METZ YEGHERN ("il grande male") è l'espressione con cui gli armeni chiamano il genocidio del proprio popolo perpetrato dai turchi, compiutosi tra il 1915 e il 1916, quindi, in pieno primo conflitto mondiale nell’area dell’ex Impero ottomano, in Turchia.
È stato il primo genocidio del XX secolo ma è, forse e purtroppo, uno dei più dimenticati.
Era il 1908 quando i Giovani Turchi (partito politico, attivo in Turchia prima del 1870, volto ad attuare nel paese vaste riforme e a contrastare il predominio delle potenze europee nella vita politico-economica turca, fonte: Treccani) presero il potere, mettendo in atto l’eliminazione dell’etnia armena (presente in quella zona dal 7° secolo a.C.) attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir.
L’obiettivo era riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa;
poiché
la comunità armena di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di uguaglianza, costituiva un ostacolo al progetto di omogeneizzazione del regime, essa
andava cancellata come soggetto storico, culturale e politico.
La notte del 24 aprile 1915, i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati.
Si procedette poi al disarmo e al massacro dei militari armeni, costretti ai lavori forzati; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sui civili: gli uomini spesso furono fucilati immediatamente, oppure con le donne stuprate in massa.
Ad essa seguirono le terribili marce della morte verso il deserto; gli armeni furono derubati di tutti i loro averi, la quasi totalità di essi perse la vita.
Tanti di quelli che giunsero nel deserto, morirono e furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero.
Diversi bimbi furono risparmiati ma, divenuti proprietà dei Turchi, furono costretti a dimenticare le proprie origini, a "convertirsi all’islam e ad essere trattati come degli schiavi.
Le giovani donne armene furono tatuate o marchiate nel viso e nelle mani e inviate negli harem.
In totale, si stima che furono sterminate circa 1.500.000 persone.
Purtroppo ancora oggi il governo e la maggior parte degli storici turchi negano che nel 1915 sia stato commesso un vero e proprio genocidio ai danni del popolo armeno. Nelle scuole elementari turche circolano libretti nei quali gli armeni vengono definiti come mangiatori di bambini; ma soprattutto, attraverso l'art. 301 del codice penale turco (“Attentato alla turchicità dello stato”), le autorità turche in passato hanno perseguito penalmente tutti coloro (giornalisti, scrittori, editori, professori) che hanno osato fare riferimento al genocidio armeno.
Nel 2008 l’articolo 301 del Codice Penale Turco è stato riformato anche in conformità a un’espressa richiesta dell’Unione Europea, per cui se col vecchio testo era punibile chi offendeva genericamente l' “identità turca”, attualmente sono punibili solo coloro che offendono lo Stato turco e gli organi costituzionali.
“Il negazionismo è l’ultimo atto di un genocidio, che lo trasforma in un crimine perfetto” (Elie Wiesel).
Il pianto di Dio
Quando nello spazio non si era ritirato
ancora il Nulla di questo Universo,
io credo che Dio cercasse qualcosa,
come rimedio alla ferita della noia.
In un istante girò intorno allo spazio,
e non trovò nulla tranne se stesso:
volle un’Essenza della sua Essenza: –
e la sua Essenza fu la sua eco.
Poi ritornando, triste e addolorato,
dal sordo Silenzio e dal cieco Nulla,
anche da loro volle qualcosa, ed essi
diedero se stessi, cioè non diedero nulla.
Quando Egli trovò l’Immensità così vuota,
provò un profondo, crudele dolore:
e sul Silenzio e sul Nulla
pianse dal cuore la sua disperazione.
Cadendo, le sue lacrime lo esaudirono,
formando ogni stella nel cielo: –
e come al Poeta anche a Dio,
per creare, fu necessario piangere.
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Il carro dei cadaveri
Verso sera per le strade deserte
passa un carro cigolando.
Un cavallo sauro lo tira, dietro
cammina un soldato ubriaco.
E’ la bara dei massacrati, che va
al cimitero degli Armeni.
Il sole al tramonto distende
sul carro una sindone d’oro.
Il cavallo è magro: trascina a stento
il raccolto dei suoi padroni crudeli.
Con le orecchie pendenti, sembra
riflettere intensamente a quanti
secoli servono per arrivare all’ultimo
fienile dei santi mietuti…
E sui muri intorno la sua coda pendente
spruzza sempre, sempre sangue.
E ancora sangue continua a sgorgare
dai cerchi delle ruote,
come se il carro trasportasse rose, come se fosse
dell’aurora il carro di fuoco.
Sono uno sull’altro i cadaveri, il figlio
nei riccioli della madre avvolto.
Uno ha ficcato l’intero pugno
nella calda ferita aperta dell’altro.
E un vecchio con la mandibola in frantumi
fissa gli occhi nel cielo,
dove una maledizione e una preghiera
si mescolano alla nera vendetta.
L’intestino uscito fuori di un altro
penzola giù dal carro:
un cane da dietro l’afferra
e si dedica a divorarlo.
Non hanno più forma né testa: portano
ferite di mille armi.
Il loro corpo è già fratello alla terra:
ecco, vanno al cimitero.
Su di loro nessuno viene a piangere
o a dare l’estremo saluto:
nel silenzio della città solo l’odore del sangue
va attorno con lo zefiro.
Ma nel buio di finestra in finestra
ecco, candele si accendono:
sono le nonne che pregano di nascosto
sulla bara rossa.
E allora su un balcone
esce bella una vergine,
e piangendo lancia un pugno di rose
sul carro che passa.
(Daniel Varujan, vittima del massacro)
Siti consultati:
http://www.comunitaarmena.it/
https://it.gariwo.net/
https://www.lottavo.it/