Dal giorno in cui Sam Frith se n’è andato, sepolto da una valanga nel giacimento di piombo in cui lavorava, è trascorso un inverno intero.
In primavera, Gorge Viccars è venuto a bussare alla porta del cottage in cerca d’un alloggio e Anna, vedova a diciotto anni con due bambini, ha pensato bene che l’avesse mandato Dio.
Viccars è un sarto girovago, conosce Londra e York, l’intensa vita portuale di Plymouth e il traffico di pellegrini di Canterbury. Ha visto mercanti di seta che hanno attraversato l’Oriente e fatto amicizia con produttori di merletti persino tra gli Olandesi; ha visto marinai di Barberia che si avvolgono il volto color rame in turbanti di intenso color indaco, e mercanti che hanno mogli tutte velate.
Ed è straordinariamente gentile: ieri le ha fatto dono di un meraviglioso vestito di lana fine verde dorato, con l’orlo e i polsi ornati di pizzo genovese.
Perché però ora l’accoglie con strani gemiti e non con la sua solita, contagiosa allegria?
Anna entra nella stanzetta dal soffitto basso e per poco la brocca non le cade di mano.
Il volto giovane e bello della sera precedente è scomparso. Gorge Viccars giace con la testa spinta di lato da un bubbone grande quanto un maialino appena nato, un rigonfiamento di carne lucida e pulsante.
Così, nelle pagine di questo romanzo, la peste giunge a Eyam, in una mattina del 1666. Inaspettata e innocente eroina, Anna deve affrontare la morte nella sua famiglia, la disintegrazione della sua comunità (non appena la peste penetra nelle loro case, gli abitanti di Eyam smarriscono la loro fede e si abbandonano a ottusità e superstizione) e il pericolo di un amore illecito.
L’Annus Horribilis della peste, però, è destinato a trasformarsi in un Annus Mirabilis, un anno di meraviglie…
Romanzo indimenticabile che svela «la meraviglia del coraggio umano» (Library Journal), Annus Mirabilis è anche un’avvincente storia d’amore in cui dolore e gioia, perdita e resurrezione si alternano mirabilmente.
“Annus mirabilis” è un romanzo a sfondo storico che
trae ispirazione da un fatto realmente accaduto ed è l’autrice stessa a darcene
spiegazione a fine libro.
Le vicende narrate sono ambientate a Eyam, una
cittadina inglese (nel Derbyshire) che la storia ha ribattezzato come IL VILLAGGIO DELLA PESTE, in quanto
negli anni 1665-1666 i suoi abitanti furono afflitti da un’epidemia terribile
di peste, che decimò la popolazione, la quale – coraggiosamente – decise di
restare entro i confini del villaggio per evitare che il morbo potesse
diffondersi nei paesini vicini.
A dar voce alla storia, nella finzione narrativa, è una contadina, la
domestica del rettore del villaggio, l'integerrimo Michael Mompellion, sposato con la raffinata e buona Elinor:
Anna Frith, giovane vedova con due figli.
Anna ci appare subito come una donna matura ed
intelligente, assennata, osservatrice; il romanzo inizia presentandoci la situazione finale, per farci
fare poi un salto temporale ai mesi precedenti (il passato, il racconto della
diffusione della peste bubbonica nel villaggio) per poi, a fine romanzo,
riprendere la narrazione dal punto in cui l’avevamo lasciato all’inizio (il
presente).
Anna è una giovane vissuta in una famiglia in cui
la violenza era il modo principale usato dal padre, l’ubriacone Josiah, per
“comunicare” con la povera moglie e con la figlia Anna, che da piccola fa
esperienza dell’animo selvaggio di cui è capace l’essere umano.
Il matrimonio precoce la salva da una vita di
cattiverie ma dura troppo poco: Sam Frith, che fa il minatore, muore sul
lavoro; proprio lui che doveva proteggerla, amarla, come del resto ha fatto nel
poco tempo in cui hanno vissuto insieme, un tempo che ha dato modo ad Anna di
avere due bimbi, da lei amati teneramente.
Sola e senza la speranza di poter avere un altro
uomo da amare, il destino manda in casa di Anna il giovane sarto George
Viccars; proprio quando questi inizia a mostrare un certo serio interesse per
la donna – oltre ad aver portato equilibrio e serenità ai bambini – la morte giunge crudelmente a strappare dal mondo Viccars e la causa della morte appare
immediatamente in tutta la sua chiarezza terrificante e porta il nome di: PESTE.
Da qui ha inizio l’inferno nel villaggio di Eyam,
che verrà letteralmente devastato da questa epidemia che attacca giovani e
bambini spietatamente, rivelandosi inspiegabilmente più benevola con gli
anziani.
L’autrice ci lascia entrare nel vivo della quotidianità del
villaggio, e attraverso il punto di vista di una donna instancabile e forte come
Anna, riusciremo a vedere tutti i livelli di devastazione che la pesta porta con
sé: a livello fisico, psicologico, emotivo, economico, sociale, religioso.
Mi prendo la licenza di definire quest’opera un
romanzo “sensoriale” e mi spiego: attraverso Anna, il lettore può davvero
“sentire” tutto questo con i cinque sensi!
Di fronte ad una narrazione tanto vivida e cruda,
non ho potuto non “sentire” insieme ad Anna i tanti odori da lei descritti: da
quello delle mele marce a quello profumato delle spezie ed erbe da lei raccolte
per curare i malati; dalla puzza fetida dei corpi martoriati dalla malattia a
quello dolcissimo e tenero della pelle di un bambino.
Ho udito insieme ad Anna le urla di dolore, rabbia,
rancore… di coloro che vedevano i propri cari deperire tra atroci sofferenze;
le grida feroci e crudeli di quanti facevano ricadere su alcune persone (donne, in particolare), accusate di stregonerie e di aver rapporti con satana, la loro
furia animalesca, che si concretizzava in atti assurdi di omicidio brutali…
Ho udito anche le parole dolci, consolanti, vere
ed oneste di persone pure, come Elinor, che sapevano portare conforto e carezze;
ho sentito i sermoni del rettore Michael Mompellion, gridati con forza e
vigore, per scuotere le coscienze e per aiutarle a reagire con dignità e fede
in Dio alla piaga della peste…
Ho visto le piaghe fisiche causate dal morbo, i
suoi bubboni, ma anche le piaghe e le ferite provocate dagli esseri umani ai
propri simili: violenze e percosse alle proprie deboli moglie, ai figli, al
prossimo ritenuto un peccatore incallito – responsabile di tutta la sofferenza
del villaggio -; ho visto il sangue, gli sguardi folli di chi perde la ragione
a causa del dolore insopportabile, le lacrime di rassegnazione…
Ho sentito il sapore di brodo e quel po’ di carne
arrostita sul fuoco, quali alimenti principali per sfamare la povera gente.
Ho sentito sotto le mani la ruvidezza di stracci
logori utilizzati alla meglio per coprire il corpo nudo e malato, il freddo
lasciato da corpi senza vita…
Insomma, ho letto questo libro “con tutta me
stessa” e mi ha dato spesso molte emozioni, soprattutto in alcune scene molto
forti.
Come anticipavo sopra, la peste – quale flagello
crudele che colpisce buoni e cattivi – viene affrontato in modo diverso dalle
persone coinvolte; c’è chi, per fede, decide di credere che essa non sia
necessariamente una punizione divina, ma una prova che va presa con coraggio e
preghiera; c’è chi ne attribuisce la causa a satana, alla superstizione, e cerca
dei capri espiatori; e sappiamo come in genere, nella storia, a pagare in
questo senso siano quasi sempre state le donne, in particolare quelle che si
dimostravano esperte nella conoscenza delle proprietà curative delle erbe e
delle spezie.
C’è chi si ostina a credere che la peste sia un
flagello dell’ira di Dio, da espiare con penitenze, digiuni e privazioni,
all’estremo della ragione e della forza fisica.
Quanti diversi tipi di reazioni genera nell’uomo la
sofferenza troppo grande, alla quale non si riesce a dare una spiegazione
ragionevole!
Quante storture essa può ingenerare nella natura umana,
tirando fuori in qualcuno il peggio in altri il meglio di sé?
La serie di personaggi che si incontra leggendo
“Annus mirabilis” è davvero vasta e variegata e c’è posto per tutti i tipi di
personalità, dalla mamma tenera e amorevole a quella folle, dal marito/padre
sensibile a quello rude e selvaggio, dal ricco arrogante al povero umile e
fragile, dal vicino che accorre in tuo aiuto a quello che ti prende a sassate
per tenerti più lontano possibile…
Certo è che, a prescindere dalla cultura o dal ceto economico, il dolore e la morte non fanno sconti a nessuno.
Anna si ritroverà bene o male sempre al centro
delle vicende narrate, in quanto non solo molto vicina alla famiglia del
rettore – chiamato in causa per il proprio ruolo di guida, non solo spirituale
– ma anche in virtù del proprio carattere generoso, altruista, volto a ad
aiutare chi soffre, a salvarlo dalla disperazione; del resto, lei stessa non
resterà immune al passaggio “dell’Angelo della Morte”, che le causerà dolori e
perdite.
In Anna ho apprezzato molto la capacità di
perdonare, di mettere da parte l’orgoglio pur di agire per il bene; forse non
riuscirà ad essere perfetta in misericordia verso il padre, uomo iniquo che il
villaggio punirà severamente, ma certo cercherà di recuperare molto verso
Aphra, la moglie di lui, soprattutto per amore della figlioletta Faith…
Ma non tutte le persone possono essere recuperate e
non tutte le vite salvate…; e a pagarne il prezzo sono spesso coloro che hanno
cercato di aiutare e alleviare le sofferenze altrui.
Anche in un contesto di morte c’è spazio per
l’amicizia e l’amore genuini, e Anna ci dimostra cosa significa la vera e
genuina amicizia (come quella tra lei e Elinor Mompellion), l’amore
disinteressato per gli indifesi, da proteggere a tutti i costi.
Ed è proprio in un contesto e in un tempo di morte
e follia, che Anna troverà il coraggio di prendere in mano il proprio futuro e, attraverso una piccola vita miracolosamente sbocciata grazie a lei, di rinascere, in un altro luogo, in mezzo ad altra
gente.
“Annus mirabilis” mi è piaciuto davvero molto
perché anzitutto si basa su fatti reali, e poi per la vividezza, se vogliamo la
crudezza, con la quale vengono descritti persone e fatti, che costringono il
lettore a calarsi nella realtà e nelle vicende narrate, tramite le quali
entriamo nella mente e nel cuore dei personaggi, conoscendone i pensieri più
segreti, le paure e le speranze, la fede cieca come la paura più nera che si
prova quando ogni certezza crolla irrimediabilmente.