influenzato il suo libro, pur essendo tra loro molto diversi: Patricia Highsmith, le cui storie mantengono sempre un ritmo lento e minaccioso, e una tecnica letteraria e psicologica che la Zan apprezza tanto, e Steig Larsson, che è tutto azione e trame complesse e drammatiche.



Fonti consultate:    Articolo 1   Articolo 2

sabato 16 marzo 2019

Pillole di curiosità su... "La casa di vetro"



Di recente ho recensito il romanzo LA CASA DI VETRO di Simon Mawer che, come suggerisce il titolo, ruota attorno ad un edificio particolare, originale e innovativo rispetto all'epoca in cui è stato costruito; l'Autore ha preso spunto per la "sua" glass room da una villa vera, la Tugendhat House, che si trova davvero a Brno  (nel libro è chiamata Mesto) nella Repubblica Ceca e che fu progettata da Mies van der Rohe.

Mawer si è lasciato catturare dal fascino ipnotico della villa da lui visitata per la prima volta nel 1994. Mentre era in piedi all'interno di stanze che sembravano non aver subito alcun cambiamento dagli anni '30, in un edificio che fino ai nostri giorni rimane una pietra di paragone per il design modernista, è stato per lui naturale pensare: "C'è una storia qui".  Da scrittore di fiction qual è, la storia che avrebbe raccontato sarebbe dovuta essere una sua personale ed originale creazione piuttosto che la vera storia della famiglia che ha costruito la Casa.
Ad ispirarlo, inoltre, la convinzione che il programma modernista, cresciuto negli anni Venti, fosse molto nobile, che portasse avanti un'idea di progresso, di uguaglianza, universalità,  di internazionalismo. Del resto, è già sorprendente in sè la creazione di uno stile artistico-architettonico che non derivi da una particolare società o cultura.

La Tugendhat House non è mai stata usata come centro di biometria (come accade invece alla Landauer House nel romanzo) - sebbene la biometria di cui narra Mawer fosse esattamente il genere di cose che gli scienziati tedeschi (e non) stavano facendo negli anni '30 e '40. Per quanto riguarda l'essere stata resa un museo, è tutto reale ed è esattamente quello che è successo alla casa.

Ho letto in web che in questi giorni esce il film in lingua originale, diretto da Julius Ševcík e prodotto da Rudolf Biermann di InFilm Praha; sarà protagonista, tra gli altri, Carice van Houten, Karel Roden, Hanna Allstrom, Claes Bang, Alexandra Borbèly.




Fonti consultate per il post:


  • Elena Pirazzoli, La storia nei muri. Villa Tugendhat a Brno, in “Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”, 1 (2017) [16-10-2017]. http://rivista.clionet.it/vol1/societa-e-cultura/architettura/pirazzoli-villa-tugendhat.
  • http://www.archidiap.com/opera/villa-tugendhat/
  • https://www.radio.cz
  • https://www.eurozine.com
  • http://it.feedbooks.com/






tugendhat house
(Wikimedia Commons)

domenica 23 settembre 2018

Dietro le pagine di... "La sconosciuta" (Pretty Baby)




"La sconosciuta" è un thriller psicologico della scrittrice Mary Kubica di cui vi ho parlato in questo post >>>>  (RECENSIONE).

In che modo e a partire da cosa l'autrice ha trovato ispirazione per questo suo romanzo?

In generale, la Kubica dichiara di non delineare nè programmare in anticipo cosa scriverà perchè preferisce sviluppare i personaggi e lasciare che prendano il controllo nel processo di scrittura. Quando inizia ogni romanzo ha solo una vaga idea di dove è diretto, e procede con calma, un capitolo alla volta. 
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Secondo lei, pensare troppo alla trama toglie il flusso naturale degli eventi e rende il sentimento forzato, meno spontaneo. I suoi personaggi la sorprendono per tutto il tempo con colpi di scena che si sviluppano nella trama, e per le decisioni inaspettate che essi prendono strada facendo. Spesso ha poca o nessuna idea di come finiranno le sue storie fino a quando non scrive le scene finali.

Pretty Baby (questo il titolo originale) inizia con un incontro casuale ed innocente tra due donne in una stazione ferroviaria.
Il primo personaggio che è balzato alla mente dell'Autrice è stata Willow.
L'ispirazione è giunta in seguito a una necessità: aveva una scadenza urgente circa la stesura del secondo romanzo e aveva bisogno di un'idea, che faticava a nascere: non era semplice scrivere una nuova trama avvincente dopo "Una brava ragazza" e iniziava a sentirsi un po' frustrata. 
Mentre seguitava a scacciare ogni idea che le veniva in mente e che le sembrava poco plausibile o poco originale, ecco che a colpirla è l'immagine di una giovane ragazza senzatetto con un bambino in braccio, in attesa accanto alla "L" di Chicago. Non aveva idea di chi fosse in quel momento o quale sarebbe stata la sua storia ma sapeva che sarebbe stata al centro del suo prossimo libro. 
Cominciò immediatamente a scrivere le scene iniziali del romanzo, dove Heidi incontra Willow per la prima volta, e a quel punto la storia era pronta per funzionare.


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Siti consultati per l'articolo:
  • https://www.sheknows.com
  • https://www.huffingtonpost.com

lunedì 16 luglio 2018

Dietro le pagine di... "Urla nel silenzio" (Silent Scream) di Angela Marsons.



Poco tempo fa vi ho parlato di un thriller bello e avvincente, "Urla nel silenzio" (Silent Scream) di Angela Marsons.

Come spesso capita, quando un libro mi è piaciuto, mi interessa cercare qualche informazione su come esso "è nato" nella mente dell'autore.

In generale, la scrittrice dice di fare numerose ricerche per scrivere i propri libri, il che significa leggere in merito ad alcuni argomenti incredibilmente oscuri, inclusi le testimonianza personali. Non è semplice utilizzare quelle esperienze traumatiche per scrivere una storia di fantasia.

L'Autrice ha dichiarato che il proprio intento era scrivere una storia che fosse oscura come la sua protagonista. Lo spunto le è arrivato da un riferimento reale: una vecchia casa dei bambini che sorgeva nel suo quartiere e attorno ad essa, e ai suoi ospiti, giravano voci misteriose.

Una volta che il personaggio di Kim Stone ha assunto contorni sempre più definiti nella sua testa, quel ricordo le è tornato in mente e le è sembrato che da lì potesse costruire il caso perfetto in cui "incastrare" Kim.

Il personaggio di Kim non è sempre simpatico ma è di certo un tipo appassionato, che sa quel che vuole; chi ha letto il thriller in questione sa che la donna è completamente priva di qualsiasi abilità sociale, è sfacciata al punto di essere scortese ma è in grado di entrare in affinità con i perdenti.
Come mai questo? Man mano che parlava di lei, l'Autrice ha compreso perché fosse così. Quali esperienze personali, accadutele nel passato, avrebbero potuto instillare nell'intelligente detective quei tratti e quegli atteggiamenti duri da lei adottati?

L'ambientazione del romanzo è il Black Country (zona delle Midlands Occidentali inglesi), scelta non casuale perchè è il posto in cui vive Angela, che l'ha scelto proprio per poterlo descrivere in modo realistico.


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http://lizlovesbooks.com
http://jenniferjaynes.net

domenica 8 luglio 2018

Curiosando su "99 giorni" (Burying water) di K.A. Tucker




Non sempre ci sono particolari o sensazionali motivi ispiratori perchè uno scrittore inizi a buttar giù quello che poi sarà un romanzo vero e proprio. E poi, ogni autore ha i propri personalissimi modi che lo conducono a creare una trama, dei personaggi, delle ambientazioni ecc...

Burying water ("99 giorni") di K.A. Tucker narra una storia d'amore dolce, passionale ma anche tormentata dal passato di lei, Acqua, un passato di violenza e umiliazioni di cui lei però non ha memoria, essendosi svegliata in ospedale dopo aver rischiato la vita perchè qualcuno l'ha pestata a sangue; a dire il vero, la ragazza non ricorda nulla di sè, neppure il proprio nome. Forse questa è l'occasione giusta per ricostruirsi da zero un'altra vita? Il ragazzo di cui si sta innamorando, Jesse, ha tutto l'interesse affinchè lei non ricordi nulla...

Ebbene, l'Autrice ha dichiarato che quando ha iniziato a scrivere la storia, non aveva programmato nulla in anticipo; ad es. in merito al doppio punto di vista (Acqua e Jesse), sapeva solo che a Jesse sarebbe stato affidata la narrazione del passato e ad Acqua quella del presente.
Però sapeva esattamente come sarebbe iniziata la storia e sapeva che il lettore avrebbe visto il passato di Acqua sbrogliarsi lentamente prima che lei capisse completamente cosa le fosse successo. 
Ogni piccolo interrogativo l'ha risolto giorno per giorno, una scena alla volta.

Al centro dei suo interesse, sin da subito, c'era il tema della verità. 
Ma più approfondiva la storia, più si rendeva conto che, per Acqua, quello delle seconde possibilità era ciò che le avrebbe dato la forza per continuare ad andare avanti, sia nel passato che nel presente. 
La Tucker voleva evitare che l'attenzione della sua giovane protagonista si fossilizzasse unicamente su quello che le era successo. 
L'importante, dice la scrittrice, è che quando si decide una tematica da portare avanti (come può essere quella della ricerca della verità o del rinascere dopo un trauma), la si inserisca in modo verosimile e non troppo fantasioso nella trama, così da evitare di fare moralismi e "prediche" ma piuttosto dando al lettore la possibilità di comprendere i personaggi ed empatizzare con essi.



Fonte consultata:

https://happyeverafter.usatoday.com














venerdì 11 maggio 2018

Dietro le pagine di ... "La ragazza delle perle"



Cari lettori, come spesso mi accade con i romanzi ben contestualizzati nel tempo e nello spazio, anche stavolta il libro di Lucinda Riley, "La ragazza delle perle", ha stimolato la mia curiosità circa alcuni personaggi e fatti, presenti nella narrazione, che hanno un fondamento storico, reale.

In particolare, in questi momenti, mi soffermerò - seppur brevemente - sul pittore aborigeno Albert Namatjira, sulla missione di Hermannsburg e sulla tragedia del Koombana, una nave che affondò in mare mentre tornava in Australia, nel 1912 (stesso anno in cui affondò il Titanic); questi personaggi ed eventi sono tutti menzionati dall'Autrice.


Ciò che leggiamo spesso è ed della fantasia dell'Autore ma altre volte quest'ultimo
trae ispirazione da storie/situazioni/persone reali, di cui ha avuto conoscenza diretta o indiretta.

La rubrica "Dietro le pagine" prende nome e idea da una presente nel blog "Itching for books"
 e cercherà di rispondere (cercherò di darle una cadenza settimanale, sempre in base alle piccole ricerche che riuscirò a fare)
 a questa curiosità: Cosa si nasconde dietro le pagine di un libro? Qual è stata la fonte di ispirazione?".


Albert Namatjira


Albert (Elea) Namatjira (1902-1959) è nato il 28 luglio 1902 a Hermannsburg (Ntaria), nel Territorio del Nord; Elea apparteneva alla tribù aborigena degli Arrernte. Nel 1905 la famiglia fu accolta nella chiesa luterana, ad Elea fu dato il nome Albert (anche ai genitori venne dato un nome "cristiano" dopo il battesimo).
Albert frequentò la scuola missionaria di Hermannsburg, le cui regole prevedevano che lui vivesse separato dai genitori, alloggiando in un dormitorio con altri ragazzi. A 13 anni trascorse sei mesi nella boscaglia e subì l'iniziazione. Lasciò la missione all'età di 18 anni e sposò Ilkalita, da cui ebbe diversi figli.
La famiglia si trasferì a Hermannsburg nel 1923 e Ilkalita fu battezzata (col nome di Rubina). 

Sin dalla fanciullezza Albert ha abbozzato le scene di vita che si svolgevano attorno a sè: il cortile del bestiame, gli allevatori con i loro cavalli e i cacciatori dopo la partita. 
Incoraggiato dalle autorità della missione, iniziò a produrre placche in legno di mulga; lavorò come fabbro, falegname, operaio.

Gli Arrernte avevano familiarità con le illustrazioni delle scene bibliche, ma nessuno di essi aveva visto paesaggi raffiguranti il ​​proprio ambiente. Motivato da un profondo attaccamento al suo paese e con la speranza di poter campare col proprio talento, Namatjira manifestò interesse verso la pittura.

Nel 1936 accompagnò l'artista Rex Battarbee come cammelliere in escursioni di due mesi presso la catena montuosa Macdonnell Ranges e Battarbee restò colpito dal suo evidente talento. 
Successivamente il pastore Friedrich Albrecht, sovrintendente di Hermannsburg, espose dieci acquerelli di Namatjira ad una conferenza luterana tenutasi a Nuriootpa, nell'Australia meridionale. 
Anche Battarbee aiutò l'amico a far conoscere le proprie opere e gli insegnò l'arte della fotografia.

Anche se Namatjira è conosciuto in particolare per i suoi paesaggi acquerellati delle Macdonnell Ranges e delle zone limitrofe, nei primi anni i suoi disegni includevano disegni di tjuringa (oggetti sacri di legno o pietra, simboli dei grandi eroi dei tempi mitici, utilizzati durante i rituali dell'iniziazione.), temi biblici e soggetti figurativi. Ha anche prodotto manufatti intagliati e dipinti, e per qualche tempo ha dipinto su pannelli di legno di fagioli. 
E' considerato  il primo eminente artista aborigeno a lavorare in un linguaggio moderno.


Palm Valley (1940)
fonte

fonte


La missione di Hermannsburg
fonte
chiesa


La missione fu fondata sulle rive del fiume Finke (a 125 km da Alice Springs) da missionari luterani della Società missionaria di Hermannsburg e dalla Chiesa evangelica luterana d'Australia nel 1877 e fu uno dei primi insediamenti dell'Australia centrale; il nome tedesco fu scelto dai pastori, che organizzarono tale missione per raggiungere gli aborigeni Arrernte ed evangelizzarli.
In questa comunità  è nato l'antropologo Ted Strehlow, che si è dedicato allo studio proprio della tribù degli Arrernte.
Nel 1896 fu costruita una Missione scolastica e creati dormitori separati per ragazzi e ragazze, costruiti nei corso di una decina d'anni (1894-1904). 
I missionari impararono la lingua Arrernte e tradussero gran parte del loro materiale spirituale ed educativo in questo idioma affinchè i propri insegnamenti fossero compresi dalla popolazione. 
La Missione di Hermannsburg operò sotto il controllo luterano fino al 1982, quando la terra fu finalmente restituita al popolo locale di Arrernte.


La tragedia del Koombana

Nel marzo 1912 la nave SS Koombana si mise in viaggio da Port Hedland a Broome (Australia).
Costruita da Alexander Stephen&Sons, fu la prima nave ad essere destinata per trasportare passeggeri e merci lungo la costa occidentale australiana.
L'imbarcazione prende il nome da una delle proprietà pionieristiche della famiglia Forrest vicino a Bunbury; la parola "Koombana" appartiene alla lingua della tribù aborigena Noongar e pare significhi "calma e pace".

Ma ahimè non ci sono state nè l'una nè l'altra per il Koombana, che dopo soli tre anni di navigazione e 37 viaggi, andò incontro al suo ultimo viaggio il 20 marzo 1912, infausto giorno in cui scomparve per sempre nelle acque del mare.
A causa di un ciclone tropicale, morirono 156 persone, cioè tutto l'equipaggio (74 membri) e i passeggeri (80 più due turisti), e la stessa nave non fu mai ritrovata, se si fa eccezione di una piccola quantità di relitti trovati in mare vicino a Bedout Island.

Gli archivi di stato di quel periodo mostrano come questa immane tragedia abbia colpito dolorosamente tutta la comunità.
Generalmente la maggior parte delle persone che viaggiavano sul Koombana aveva interessi commerciali nel settore delle perle, della lana e nell'estrazione mineraria; quella volta, a bordo c'erano anche 22 tosatori, un importante compratore di perle, un certo Abraham Davis; c'erano solo sette donne sulla nave, tra cui due assistenti di volo. Una delle passeggere era Louise Sack, appartenente ad una famiglia in vista e la sua morte ha avuto un grande impatto sulla comunità locale.
E poi c'era Harry Briden, un negoziante con quattro bambini piccoli, che stava vivendo un periodo difficile: sua moglie era in ospedale a Perth e la sua attività stava fallendo. Ha lasciato i figli dicendo che sarebbe andato a Broome per trovare lavoro, ma perse la vita nella tragedia in mare.




Siti consultati per il post:

http://www.sro.wa.gov.au
http://www.thestarfish.com.au (anche foto del Koombana)
http://koombanadays.com
http://adb.anu.edu.au (anche foto Namatjira)
https://northernterritory.com


N.B.: immagini e info prese dal web, per lo più tenendo conto dei diritti di licenza. Per eventuali violazioni, basta segnalare e l'immagine sarà prontamente rimossa.
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