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venerdì 29 agosto 2025

Cold case australiani: quando la finzione viene ispirata dalla cronaca nera (parte 2)

 

Nel post precedente abbiamo ricordato due tristi casi di cronaca nera: la misteriosa ed irrisolta scomparsa dei fratelli Beaumont e la morte di Azaria Chamberlain a causa di un dingo.

In questo post, come anticipato, vedremo gli altri due casi citati da Kate Morton in Ritorno a casa: la ragazza dal pigiama giallo e l'Uomo di Somerton.


Linda Agostini (nome completo: Florence Linda Platt) è nata a Forest Hill (un sobborgo di 
Londra) il 12 settembre 1905; è nota come la "ragazza in pigiama" (o "la ragazza dal pigiama giallo") ed è stata una vittima di omicidio, il cui cadavere fu ritrovato lungo un tratto di strada ad Albury, nel Nuovo Galles del Sud, in Australia, nel settembre del 1934.

Trasferitasi a 19 anni in Nuova Zelanda, vi rimase fino al 1927, quando pensò di andare a vivere in Australia a Sydney. 
Trovato lavoro in un cinema, prese casa presso una pensione in Darlinghurst Road a Kings Cross, dove si racconta che intrattenesse uomini giovani e attraenti. 
Linda aveva il vizio di alzare il gomito, amava frequentare feste e quando iniziò una relazione con l'italiano Antonio Agostini, lo sposò nel 1930 ma il matrimonio si rivelò da subito infelice; per cercare di salvare il salvabile, la coppia decise di partire per Melbourne per sottrarre Linda all'influenza dei suoi amici di Sydney.

Linda sparì in una giornata di fine agosto del 1934 e pochi giorni venne ritrovata senza vita, con indosso un pigiama di seta gialla con un motivo a drago cinese, dettaglio che faceva pensare che la vittima fosse benestante in quanto quell'indumento, in quegli anni (Grande Depressione) era ritenuto "lussuoso". 

A trovare il corpo della vittima fu Tom Griffith, un uomo del posto che stava conducendo un toro da competizione lungo il ciglio di Howlong Road, vicino ad Albury; Linda giaceva in un canale di scolo sotterraneo, gravemente ustionata e nascosta in un sacco di iuta.
La testa della pyjama girl era avvolta in un asciugamano, era stata picchiata selvaggiamente e, da una radiografia, si scoprì che aveva un proiettile nel collo. 

In un primo momento non si riuscì a identificarla (furono fatti più nomi di ragazze scomparse in quel periodo) e la salma fu portata a Sydney, dove fu esposta al pubblico; conservata in un bagno di formalina presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Sydney fino al 1942, fu poi trasferita alla sede della polizia, dove rimase fino al 1944, anno in cui, in seguito a numerose prove forensi e al riesame dell'arcata dentaria, si arrivò a identificare il cadavere con Linda Agostini. 

Ovviamente il coniuge di Linda, Antonio (Tony) fu informato del ritrovamento; l'uomo era da poco tornato a Sydney dopo essere stato internato nei campi di Orange, Hay e Loveday dal 1940 al 1944 (per le sue simpatie per il nazifascismo). 
Il capo della polizia rintracciò Tony nel ristorante in cui lavorava come cameriere e lo interrogò. 

Tony Agostini confessò di aver causato la morte della moglie sparandole, anche se disse che non voleva ucciderla; spaventato dal proprio irreparabile gesto, aveva gettato il corpo nel tombino, lo aveva cosparso di benzina e dato fuoco per distruggere le prove. 
Agostini fu processato per omicidio ma - con gran sorpresa da parte dell'opinione pubblica - fu riconosciuto colpevole di omicidio colposo e condannato a (soli) sei anni di carcere (se ne fece tre). 
Fu rilasciato nel 1948; morì in Italia nel 1969.

In teoria il caso fu chiuso, ma successivamente nuove prove scoperte da Richard Evans, uno storico di Melbourne, avevano messo in dubbio la ricostruzione e la conclusione da parte della polizia; nel libro "The Pyjama Girl Mystery", Evans ha sottolineato che ci fossero delle importanti differenze tra la donna trovata morta e Linda Agostini; ad es., la ragazza in pigiama aveva una taglia di seno diversa da quella di Linda, come anche la forma del naso e il colore degli occhi (Linda li aveva azzurri, la ragazza in pigiama castani). 
Richard Evans sostenne inoltre che erano ben 125 le donne presenti nella lista delle possibili identità in mano alla polizia, e che queste non fossero mai state rintracciate.

Il regista italiano  Flavio Mogherini ha prodotto, nel 1977, un film intitolato "Il caso della ragazza in pigiama" con Dalila Di Lazzaro e Michele Placido.



L'altro caso è sempre australiano ed è altrettanto celebre: l'Uomo di Somerton.


Siamo a Somerton, un sobborgo di Adelaide nell’Australia Meridionale.
La sera del 30 Novembre 1948 un uomo dai capelli biondo-rossicci, di circa 40-45 anni, ben vestito, semidisteso sulla spiaggia con la testa appoggiata all’argine, le gambe allungate con i piedi incrociati  e una sigaretta spenta sul viso, viene notato da alcune coppie che passeggiano; sembrerebbe dormire, se non fosse che degli insetti gli girano intorno e lui non ne è infastidito.
La mattina dopo, quel corpo è ancora lì e non ci sono dubbi: è morto e non presenta segni di violenza.

Non è in possesso di documenti, né di portafoglio; vengono ritrovati due biglietti per viaggiare (uno
Un busto in gesso del cosiddetto Uomo di Somerton

usato per un autobus da Adelaide a Glenelg, e un altro non usato per il treno, da Adelaide a Henley Beach).

Si stima che sia morto verso le due del mattino per un arresto cardiaco causato dall’assunzione, si ipotizza, di un veleno.

La salma viene imbalsamata così da preservarla in vista di futuri esami; da una successiva analisi autoptica, l’avvelenamento si conferma l’ipotesi principale.

Nel gennaio 1949 c'è una svolta: al deposito bagagli della stazione ferroviaria di Adelaide viene ritrovata una valigia, che era lì dal 30 novembre; dentro vengono ritrovati diversi oggetti e indumenti, questi ultimi privi di etichette; su alcuni di essi è riportato il nome T. Keane o Kean  ma la polizia dubita che si tratti del nome del morto.
Controllando i registi ferroviari viene fuori che l’uomo era giunto in stazione nella notte del 30 novembre, si era fatto una doccia e si era rasato in un bagno in città e poi era ritornato in stazione, acquistando il biglietto per il treno delle 10:50 per Henley Beach ma in realtà poi aveva cambiato idea e preso il pullman per Glenelg.

Si brancola nel buio sino a quando, esaminando di nuovo i pantaloni dell’uomo misterioso, in una tasca interna viene recuperato un pezzo di carta su cui si leggono queste parole: Taman Shud. 

Sembra che Taman Shud siano le parole finali di una raccolta di poesie (il "Rub’ayyat") del matematico, astronomo e filosofo persiano dell’XI secolo  'Umar Khayyám  e significano “è finito” o “è concluso”.

Esse vogliono forse indicare che il misterioso individuo senza identità si sia suicidato?

Ma i colpi di scena non sono finiti.

messaggio in codice mai decifrato


Siccome quel pezzo di carta era la pagina strappata da un libro, si scopre che esso proviene da una copia rara del 1859; tanto per aggiungere un ulteriore pizzico di mistero, sul retro di questo libro vi sono cinque righe di annotazioni scritte a matita - che sembrano dei messaggi in codice - e anche un numero di telefono appartenente a Jessica “Jestyn” Thomson (il nome non viene rivelato subito), un'ex infermiera di Glenelg, la cui abitazione è a circa 400 metri a nord del luogo dov’era stato ritrovato il cadavere. 

Quando alla donna viene mostrato un calco in gesso della parte superiore del torso dell’uomo, ha una reazione di sgomento e riconosce in quei tratti un certo Alfred Boxall, sottotenente dell’esercito australiano Sezione Trasporti Acquatici, al quale aveva regalato nel 1945 proprio quella raccolta di poesie.

Il problema era che il presunto Boxall era vivo più che mai e ancora in possesso sua copia del Rub’ayyat.

E se il codice misterioso indicasse che l'uomo era una spia sovietica? 

A nutrire questa teoria si aggiunse la notizia della morte (nell'agosto 1948) di Harry Dexter White, funzionario del Dipartimento del tesoro statunitense morto per avvelenamento da digitale (digossina) e ritenuto un agente sovietico. 

Ma non finisce qui.
Nel 2013 la figlia di Jessica Thomson rivelò che sua madre (simpatizzante comunista), prima di morire, le confidò di aver mentito sull’identità dell’uomo di Somerton, il quale era noto non solo a lei ma anche a livello istituzionale e alla stessa polizia.

Ad ogni modo, le impronte digitali di Somerton Man furono inviate in tutto il mondo, ma nessuno riuscì a identificarlo; fu sepolto nel cimitero di Adelaide nel 1949 e sulla lapide è stato scritto "Qui giace l'uomo sconosciuto che è stato trovato a Somerton Beach".

uomo di Somerton  >> Carl Webb
Settant'anni dopo, all'intricata storia dell'uomo trovato sulla spiaggia si aggiunge un nuovo tassello grazie alla tenacia di un ricercatore dell'Università di Adelaide, Derek Abbott, che è riuscito ad analizzare il DNA dell'uomo dai capelli, conservati quando le autorità fecero realizzare il busto in gesso.
Dalle tracce genetiche si è costruito l'albero genealogico e da lì sono stati rintracciati i parenti ancora in vita.

Abbott ha finalmente dato un nome e un'identità all'individuo sconosciuto: Carl Webb, ingegnere elettrico di Melbourne,  sposato con Dorothy Robertson; ma a parte questo, tante domande ancora non hanno trovato risposta, una su tutte com'è morto ed eventualmente per mano di chi.

Chissà se questa enigmatica storia riserva ancora sorprese?


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martedì 26 agosto 2025

Cold case australiani: quando la finzione viene ispirata dalla cronaca nera (parte 1)

    

Durante la lettura dell'ultimo libro recensito qui sul blog. Ritorno a casa di Kate Morton, ho notato che l'autrice cita al volo alcuni casi reali di scomparse misteriose, accostandoli al mistero attorno al quale verte la storia narrata nel romanzo, vale a dire la misteriosa morte di quattro membri di una stessa famiglia mentre erano a fare un picnic durante la vigilia di Natale.


Curiosa qual sono, ho cercato informazioni su questi casi di cronaca nera, accaduti tutti in Australia diversi decenni fa; oggi vedremo la misteriosa scomparsa dei fratellini Beaumont e la tragica morte di Azaria Chamberlain.


Partiamo dalla scomparsa dei fratellini Beaumont, avvenuta il 26 gennaio del 1966, durante l'Australia Day, giorno di festività nazionale attraverso la quale si celebrano le origini di questo meraviglioso Paese.

Jane, Grant e Arnna Beaumont nel 1965. © MRU
 
Sin dal mattino quella giornata prometteva di essere molto calda e i tre fratelli Beaumont (Jane di 10 anni, Arnna di sette e Grant di quattro) chiesero il permesso alla madre (Nancy) di andare alla spiaggia a Glenelg Beach, distante cinque minuti di autobus dal sobborgo di Adelaide in cui abitavano.

Permesso concesso, per cui i tre presero l’autobus delle 8:45 promettendo di ritornare con quello di mezzogiorno; ma quando passò l'autobus senza i fratellini, e poi anche il successivo, Nancy cominciò a preoccuparsi. 

Non appena rientrato il marito (Jim Beaumont) dal lavoro (alle 15), i coniugi si recarono immediatamente alla spiaggia per cercarli ma niente: i bambini non c’erano. 

I genitori pensarono di tornare indietro, verso casa, rifacendo la strada che i figli potrebbero aver percorso tornando a piedi (nel caso avessero perso l’autobus), si recarono anche da amici e conoscenti ma senza ottenere risultati.

Così, passate le 17, decisero di denunciare la scomparsa alla polizia.

La polizia fece perlustrare la spiaggia e le aree adiacenti, vennero controllati anche l’aeroporto, le linee ferroviarie e le strade interstatali.
Tre giorni dopo, il 29 gennaio, sul Sunday Mail comparve un articolo che parlava dei tre fratellini scomparsi: forse erano stati rapiti e assassinati da un molestatore sessuale?

Come spesso accade in questi casi, numerose furono le testimonianze di avvistamenti che cominciarono ad arrivare: chi li aveva visti presso il porto turistico di Patawalonga Boat Haven, chi nel parco di Colley Reserve, vicino alla spiaggia, in compagnia di un uomo sulla trentina alto, biondo e magro, con cui i tre si erano messi a giocare, dando l'impressione di essere sereni e felici. I quattro si erano poi allontanati dalla spiaggia orientativamente verso le 12.15.

I Beaumont reputarono questa testimonianza poco attendibile, in quanto, a detta loro, i loro figli non erano soliti dar confidenza o addirittura giocare con gli sconosciuti, ma - su sollecitazione della polizia - Nancy ricordò che effettivamente la figlia minore Arnna le aveva detto che Jane aveva “trovato un fidanzato in spiaggia”, ma lei aveva pensato che parlasse di un compagno di giochi e non ci aveva più pensato.

Un panettiere di Glenelg Beach riferì che Jane aveva comprato pasticcini e una meat pie con una banconota da una sterlina (una somma superiore a quella data loro dalla mamma); tempo dopo, una donna riferì che la notte della scomparsa aveva visto entrare un uomo, accompagnato da due ragazze e un ragazzino, in una casa disabitata vicina alla propria; addirittura, aveva osservato una scena allarmante: più tardi il bimbo era uscito di casa ma l'uomo lo aveva brutalmente acchiappato e riportato dentro; la mattina dopo, l'edificio tornò ad essere vuoto.

Ben due anni dopo la scomparsa, Jim e Nancy ricevettero due lettere (spedite dallo Stato di Victoria) firmate “Jane”, e un’altra da un uomo che si firmava “The Man”, in cui questi diceva di avere con sé i bambini; dalle analisi forensi, inizialmente le missive furono ritenute autentiche, ma anno dopo si appurò che erano false.

Diversi individui furono sospettati di aver rapito i bambini Beaumont, tra essi Harry Phipps, un ricco uomo d'affari di Adelaide accusato in precedenza di abusi sui minori, e Bevan Spencer von Einem, un assassino che negli anni '80 aveva rapito ed ucciso un ragazzo; secondo la soffiata di un informatore anonimo, von Einem si vantava di aver rapito tre bambini da una spiaggia diversi anni prima ma, dopo accurate indagini, per quanto ci fossero elementi che potessero sostenere questo possibile coinvolgimento del criminale, si arrivò alla conclusione che von Einem non c'entrasse nulla, anche perché non ci si trovava con l'età del rapitore: l’uomo avvistato in compagnia dei tre bambini, infatti, era stato descritto come “trentenne”, mentre von Einem all’epoca aveva solo vent’anni.

Jim e Nancy Beaumont rimasero per anni nella loro casa di Somerton Park, nella speranza che i loro figli un giorno tornassero a casa...

L'angosciante storia dei tre fratellini Beaumont, mai ritrovati, è uno dei cold case più tristemente famosi in Australia.

Di recente (febbraio c.a.), c'è stato un nuovo interesse per questo caso.
Avete presente uno dei principali sospettati, Phipps?
Ecco, nel 2008 lo scrittore Stuart Mullins contattò l'ex detective Bill Hayes per mostrargli il proprio personale fascicolo in cui aveva raccolto dati ed ipotesi circa la scomparsa dei fratellini Beaumont e in cui faceva il nome del presunto rapitore...

Mullins si avvicinò a Bill dopo aver individuato una prova interessante: la borsa beige con clip che Jane Beaumont portava con sé il giorno della fatidica gita, Stuart la vide mentre visitava la casa di un'anziana vedova, Elizabeth Phipps, nel giugno 2007.
Un particolare da brividi, soprattutto se si considera che sovente gli assassini collezionano 'souvenir' appartenenti alle loro vittime.

Per Stuart, tale avvistamento confermò ciò che sospettava da tempo: l'uomo che aveva rapito i Beaumont quel giorno era il defunto marito di Elizabeth, il milionario e pedofilo Harry Phipps. 
Quando però Stuart ottenne che la polizia indagasse su questo particolare, Elizabeth affermò di aver gettato via la borsa. 

E fu così che Mullins si decise a chiedere aiuto a Bill; questi prese a cuore il caso e, indagando, si rese conto che tutte le strade portavano a Phipps, uomo ricco e influente nella comunità, con legami con la Chiesa e lo Stato. 
Bill e Mullins sottolineano come egli possedesse delle proprietà a pochi passi o a breve distanza da Glenelg Beach, il luogo della scomparsa dei tre fratelli.
A dare conferma della perversione sessuale di Phipps è lo stesso figlio, Haydn, che  confessò di essere stato abusato dal genitore, quand'era un bambino...; non solo, ma egli, che aveva 15 anni al momento della scomparsa dei bambini, affermò di aver visto i Beaumont nella sua casa di famiglia a Glenelg.

Ma la svolta per un'eventuale riapertura avvenne nel 2013, quando due uomini si fecero avanti dopo aver ricordato di aver scavato una buca di due metri per un metro nella fabbrica Castalloy (North Plympton, Adelaide) di Phipps l'ultimo fine settimana di gennaio del 1966. 
L'uomo che commissionò la buca corrispondeva alla descrizione di Phipps. 

Ci sono state, quindi, delle operazioni di scavo nel sito dell'ex fabbrica Castalloy ma mi sembra - leggendo diversi articoli nel web - che non sia stato trovato nulla di rilevante, almeno per ora...

Altro elemento ritenuto importante da Mullins e Hayes: una persona vicina alla famiglia Beaumont ha riferito che, dopo la scomparsa dei fratelli, la nipote di Phipps si fossebsposata con un cugino di Jim Beaumont, il che fa supporre che allora Harry Phipps potrebbe aver avuto modo di conoscere Jane, Arnna e Grant, e magari proprio in virtù di questa conoscenza i tre non si sarebbero allarmati quando l'uomo gli aveva avvicinati...

Non ci resta che aspettare che emergano altre novità, con la speranza di poter sapere cosa sia accaduto a quelle tre anime innocenti e per mani di chi.

📝📖📝📖📝📖📝📖📝📖📝📖

L'altro caso nominato dalla Morton è quello della piccola Azaria Chamberlain.

Figlia di un pastore avventista, Azaria morì a poche settimane di vita uccisa da un dingo; nell'agosto 1980 la piccola era nella tenda all'interno di un campeggio a Uluru (Ayer's Rock, Australia) e fu portata via dall'animale.

Fu sua madre, Lindy Chamberlain, a riferire di aver visto un dingo uscire dalla loro tenda subito dopo la scomparsa della bimba, e immediatamente partirono le ricerche ma il corpicino non fu ritrovato.

Una settimana dopo la scomparsa di Azaria, un uomo, mentre stava scattando foto di fiori selvatici vicino ad Ayer's Rock, notò dei vestiti strappati vicino a un masso, che si rivelarono essere un pannolino strappato e la tutina di un neonato.

Lindy purtroppo fu accusata di aver ucciso la propria figlia, nonostante non vi fossero prove oggettive che facessero pensare a lei quale autrice di questo crimine abietto; la donna fu comunque condannata in primo grado di omicidio sulla base di prove circostanziali, tra cui il sangue trovato nell'auto di famiglia, inizialmente ritenuto appartenente ad Azaria, cosa che venne confermata da una biologa, mentre il medico legale sostenne che gli strappi trovati nella tuta di Azaria fossero più compatibili con delle forbici che con il morso di un dingo. 

Nel 1982, Lindy fu condannata all'ergastolo, mentre suo marito, Michael, ricevette una pena minore.

I Chamberlain erano membri della Chiesa Avventista del Settimo Giorno e su quest'affiliazione religiosa ruotarono numerose speculazioni e teorie assurde, tra cui quella che i genitori avessero ucciso la figlia in una sorta di sacrificio rituale. 

Ma mentre Lindy era in prigione, nuove prove emersero a favore della donna: anzitutto, venne fuori che nell'auto della famiglia c'era dell'emulsione di vernice e non del sangue. 
Ma l'evento determinante fu un fatto del tutto accidentale: un escursionista inglese (David Brett) cadde da Ayer's Rock, il suo cadavere fu ritrovato otto giorni dopo la caduta in una zona piena di tane di dingo e lì gli investigatori rinvennero la giacca mancante di Azaria, in una delle tane. 

I coniugi Chamberlain e i loro sostenitori dovettero lottare molto e a lungo perché fosse fatta giustizia ma perché la donna fosse liberata e il verdetto ribaltato, dovettero attendere il 2012, quando perché il coroner emise la sentenza ufficiale: il responsabile della morte di Azaria fu un dingo.

Dopo la vicenda e il tragico errore giudiziario, la vita della famiglia Chamberlain cambiò radicalmente: Lindy si trasferì negli States e Michael dedicò il resto della sua vita alla lotta per la giustizia e contro i pregiudizi e le persecuzioni. 


Gli altri due casi - la ragazza del pigiama giallo e l'uomo di Somerton - li vedremo in un prossimo post.




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giovedì 24 luglio 2025

[ Storie dietro storie ] Dietro le pagine di... LA SPIA DELLA REGINA (The Queen's spy)




Nel corso di questo mese ho pubblicato la recensione di un romanzo storico, LA SPIA DELLA REGINA di Clare Marchant, la cui trama si svolge seguendo una doppia linea temporale, il 1584 e il 2021.

Spulciando alcune interviste rilasciate dall'autrice in merito a cosa e/o chi le abbia ispirato la scrittura del romanzo, ho letto come il protagonista (Tom Lutton) sia apparso alla sua immaginazione del tutto all'improvviso, in un giorno in cui lei era impegnata a scrivere "Il profumo dei fiori di zafferano" (The secrets of Saffron Hall): ha provato all'istante una grande simpatia per questo bambino silenzioso (sordomuto) e solenne. 
Così, quando ha iniziato a fare ricerche e a pianificare "La spia della regina", sapeva di volere proprio un personaggio come Tom quale protagonista storico, così da esplorarne la disabilità e capire in che modo questa potesse trasformarsi nella sua forza.

La parte narrativa ambientata nel passato vede Elisabetta I sul trono inglese; la sovrana - di fede protestante - viene contrastata da chi vorrebbe invece una regina cattolica e, a tale scopo, ambisce a mettere sul trono Maria Stuarda, sua cugina, la quale fu imprigionata per 18 anni da Elisabetta e decapitata proprio con l'accusa di cospirazione.

Scegliere un protagonista affetto da sordità e mutismo è singolare e originale e la Marchant è stata incoraggiata ad impiegarla dalla scoperta, durante le ricerche storiche sul periodo Tudor, di un matrimonio di un sordomuto; il racconto delle nozze l'ha ispirata nella descrizione del momento in cui Tom sposa la sua Isabel.

Questo, inoltre, le ha anche suggerito delle idee su come Tom avrebbe potuto usare i gesti e i segni con le mani per il resto della sua vita per comunicare con gli altri; per essere più specifici, sapendo che in epoca Tudor si usavano tavolette di cera, questo aspetto si è rivelato molto utile per Tom per comunicare, perché infatti il personaggio usa molto le tavolette per riportare i propri pensieri.

Durante la fase iniziale di stesura del romanzo, l'autrice ha avuto non pochi dubbi su quanto fosse giusta la scelta di un personaggio principale con quella caratteristica, anche perché non è stato facile trovare le parole giuste per descrivere come Tom sperimentava le cose e conosceva il mondo attorno a sé usando solo i sensi che aveva, resi più acuti per forza di cose; ad es.,  l'olfatto più sviluppato avrebbe dato a Tom lo svantaggio di avvertire gli odori più sgradevoli ma, per contro, anche l'enorme e speciale vantaggio di imparare a distinguere e identificare molte varietà di erbe, cosa assolutamente necessaria per uno speziale.

Nel libro emerge la conoscenza che la Marchant ha delle erbe, interesse natole nel corso della scrittura de Il profumo dei fiori di zafferano, quando lesse un articolo sulla coltivazione dello zafferano e capì che sarebbe stato perfetto per la sua storia; man mano, si è interessata ad altre erbe e piante medicinali del XVI secolo, restandone affascinata.
Così ha iniziato a informarsi sui giardini monastici dove poter trovare le diverse erbe e apprendere come esse venissero coltivate; ha scoperto che un certo Hugh Morgan, il farmacista di Elisabetta I, aveva introdotto la vaniglia alla corte Tudor, anche se ne La spia della regina è Tom Lutton a portarla a palazzo per la prima volta.

Come già accennato nella mia recensione, se la storia di Tom è fittizia, non lo è l'intricato e pericoloso universo delle congiure di palazzo: nel cercare informazioni storiche sul periodo di riferimento, la scrittrice si è imbattuta in particolari ed episodi realmente verificatesi che poi ha inserito nel romanzo, come ad es. il particolare relativo alla congiura di Babington, in cui c'era un uomo (pare che la spia fosse uno degli uomini di Walsingham) con un cappotto blu che consegnò una lettera a Babington. Ebbene, il dettaglio del cappotto blu è presente anche in una scena che vede coinvolto Tom.

Questo signor Anthony Babington era solo un giovane ventiquattrenne quando morì, e la sua fine fu davvero orribile.
Arrestato con l'accusa di voler uccidere la regina Elisabetta a favore di Maria Stuarda, l'uomo - che in realtà aveva deciso già da un po' di smettere l'attività di cospiratore e provare a rifarsi una vita fuggendo in Francia - viene coinvolto in un complotto ordito da Walsingham (considerato il "padre" dei servizi segreti britannici e il capo dello spionaggio durante il regno di Elisabetta I) e il 20 settembre 1586 avviene la sua esecuzione.

Dopo essere stato trainato dai cavalli, viene soffocato dal cappio dell’impiccagione e, ancora vivo,  sventrato e squartato, che era la classica condanna a morte per i traditori così come deciso dalla corona d’Inghilterra.



Per adesso è tutto, spero che leggere qualche piccola informazione susciti la vostra curiosità su questo romanzo.




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sabato 29 marzo 2025

[ Storie dietro storie ] Dietro le pagine di "La furia" di Sorj Chalandon



La prossima recensione che pubblicherò a breve ha a che fare con un luogo e una storia reali, sebbene i personaggi e le dinamiche che li vedono coinvolti siano opera della fantasia dell'autore.

Sto parlando del romanzo del giornalista francese Sorj Chalandon, La furia (Guanda Ed.).

In questo libro (L'enragé), Chalandon racconta la storia della fuga di un adolescente (che nel romanzo si chiama Jules Bonneau) rinchiuso in un istituto penale educativo Belle-Ile-en-Mer (a Haute Boulogne), negli anni '30.

Il protagonista riesce ad evadere dalla colonia in seguito ad una rivolta in cui sono coinvolti oltre cinquanta "detenuti" come lui.

Il fatto (nel romanzo come nella realtà) accadde nell'agosto 1934, quando i ragazzi della colonia si ribellarono alle guardie e ai sorveglianti - in seguito all'ennesimo episodio brutale di maltrattamento verso un giovanissimo ospite della struttura - e diedero vita a quella che fu denominata la “Rivolta dei bambini”.

In quella ribellione feroce, i ragazzi distrussero mobili, scavalcarono muri e fuggirono per le campagne nei dintorni della prigione.
Erano in cinquantasei e sulle loro tracce si misero non solo le guardie ma anche gli abitanti di Belle-Île, i turisti addirittura e, ovviamente, la gendarmeria.

Dopo ore di ricerche, i giovani evasi furono catturati e riportati a Haute-Boulogne, dove furono sottoposti a terribili punizioni...
Uno soltanto di essi pare che non fu mai acciuffato: il 56esimo evaso.
E proprio su di lui, Chalandon - svestendo per un po' i panni di giornalista e indossando quelli di romanziere - inventa una storia immaginando il dopo la fuga.


Di quei fatti, a quel tempo, ne parlarono tanti giornalisti, sensibili all'argomento dei maltrattamenti e delle torture che i ragazzini rinchiusi nella penale erano costretti a subire, e lo stesso poeta Jacques Prévert scrisse la poesia "Caccia all'adolescente" (La Chasse à l'enfant), che rendeva omaggio a un prigioniero annegato durante il tentativo di fuga (il famigerato 56esimo). 


Brevi informazioni storiche

La colonia penale di Belle-Ile-en-Mer ha ospitato minori dal 1880 al 1977; prima del 1880, la struttura era una prigione politica, per poi essere convertita dal nuovo direttore, Edouard Périer de la Hitolle, in una colonia penale per minorenni delinquenti, a scopo marittimo e agricolo.

Nella colonia vi erano sia giovani detenuti assolti (ma comunque non restituiti ai genitori) per aver agito "senza discernimento", sia giovani condannati a pene detentive da 6 mesi a 2 anni. 

Nei primi tempi, nelle baracche di Haute-Boulogne viveva un centinaio di ragazzi dagli otto ai vent'anni; nel 1897 si stima che ci fossero ben 400 ospiti.
L'età era variabile: potevano esserci adolescenti tra i 14 e i 18 anni, come anche decine di 12-13enni; ad accomunare la stragrande maggioranza di loro era la provenienza da contesti di indigenza e da famiglie che oggi definiamo "disfunzionali". 

Erano ragazzi con alle spalle storie di povertà, abbandono, con un'infanzia infelice, passata più che altro nelle strade dei quartieri più miseri; spesso analfabeti, tanti di loro venivano internati anche per reati minori o per vagabondaggio.

Bisogna aspettare il secondo dopoguerra perchè qualcosa inizi a cambiare nella concezione di questi istituti rieducativi per minori e affinché venga sancito il primato dell'istruzione sulla repressione.

Nel 1977 vi è la chiusura definitiva degli stabilimenti Haute-Boulogne.






Cosa ha ispirato Chalandon nella stesura del libro?

Come egli stesso ha dichiarato, c'è molto di sé e del proprio vissuto in questo romanzo e in Jules Bonneau, il protagonista.

Durante la sua infanzia, Sorj è stato un figlio picchiato e costantemente minacciato dal padre di finire in  riformatorio se solo avesse preso un brutto voto o commesso errori di qualsiasi genere (anche rovesciare un bicchiere).
Si può ben dire che la parola "riformatorio" abbia ossessionato gli anni della sua infanzia.

Nella casa in cui è cresciuto non c'era una vasta biblioteca di famiglia, anzi: c'erano più che altro libri sulle SS e su Hitler. 
Sorj, spinto dalla voglia di leggere altro, si recava di nascosto in biblioteca e lì lesse diversi libri sul tema del maltrattamento dei minori, scoprendo che, nel corso dei secoli, c'è sempre stato qualche bambino che gli somigliava, che era stato picchiato e trattato male dagli adulti. 

Pur non essendo mai stato in riformatorio, sapeva che esistevano questi luoghi attraverso la bocca del padre e attraverso la letteratura.

Nel 1977, mentre lavorava al quotidiano Libération, seppe della chiusura del centro educativo (?) di Belle-Île-En-mer, che tra l'altro era uno dei centri menzionati dal padre quando lo  minacciava di chiuderlo in un penitenziario per minori.

Non decise immediatamente di scrivere un pezzo sul giornale per cui lavorava per parlare della colonia di Belle-Ile che stava chiudendo, in quanto avrebbe dovuto prima spiegare cosa fosse e perché fosse importante parlarne.
Ma quando più tardi andò in vacanza proprio in quei luoghi, fu come se le voci dei ragazzi gli chiedessero di non dimenticarli.

Quando capì che era arrivato il momento di documentarsi, scoprì che gli archivi della prigione erano andati praticamente distrutti a causa di un incendio nel 1959. 
Non restava che attingere alla stampa dell'epoca, e fu così che si imbattè nella rivolta del 1934 e nella notizia che in 56 fuggirono ma in 55 furono catturati. 
E il 56°? 

Su di lui le notizie si facevano via via più confuse ed è in quel "buco" che si inserisce Chalandon, che pensò: "Papà, volevi che andassi in un riformatorio? Beh, ci andrò!".
E vi entrò attraverso il suo protagonista, Jules Bonneau.

 

Sorj Chalandon è nato nel 1952. È stato per trent’anni corrispondente e giornalista per «Libération», prima di entrare nella squadra di «Le Canard Enchaîné». Ha coperto i maggiori conflitti del secolo scorso, dal Libano all’Afghanistan. Con suoi reportage sull’Irlanda del Nord e il processo di Klaus Barbie si è aggiudicato il Prix Albert-Londres nel 1988. Tra i suoi romanzi precedenti Il mio traditore (Mondadori, 2009), Chiederò perdono ai sogni (Grand Prix du Roman de l’Académie française; Keller, 2014), La quarta parete (Prix Goncourt des lycéens, Premio Terzani; Keller, 2016), La professione del padre (Keller, 2019). Le sue opere sono state tradotte in numerosi Paesi.

LA COLONIA PENALE
di Belle-Île-en-Mer

(Archivi dipartimentali del Morbihan, 9 Fi 154/259)



Refettorio della Casa di Sorveglianza 
di Belle-Île-en-Mer, 1930
 (© Henri Manuel - Biblioteca digitale ÉNAP)




martedì 8 novembre 2022

[ DIETRO LE PAGINE ] "L'isola delle anime" di Johanna Holmström e l'ospedale di Själö



Ho in lettura L'isola delle anime, un romanzo di Johanna Holmström ambientato a Själö, in un manicomio per donne ritenute incurabili, un luogo di reclusione dal quale in poche se ne andavano, dopo esservi entrate.

Cosa spinse la scrittrice a concentrarsi su un tema delicatissimo quale la follia, e a farlo da una prospettiva unicamente femminile?

Uno dei motivi che l'hanno spinta è stato constatare come molti dei suoi lettori tendessero a vedere nei suoi personaggi femminili immaginari delle patologie di tipo psichiatrico, indicando queste donne come borderline, depresse o psicotiche. 
Johanna aveva già scritto di donne in situazioni di crisi di vario tipo, ma qualcosa la indusse a chiedersi con quali occhi stesse guardando alla salute e alla malattia mentale.

Nel 2012 cominciò a cercare su Google "storia delle malattie mentali femminili in Finlandia", imbattendosi subito nella tesi della ricercatrice Jutta Ahlbeck-Rehn sulle donne di Själö nel periodo 1889-1944
All'epoca non sapeva nulla di Själö, ma intuì di aver appena trovato il soggetto per un nuovo libro.

Nel romanzo il lettore incontra un certo numero di donne e la domanda sorge spontanea: avendo raccolto dati e fatti basandosi sulla tesi di Jutta Ahlbeck-Rehn "Diagnosi e disciplina: discorso medico e follia femminile all'ospedale di Själö 1889- 1944" (a cui lei stessa fa riferimento nella postfazione), quanto e cosa di questo materiale Johanna Holmström ha inserito nel proprio libro?

La Holmström ha dichiarato che i personaggi del romanzo sono frutto di un mix di diverse storie di pazienti.

Quando lesse per la prima volta la tesi di Juttas Ahlbeck-Rehn, immaginò di avere davanti a sé le donne di cui la sociologa raccontava le vicende personali all'interno della struttura ospedaliera; si trattava allora "solo" di sceglierle e farle prendere vita, anche se ovviamente le storie specifiche di ciascun personaggio di per sé sono inventate e anche i loro nomi non sono quelli reali (documentati negli archivi), visto che sarebbe stato poco rispettoso menzionare le donne realmente esistite. 
Così decise di creare le proprie storie di vita, plausibili e basate su eventi reali e sulle persone rimaste a Själö.

Johanna Holmström
fonte
Prima di iniziare a lavorare al progetto del libro, aveva un'immagine piuttosto stereotipata dell'assistenza sanitaria: nella sua immaginazione, il tipo di infermiera che lavorava in un manicomio, somigliava alla inquietante Miss Ratched (personaggio che compare nel romanzo "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e attorno al quale ruota la serie RATCHED), fredda e poco sensibile verso i poveri malati. Ma questi pensieri sono cambiati durante il processo di scrittura.
La scrittrice si è presa del tempo per fare ricerche negli archivi di Turku, guidata dal prezioso studio di Ahlbeck-Rehn; ha studiato le storie dei grandi ospedali psichiatrici in Finlandia, ha letto Foucault, Freud, Lacan, consultato i giornali degli anni ’30 e vari materiali.


L'ospedale di Själö è stato chiuso definitivamente nel 1962, in quanto ritenuto troppo lontano rispetto alla terraferma. Paradossale, se si pensa che si scelse quest'isoletta proprio per il fatto che fosse remota, distante, così da lasciare i ricoverati al loro destino...

Själö o Nagu Själö (in svedese) o Seili (in finlandese) è una piccola isola al largo della costa sud-occidentale della Finlandia; fa parte del comune di Pargas. 
Il nome Själö si riferisce, etimologicamente, al fatto che l'isola sia stata dimora di foche.

L'isola è nota per la sua chiesa e la sua natura, per ospitare un istituto di ricerca e, certamente, per l'ex ospedale; quest'ultimo viene menzionato per la prima volta nel 1689, sebbene i pazienti si trovassero sull'isola già da molto prima.

ospedale visto dall'alto
(Wikipedia)


Infatti nel 1619 fu costruito il lebbrosario per ordine del re svedese Gustavo II Adolfo, che scelse Själö per la sua posizione remota. 
Quando, nel 1700, la lebbra iniziò a scomparire dalla Finlandia, sull'isola principale fu costruito un manicomio; più precisamente, nel 1785 l'ospedale da lebbrosario fu convertito in una struttura per malati di mente. 
Nel 1889 tutti gli uomini furono trasferiti da Själö e il nosocomio divenne esclusivamente dedicato alle pazienti di sesso femminile. Alcune di loro erano molto giovani; una aveva solo 9 anni.

Il numero di pazienti a Själö variava tra 30 e 50; all'interno, l'edificio era diviso da un lungo corridoio fiancheggiato da stanze (ciascuna accoglieva una sola persona) di 1,87 x 2,07 metri. 
Il personale si assicurava che i pazienti fossero tenuti in isolamento e non era molto attenta a che le "celle" fossero curate per bene.
Ad essere ricoverati erano persone ritenute incurabili e i "pazzi", che restavano là praticamente fino alla morte e le loro proprietà passavano alla chiesa.

l'interno di una camera
source

I soggiorni delle donne a Själö, dunque, erano spesso molto lunghi, quando non terminavano con la loro morte.

I "metodi di trattamento" dell'ospedale di Själö erano la terapia occupazionale, la camicia di forza, l'isolamento in una cella "calmante" con figure geometriche marroni; non mancò l'utilizzo anche di bagni bollenti o ghiacciati.

Durante i periodi di guerra, le donne non ricevevano molto cibo e spesso si ammalavano; attorno a loro solo sporcizia, fame e miseria.

Dopo la chiusura del manicomio (1962), gli edifici furono rilevati dall'Università di Turku e l'istituto di ricerca concentrò i propri studi sugli ecosistemi del Mare dell'Arcipelago e sull'intera area del Mar Baltico. 

Come dicevo più su, la ricercatrice Jutta Ahlbeck-Rehn ha studiato cosa è successo alle donne di Själö e in che modo l'appartenenza a determinate classi sociali influenzasse il loro destino; anche lo stesso genere sessuale contava: le donne, infatti, erano classificate come malate molto più degli uomini. 
Dei quasi 200 pazienti presenti nei dati di Ahlbeck-Rehn, 52 non avevano una diagnosi psichiatrica precisa.
Pochi furono coloro che lasciarono l'istituto; ci sono state donne che hanno fatto ritorno a casa solo dopo essere state sterilizzate...
Le donne povere delle classi sociali inferiori o le donne sessualmente "disinibite" (o ritenute tali) erano le tipologie più frequenti di pazienti.
Negli anni '30 del secolo scorso, criminali appartenenti alla classe inferiore furono mandati all'ospedale psichiatrico di Själö. Secondo la teoria dell'igiene razziale, c'era la convinzione che il sottoproletariato fosse biologicamente incline a malattie, follia e ubriachezza.

In pratica, la follia era un fenomeno sociale, non soltanto un fatto medico.



Fonti consultate:

Articolo 3 (da "Il manifesto")
Wikipedia.org 

lunedì 6 giugno 2022

❤ Storie dietro storie ❤ "Le verità di Miracle Creek" di Angie Kim

 

Domani sera cercherò di pubblicare la recensione dell'ultimo romanzo terminato: Le verità di Miracle Creek di Angie Kim, che ha uno sfondo a mio avviso originale e particolare: le sedute di ossigenoterapia iperbarica, che permettono la somministrazione dell’ossigeno a puro al cento per cento a una pressione atmosferica tre volte superiore a quella normale e si svolgono in una camera iperbarica concepita appositamente.


Il romanzo è un thriller giudiziario che affronta tematiche importanti, come l'immigrazione e le sue

source
foto di Tim Coburn

tante difficoltà d'integrazione, il rapporto genitori-figli, la disabilità (in particolare l'autismo) e come ci si rapporta ad essa, che siano i genitori (in primis, il caregiver) o la gente attorno.


Quello dei tribunali è un mondo noto ad Angie Kim, che ha lavorato come avvocato in un grande studio; non solo, ma anche gli altri temi le sono familiari, a partire da quello dell'immigrazione.

La famiglia di Angie, infatti, è arrivata negli Stati Uniti dalla Corea del Sud quando lei era una bambina, cosa che accade anche ai personaggi centrali del libro. 
Per quanto riguarda la presenza di condizioni patologiche serie e gravi, la Kim ha tre figli, ciascuno dei quali ha affrontato problemi medici con conseguenti test e trattamenti ad essi associati.

L'input - che è poi il cuore del romanzo - viene proprio da questa singolare ambientazione (la camera iperbarica) e dalla domanda: potrebbe accadere qualcosa di tragico e terribile in un contesto del genere, che dovrebbe essere comunque protetto?

L'Autrice ha dichiarato di aver fatto esperienza (ai tempi non era ancora una scrittrice) dell'HBOT (Hyperbaric oxygen therapy) a motivo di  uno dei suoi figli e di ritrovarsi quindi a condividere con altre persone questo ambiente in cui sei "rinchiuso" con altre famiglie mentre si svolgono le sedute.

Inevitabili scattavano le confidenze personali, e la condivisione di quel tipo di esperienza  avrebbe potuto essere interessante da esplorare in un eventuale romanzo. 

Dopo avere iniziato a pubblicare racconti personali e brevi, ha pensato di buttarsi nell'avventura di scrivere, appunto, un romanzo e il pensiero è subito andato all'HBOT come a una delle idee principali, in special modo al fatto di stare in un ambiente di gruppo in cui potesse accadere un fatto tragico, in grado di provocare feriti (e ferite) e morti.

Ma questa era solo una delle due idee che le frullavano in testa; l'altra era decisamente differente e partiva dalla condizione personale della Kim, cioè della sua famiglia immigrata negli States: i suoi genitori lavoravano al centro di Baltimora in un negozio di alimentari ed Angie aveva in mente di partire proprio dall'idea del negozio di un droghiere coreano e da un mistero ad esso legato (una pistola nascosta, un cadavere o forse un corpo ferito...); i limiti dovuti alla lingua avrebbero avuto il loro peso, impedendo all'uomo di parlare di questo mistero, che faceva parte della sua vita. 

Nel sottoporre entrambe le idee ad un amico scrittore (che fa parte del suo gruppo di sceneggiatori), questi le consigliò di  unire le due storie e fare in modo che la famiglia di immigrati coreani fossero proprietari e operatori di questa attività legata all'HBOT. 

Più pensava a questa storia, più ne era intrigata... fino ad arrivare a dar forma al romanzo.


Vi ho presentato in questo post i temi affrontati e l'idea di partenza del libro d'esordio di Angie Kim, sperando abbiano stuzzicato il vostro interesse.
A domani per la recensione!!



Fonti consultate:

https://www.writeordietribe.com/author-interviews/interview-with-angie-kim
https://www.elle.com/culture/books/a27253585/angie-kim-interview-miracle-creek/

mercoledì 23 febbraio 2022

Dietro le pagine di... "La custode dei peccati"

 

In questi giorni sto leggendo LA CUSTODE DEI PECCATI di Megan Campisi, che ha al centro la storia di una ragazzina - May Owens - cui è toccato un triste "destino": in seguito ad un furto, è stata condannata a diventare una mangiapeccati




Chi erano i/le mangiapeccati? C'è traccia di loro nella storia?

Confesso di non aver mai sentito parlare né di aver letto nulla a proposito di queste figure realmente esistite, prima di leggere il libro della Campisi.

Presa dalla curiosità, ho provato a cercare qualche informazione al di fuori dal contesto del romanzo, che chiaramente, per ragioni narrative, contiene sì elementi storici ma anche fittizi, inventati.

Inquadriamo anzitutto il periodo storico: XVIII e XIX secolo, ma in realtà è una pratica presente in età Medievale e sopravvissuta al trascorrere del tempo, visto che verso la fine del 1600 si registra ancora questa "vecchia usanza ai funerali", che pare sia stata praticata fino all'inizio del XX secolo; gli studiosi hanno ipotizzato, a proposito della sua origine, che essa presumibilmente potesse essere frutto di un'interpretazione dell'uso del capro espiatorio menzionato nel Levitico

fonte

Altri hanno ritenuto che provenisse da tradizioni pagane, ma in Death, Dissection and the Destitute, Ruth Richardson scrive di un'usanza medievale che riguardava proprio il "mangiare il peccato": prima di un funerale, i nobili una volta davano cibo ai poveri in cambio di preghiere a favore di un loro caro morto di recente.

Dove si praticava? In Inghilterra, Scozia e Galles.
I "mangiatori di peccati" (sin eaters) erano persone della comunità che consumavano i peccati della gente morta di recente.

A dare una prima vera testimonianza della pratica è stato lo studioso del 1600 John Aubrey (1626-1697), il quale annotò che nell'Herefordshire c'era questo costume: nei funerali venivano assunti dei poveri che avrebbero dovuto "prendere su di loro" tutti i peccati del defunto, e in che modo? Il mangiapeccati doveva consumare, sul corpo del morto, pane e birra, e avrebbe ricevuto sei pence in denaro, il tutto nella convinzione che in questo modo l'anima della persona deceduta potesse andare dritta dritta in Paradiso perchè i suoi peccati non gravavano più su di essa... ma su quella del mangiapeccati.

Siccome consumare i peccati di un'altra persona non era un'attività proprio allettante, solitamente a prendersi quest'onere erano individui poveri e già magari emarginati dalla comunità, disposti quindi a mettere a rischio la propria salvezza in cambio di un magro compenso o di un pasto gratuito.

È facile immaginare come queste figure fossero oggetto di profondo disprezzo; i loro tristi servigi dovevano essere esercitati in modo discreto e, una volta fatto il proprio lavoro, costoro venivano cacciati di casa, spesso picchiati e maltrattati fino a quando non se ne fossero andati.

Si pensava che incrociare lo sguardo di un mangiatore di peccati attirasse una maledizione, anche perché questi disgraziati erano comunque ritenuti dannati, più peccatori degli altri e, in una certa misura, più malvagi. Trovarsi al cospetto di un mangiatore di peccati significava stare alla presenza dei peccati di molte persone.

Va da sé che i mangiapeccati vivessero spesso come dei derelitti, lontani dagli altri, odiati ma comunque necessari nel caso in cui qualcuno morisse prima che potesse confessare i propri peccati. 

La Chiesa non ha mai punito quest'usanza alternativa ma neanche incoraggiata, tant'è che poi è andata man mano scomparendo.
Ne parlano anche John Bagford (1650–1716, scrittore, bibliografo) e Catherine Sinclair, che annota nel suo diario di viaggio del 1838 (Hill and Valley) come la pratica fosse sì in declino ma se ne trovassero ancora tracce nel Monmouthshire (contea del sud-est del Galles) e in altre contee ad ovest. 

Richard Munslow, sepolto nel 1906 a Ratlinghope (un villaggio nello Shropshire, Inghilterra) pare sia l'ultimo mangiatore di peccati. 




Fonti consultate:

https://www.atlasobscura.com/
https://historyofyesterday.com/
https://www.secondshistory.com/

domenica 30 gennaio 2022

Dietro le pagine di... "La ragazza del sole" di Lucinda Riley


Come dico ogni volta che scrivo la mia opinione sui romanzi di Lucinda Riley, uno degli aspetti che più gradisco delle sue narrazioni è il mix tra finzione e realtà: mi piace molto che i personaggi inventati dei suoi libri interagiscano (e la loro vita è spesso da essi rivoluzionata) con personaggi realmente esistiti.

È ciò che si verifica anche nel sesto libro della saga Le Sette Sorelle, LA RAGAZZA DEL SOLE (recensione), dove la giovane protagonista è in qualche modo collegata a una donna nera che ha dato il suo notevole contributo per aiutare concretamente i figli di tossicodipendenti nel quartiere di Harlem, a New York: sto parlando di Mother Clara Hale.


Clara McBride è nata nel 1905 a Elizabeth City, nella Carolina del Nord; rimasta orfana molto giovane, dopo il liceo sposa Thomas Hale e insieme si trasferiscono a New York, ad Harlem.

C'è da dire che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, Harlem era un quartiere piuttosto povero e con un elevato tasso di disoccupazione e criminalità, tanto che per anni è stato considerato tra i più pericolosi e malfamati nell'isola di Manhattan.

Purtroppo, dopo pochi anni dal matrimonio, Thomas muore di cancro, lasciando la giovane vedova con tre bambini (Nathan e Lorraine, Kenneth era stato adottato) piccoli da crescere e mantenere. Avendo bisogno di soldi, Clara comincia a lavorare come donna delle pulizie nelle case durante il giorno e nei teatri di notte.

Essendo lei per prima ad incontrare non poche difficoltà nel crescere i propri figli ad Harlem e da madre sola, la signora Hale sente una forte empatia per i bambini abbandonati e trascurati. 
Così, negli anni '40 apre le porte della propria casa per fornire assistenza a breve e lungo termine ai bambini della comunità; si preoccupa anche di trovare alloggio a bambini senzatetto e questo suo impegno fa sì che venga chiamata affettuosamente "Mother Hale", essendo stata riconosciuta come  madre affidataria autorizzata che fornisce assistenza a centinaia di bambini nella propria casa. Inizialmente il suo aiuto è volto a prendersi cura di bambini i cui genitori lavorano durante il giorno, offrendo ai piccoli ospiti un ambiente premuroso ed e amorevole.  

"hold them, rock them, love them
 and tell them how great they are."
Nel 1969 le cose cambiano: Lorraine Hale (la figlia, medico, di Clara) incontra in un parco di Harlem una donna eroinomane, con il suo bambino di due mesi, e le dà l'indirizzo di sua madre. 

Da quel momento Clara decide di prestare assistenza e aiuto ai figli di persone tossicodipendenti, supportata dai propri figli; insieme a Lorraine fondano Hale House, una comunità in cui venivano accolti bambini/ragazzi tossicodipendenti per fornire loro cure ed assistenza: li cresceva come fossero figli suoi e, una volta guariti dalla dipendenza, si preoccupava di trovare famiglie interessate all'adozione.

Ad Hale House, inoltre, i genitori con problemi di droga venivano aiutati ad imparare a prendersi cura di se stessi e dei loro bambini partecipando a un programma di riabilitazione. 
Negli anni '80, Hale ha ampliato i servizi di Hale House includendo l'assistenza ai bambini colpiti dall'HIV e a coloro che avevano perso i genitori a causa dell'AIDS.

Durante gli anni in cui ha operato ed aiutato tante persone, Mother Clara Hale ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi per il suo servizio alla comunità; nel 1985 il presidente Ronald Reagan l'ha definita una "eroina americana" per il suo impegno nei confronti dei bambini a rischio.

Clara McBride Hale è morta il 18 dicembre 1992 a New York City all'età di 87 anni.





Come spiegato già nella sinossi del libro, la storia si sviluppa su due piani temporali: il 2008 e gli anni '40 del Novecento, in cui conosciamo la co-protagonista la newyorchese Cecily, che trascorrerà non pochi anni in Kenya.
Là viene in contatto con la comunità di bianchi aristocratici denominata Happy Valley.

Si tratta di un gruppo di ricchi signori e signore britannici e anglo-irlandesi, stabilitisi nella regione Happy Valley della Wanjohi Valley, vicino alla catena montuosa di Aberdare, tra gli anni 1920 e gli anni 1940; l'area intorno al lago Naivasha è stata una delle prime ad accogliere comunità bianche.
In particolare negli anni Trenta il gruppo diventò noto per i suoi stili di vita "decadenti", edonistici, per l'abitudine all'uso di droga e per la promiscuità sessuale.

Tra i membri di Happy Valley sono annoverati personaggi cui si è ispirata la stessa Lucinda e che vengono da lei menzionati: Kiki Preston (1898 - 1946), Jock "Jack" Delves Broughton e la moglie Diana Delves Broughton, Josslyn Hay, 22esimo conte di Erroll, Alice de Janzé.


Wanjohi Valley, Kenya





Kiki Preston


lago Naivasha



https://blackdoctor.org/
https://ifatti.wiki/
https://www.blackpast.org/

bursarts.wordpress.com
https://it.knowledgr.com/
https://therake.com/stories/happy-valley-set/
https://www.kenyavacanze.org/safari/lago-naivasha/

venerdì 7 agosto 2020

Dietro le pagine di "Il colore dei fiori d'estate" (The dry grass of August) di A.J. Mayhew



Recentemente ho avuto modo di leggere ed apprezzare "Il colore dei fiori d'estate" (The dry grass of August) e, come spesso accade, mi son chiesta: cosa o chi ha ispirato l'autrice nella stesura del suo libro?

Anna Jean Mayhew ha dichiarato che la sua famiglia ha avuto in casa una domestica di colore quando lei era una ragazzina; inoltre, insieme alla sorella e alla domestica, partecipò alla Daddy Grace Parade  e, proprio come nel romanzo, sull'autobus lei e la sorella sedettero davanti e la donna che lavorava per la sua famiglia si mise dietro. 
La scrittrice racconta inoltre che c'è stato un episodio che l'ha segnata profondamente e che, per quanto non traumatico o straordinario in sé, le ha donato una prospettiva diversa con cui vedere le cose; solo dopo trent'anni ha avuto la forza di scrivere quali sentimenti quell'avvenimento avesse suscitato in lei.

Era il 1957 e Anna aveva diciassette anni; nell'estate di quell'anno lavorava come bagnina, il che le permetteva di sfoggiare un'abbronzatura profonda. 
RECENSIONE

Quando a Charlotte fu concesso ai neri di salire sugli autobus in cui viaggiavano anche i bianchi, i suoi genitori le dissero che se "uno di loro" (una persona di colore) fosse salito sull'autobus e le si fosse seduto accanto, lei avrebbe dovuto scendere o almeno cambiare posto. Un giorno una donna di colore si sedette accanto a lei sull'autobus e le parole dei genitori le balenarono nella mente. Eppure, Anna si sentiva inchiodata al proprio posto e, ritenendo scortese alzarsi, decise di restare seduta lì; a un certo punto, guardando le braccia sue e della signora, che quasi si toccavano, si è accorta che la propria pelle era molto più scura di quella della donna. Questo fatto la fece riflettere molto.

Anna è nata ed è cresciuta a Charlotte (stessa ambientazione del romanzo) e, sebbene la maggior parte dei fatti principali del libro siano pura finzione, altri invece si rifacevano ad esperienze accadute davvero, che a suo gusto erano troppo belle per non essere usate, come la scena in cui Paula Watts, dopo aver attraversato il fiume Chattahoochee, si ritrova la propria auto con due ruote su un traghetto e due ruote a terra. È successo davvero.

La protagonista e voce narrante, June Bentley Watts, alias Jubie, era nella sua testa molto prima che iniziasse il libro. È un anno più giovane di lei nel 1954, ma ciò non deve indurre i lettori a credere che l'Autrice e Jubie si confondano, anzi: il suo personaggio man mano ha assunto una propria personalità e la strada giusta per scrivere il libro era  quella di lasciare libera Jubie di guidarla, prestandole la giusta attenzione.

L'idea di ambientare la storia proprio nel 1954 risiede nel fatto che alcuni avvenimenti  importanti per l'affermazione dei diritti dei neri si collocano proprio nel periodo da lei scelto.

Anzitutto il caso Brown v. Board of Education of Topeka (​​17 maggio 1954): una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche, ponendo fine alla dottrina del "separato ma uguale". 

Un anno dopo, un ragazzo di nome Emmett Till fu brutalmente assassinato (agosto 1955) per motivi razziali e - fatto scandaloso, che contribuì ad inasprire gli animi della comunità nera, e non solo - nessuno fu condannato per l'omicidio.

Da ricordare anche il boicottaggio degli autobus a Montgomery (dicembre 1955), in seguito al coraggioso rifiuto di Rosa Park di alzarsi dal proprio posto in autobus per far sedere una persona bianca.

Per scrivere questo romanzo ci sono voluti 18 anni.
Complice gli impegni lavorativi, la Mayhew ammette che comunque un periodo così lungo le ha consentito di affinare, negli anni, il proprio stile, e  di assecondare la propria "ossessione" di essere il più precisa possibile.
Inoltre, quando iniziò a scrivere non c'era ancora Internet, per cui le prime ricerche procedettero piuttosto lentamente, consultando libri, riviste degli anni '50, annuari dell'enciclopedia relativi al 1954, ecc.

Suo marito le regalò un atlante stradale del 1954 (trovato su eBay), grazie al quale ha potuto mappare il viaggio che la famiglia Watts ha fatto andando verso sud. Nel maggio 2004 è andata a Washington, DC, per celebrare il cinquantesimo anniversario di Brown v. Board presso lo Smithsonian e la Library of Congress. 
La Biblioteca pubblica di Charlotte e della Contea del Mecklenburg  le fornì le mappe online di Charlotte nel 1954.


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Fonti consultate:    https://bookpage.com/     https://www.bookbrowse.com/

martedì 24 marzo 2020

Dietro le pagine di "La tua vita e la mia"



La lettura di LA TUA VITA E LA MIA di Majgull Axelsson mi ha spinta a interessarmi all'istituto per disabili mentali di Vipeholm a Lund in Svezia, menzionato dall'Autrice, che, a proposito di ciò che succedeva tra le mura del manicomio, cita - senza soffermarvisi troppo - gli esperimenti sulle carie dentali fatte sui pazienti.
I suddetti esperimenti sono avvenuti tra gli anni 1945 e 1955. In seguito, essi furono oggetto di una profonda discussione etica in relazione alle modalità in cui furono condotti.

In Svezia negli anni '30 gli studiosi avevano scoperto che anche i bambini di 3 anni avevano delle carie nell'83% dei loro denti, cosa non insolita se pensiamo che la cura dentale era molto scarsa nella maggior parte dei paesi.
Il trattamento dei denti era praticamente inesistente e quelli in decomposizione venivano semplicemente tirati via; pensate che la mancanza di denti era così diffusa negli Stati Uniti che l'esercito limitò le reclute per la prima e la seconda guerra mondiale a quegli uomini che avevano almeno sei denti opposti intatti.

Di fronte a un'epidemia nazionale di riparazione dei denti troppo costosa da intraprendere, il governo svedese decise di concentrarsi sulla prevenzione e commissionò uno studio (finanziato dall'industria dello zucchero) sul ruolo e l'importanza della dieta e dei dolci.

Decisero che il luogo perfetto per svolgere un simile studio fosse il Vipeholm Mental Institution, una grande struttura appena fuori Lund capace di accogliere fino a 1000 persone ricoverate.
Dal 1935 era diventata una casa per soggetti con gravi disabilità intellettive e dello sviluppo.

Questi pazienti erano definiti idioti, e secondo la medicina di allora un "idiota" era una persona con un QI inferiore a 25; un "imbecille" aveva un QI compreso tra 26 e 50 (l'intelligenza di un bambino di sette anni).
In questo manicomio, vi erano grandi sale in cui i pazienti venivano più che altro lasciati a se stessi; se eccessivamente fastidiosi, li si bagnava con acqua fredda; alcuni di loro erano allettati.

In pratica, alla fine degli anni '40 i pazienti di questa struttura furono deliberatamente nutriti con caramelle appiccicose per vedere cosa sarebbe successo ai loro denti: l'obiettivo era studiare l'effetto delle caramelle sui denti.
A dare il permesso fu il direttore, non certo le famiglie dei degenti, che non furono consultate.

I partecipanti allo studio erano stati tutti nutriti con la stessa dieta di base, poi suddivisi in sette gruppi per confrontare il modo in cui leggeri cambiamenti nei tempi e nella quantità di consumo di zucchero influissero sulla loro salute dentale.
Com'è logico immaginare, molti di questi pazienti hanno finito per perdere i denti.



Un altro aspetto molto triste è stato evidenziato da Kristina Engwall* quando ha confrontato lo stato nutrizionale negli ospedali e nelle istituzioni psichiatriche svedesi per i "deboli di mente" durante le due guerre mondiali con quelli delle istituzioni tedesche delle stesse due epoche. 
Entrambi i paesi avevano alti tassi di mortalità durante la prima guerra mondiale; durante la seconda guerra mondiale, i nazisti usavano la fame come mezzo per uccidere i disabili. 
Similmente, in Svezia, il razionamento dovuto alla guerra ha colpito i pazienti in quanto fu ridotto il cibo disponibile per i pazienti negli ospedali psichiatrici e negli ospedali in generale, ma nonostante la marcata perdita di peso dei pazienti in questo tipo di istituti, non ci sono prove che i tassi di mortalità nelle istituzioni svedesi fossero in aumento, fatta eccezione per il Vipeholm, dove i pazienti, essendo gravemente disabili, richiedevano assistenza nel mangiare.
E' probabile che l'alto tasso di mortalità a Vipeholm tra il 1941 e il 1943 fosse il risultato della carenza di personale e di un'assistenza insufficiente ai pazienti che necessitavano di maggiore aiuto, con conseguente denutrizione e morte. 
In generale, i pazienti istituzionalizzati per lunghi periodi mostrano un alto tasso di mortalità, 
attribuibile alle condizioni di affollamento e alla facile diffusione dell'infezione; durante gli anni della guerra, quando il cibo era di per sè scarso, i tassi di mortalità non poterono che aumentare ulteriormente.




Articoli consultati
  • Fonte 1
  • *Fonte 2:  Engwall, K., 2005. Affamato di morte? Nutrizione nei manicomi durante le guerre mondiali. Scandinavian Journal of Disability Research , 7 (1), pagg. 2-22. DOI: http://doi.org/10.1080/15017410510032172
  • Fonte 3: Seeman, Mary. (2006). Starvation in psychiatric institutions in Sweden. International Journal of Mental Health. 35. 81-87. 10.2753/IMH0020-7411350409. 
  • Fonte 4

lunedì 21 ottobre 2019

Dietro le pagine di "The Chain" di Adrian McKinty



Non troppi giorni fa ho letto e pubblicato il mio modesto parere su un thriller verso il quale nutrivo più di un'aspettativa... ma che purtroppo mi aveva in (larga) parte deluso.

Parlo di THE CHAIN di Adrian McKinty    >>>>>  RECENSIONE


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da cosa ha tratto ispirazione l'Autore
per scrivere il libro?


Vi riassumo la trama: una donna single, mamma della 13enne Kylie, un giorno riceve una terribile telefonata anonima, che le comunica che sua figlia è stata rapita, che entrambe sono ormai entrate a far parte della cosiddetta "catena", una sorta di gruppo criminale segreto che rapisce minori e costringe i genitori della vittima a rapire a sua volta un ragazzino, mettendo in condizione la successiva famiglia a fare lo stesso..., se vogliono veder vivo il proprio figliolo.
Una catena di crimini, insomma, che non va spezzata, pena la morte di chiunque trasgredisca le regole.

Il tema del rapimento è super sfruttato all'interno di film e serie TV, ma l'idea di fondo di McKinty ha dalla sua un buon punto di partenza (che ahimè poi si va a perdere), che è quella di costringere il genitore della vittima (una persona comune ed onesta) a commettere a sua volta un rapimento per poter riavere il proprio bambino.
Qual è stata l'ispirazione per questa idea?

L'autore ha dichiarato che lo spunto ha preso avvio da tre elementi distinti.
Il primo affonda le proprie radici ai tempi della scuola elementare. Una delle prime cose studiate nella prima settimana di scuola è stata la mitologia greca, nella quale c'è il mito di Demetra e Persefone. Demetra va letteralmente all'Inferno per salvare sua figlia dagli inferi; questa storia lo colpì molto ed è rimasta nella sua mente per quarant'anni per poi finalmente emergere e accendere una lampadina.

Il secondo elemento è stato il soggiorno a Città del Messico
Stava lavorando a questo libro che sembrava non andare da nessuna parte.
Una sera, mentre era solo a leggere un giornale, gli occhi sono finiti su un articolo che raccontava proprio questo schema di rapimento in uso in Messico, in base al quale rapirebbero un membro di una famiglia e, mentre questa si sbatte per trovare i soldi del riscatto, deve anche scegliere chi dare come scambio ai rapitori per ottenere la liberazione del rapito, che è più vulnerabile.
Ha pensato: "È davvero intrigante, questa idea di rapimento e scambio". Lo ha davvero incuriosito in quanto bizzarra: una persona viene scambiata con un'altra!

Il terzo elemento ha a che fare con l'Irlanda (McKinty è di Belfast) e il mondo delle superstizioni; negli anni '70 i bambini, nel periodo di Halloween, si mandavano lettere piene di maledizioni e disegni di esagoni e altre diavolerie simili, e se chi li riceveva non ne faceva delle copie inviandole a sua volta ad altri ragazzi, i genitori sarebbero stati uccisi. 
Accadde poi che la sua insegnante di quarta elementare, la signora Carlyle, scoprisse tutto su queste catena di lettere che si inviavano i ragazzini e la trovo terrificante, tanto da chiedere ai ragazzi di portargliele: fece un grande falò fuori dalla classe per "spezzare" la catena di maledizioni e sfortune. 
Tutto ciò impressionò Adrian, che anno dopo si informò della signora Carlyle e seppe che.. no..., le maledizioni non avevano avuto alcun effetto su di lei, non le era accaduto nulla di brutto e, anzi, era viva ed in buona salute all'età di ottantotto anni!

Gli scambi di rapimenti, queste lettere a catena, una donna che spezza la catena: elementi che gli frullavano in testa, e poi l'idea di una madre che va letteralmente all'inferno per salvare sua figlia. 

E così quella notte a Città del Messico, si è seduto e ha iniziato a scrivere un racconto basato su questi punti: scrisse circa cinque pagine, per poi lasciarlo in un cassetto per circa cinque o sei anni. Fino al giorno in cui gli fu proposto di scrivere una "storia americana", lui disse di sì... ed è venuto fuori, "The Chain", tutto in una volta.



Fonti consultate per l'articolo:

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