lunedì 24 luglio 2017

Frammenti da... sovrana lettrice



Piccoli ma significativi passaggi tratti da "La sovrana lettrice":

" Stava anche scoprendo che un libro tira l’altro; ovunque si voltava si aprivano nuove porte e le giornate erano sempre troppo corte per leggere quanto avrebbe voluto."


"«Passare il tempo?» esclamò la regina. «I libri non sono un passatempo. Parlano di altre vite. Di altri mondi."


"Leggere le dava una sensazione simile: la gioia dell’anonimato; della condivisione; della normalità. Lei, che aveva vissuto una vita diversa dalle altre, scopriva di avere un estremo bisogno di tutto questo. Fra le pagine e dentro le copertine poteva passare inosservata."

"Un libro è un ordigno per infiammare l’immaginazione".

" Ma per lei non c’era niente di più serio e nutriva per la lettura gli stessi sentimenti che certi hanno per la scrittura: era impossibile rinunciarvi e per lei, in quella fase della sua vita, era come una missione. È vero che all’inizio leggeva con trepidazione e un certo nervosismo. Si perdeva di fronte all’infinita quantità dei libri e non appunti erano venuti dopo; leggeva sempre con una matita a portata di mano, non per riassumere quello che leggeva ma solo per trascrivere i passaggi che l’avevano colpita. Fu solo dopo un anno di letture e di appunti che Sua Maestà si azzardò ad annotare un pensiero tutto suo. «La letteratura» scrisse «mi appare come un vasto paese dai confini remoti, verso i quali mi sono diretta ma che non mi sarà mai dato raggiungere. E ho cominciato troppo tardi. Non potrò mai recuperare»."

domenica 23 luglio 2017

Recensione: LA SOVRANA LETTRICE di Alan Bennett



Un libro molto breve ma delizioso per la sottile e piacevole ironia che lo attraversa e con la quale l'Autore ci offre il ritratto di una regina Elisabetta in veste di "lettrice accanita", che in età avanzata trova nella letteratura una valida "compagna di viaggio".


LA SOVRANA LETTRICE
di Alan Bennett


The Uncommon reader 
Ed. Adelphi
95 pp
2007
Quasi per caso e sulla soglia della veneranda età degli 80 anni, la regina d'Inghilterra, Elisabetta II, fa una scoperta che le cambierà (in meglio!) l'esistenza: i libri, la letteratura.
Cosa c'è di singolare e inopportuno nell'avere la passione per la lettura? Nulla!
Ma se a scoprire d'improvviso quest'hobby e a volerlo coltivare come, dove e quando vuole è niente meno che la sovrana inglese... e beh, forse qualcosa di strano potrebbe esserci.
E sì, perchè una regina non può dedicarsi anima e corpo ad un'attività che, per quanto apparentemente innocua, non è però in sintonia col suo ruolo istituzionale.
Un sovrano ha ben altre (ed alte) incombenze di cui impicciarsi, altro che ficcare (letteralmente) il naso tra le pagine di un volume preso dalla biblioteca degli Windsor e "perdere" il proprio tempo a leggere, leggere e ancora leggere...
Ma leggere cosa e chi, poi?
Tutti i funzionari vicini alla casa reale, tra cui il primo ministro, sono esterrefatti: la regina ha preso questo viziaccio - al quale ha contribuito un ragazzotto poco colto e bruttino, impegnato in cucina, che a sua volta ha la passione per la lettura - di punto in bianco e adesso non pensa che ai libri che sta leggendo o a quelli che ha intenzione di leggere, col risultato che ovunque va, tiene sempre un libro in borsetta, per emergenza, nel caso ci fossero dei "tempi morti" durante le uscite ufficiali, che lei puntualmente riempie a suon di pagine scritte.
E come se ciò non fosse sufficiente, s'è messa in testa pure di condividere le sue letture con chi la circonda, arrivando a chiedere a chicchessia se ama leggere, cosa legge di solito e se ha mai letto quel tale libro e quel tale autore...

Insomma, una follia! Una cosa oltremodo imbarazzante!!
L'austera sovrana, nota per essere un tipo discreto e riservato, poco propensa alle chiacchiere, dal volto tendente più al serioso che al gioioso, si è scoperta lettrice compulsiva dall'oggi al domani, e non ha alcuna intenzione di tener nascosta questa sua bizzarra passione che pian piano sembra alienarla dalla realtà di corte, renderla distratta verso l'etichetta, insofferente verso gli impegni istituzionali..., tanto da mettere in allarme tutti circa la salute dell'anziana regina: ma non è che sotto sotto sta cominciando a perdere qualche venerdì? Un inizio di Alzheimer, magari?

Ma non sanno quanto si sbagliano coloro che malignamente ridacchiano e scuotono il capo davanti all'amore, scoperto troppo tardi (e per questo Elisabetta prova rimpianto), per la letteratura, che le sta aprendo la via verso la comprensione di un mondo interiore che mai fino ad ora ella aveva esplorato.
Sì perchè leggere ha tanti benefici, tra cui quello di maturare una maggiore empatia, una più spiccata sensibilità verso chi ci è intorno, verso i loro pensieri, stati d'animo; la regina scopre la bellezza di prendere appunti, di riflettere, di fare considerazioni su cose semplici ma non per questo sciocche, alle quali non aveva mai davvero pensato.
Insomma, leggere arricchisce e inevitabilmente cambia il lettore appassionato, e questa graduale metamorfosi coinvolge anche la "sovrana lettrice", che - infischiandosene della perplessità della corte, delle reazioni seccate e falsamente accondiscendenti del primo ministro e degli altri funzionari - comincia a mostrare un atteggiamento più aperto ma anche sorprendentemente ironico, critico, provocatorio.
La lettura sta offrendo alla regina l'opportunità di essere ciò che finora ha dovuto mettere da parte per adempiere rigidamente un ruolo deciso dalla storia, dalle regole della monarchia: un essere umano.

Sarà lasciata libera di coltivare questa passione senza essere ostacolata dal proprio ruolo e da ciò che gli altri si aspettano da lei?

L'epilogo stupisce il lettore per l'originalità e la simpatia, ma in realtà è tutto il libro a stupirci per lo stile e la classe con cui è scritto: in poche pagine Bennett sfodera tutto l'umorismo britannico di cui è capace, la sua sagacia, la sua verve per parlarci di un personaggio non inventato - e non uno qualunque! -, unendo l'elemento reale con quello verosimile e/ fittizio per mostrarci come i libri siano strumenti potenti, al pari di "un ordigno" capace di "infiammare l’immaginazione”.
E' una lettura che sembra una pièce teatrale, piacevolissima, che strappa sorrisi e dà un pizzico di buon umore; non solo, ma mi ha fatto sentire - almeno su carta e "per gioco" - vicina alla regina lettrice, perchè anche lei (tra le altre cose) va a sbattere contro l'indifferenza e la perplessità di chi proprio si ostina a non voler capire perchè un lettore ami i libri tanto da tenerne uno sempre a portata di mano per non rischiare di restarne senza in determinati momenti della giornata.
Elisabetta, una di noi!, viene da pensare leggendo questo scritto di Bennett, consigliato e ideale come lettura estiva perchè, pur essendo non impegnativa e veloce, è tutt'altro che banale, anzi offre diversi spunti di riflessione.



sabato 22 luglio 2017

Frammenti di letture




"Com'era in realtà Auschwitz?
Che domanda. Come si faceva a rispondere? Fango. Melma. Non un filo d'erba. Terra senza alberi. Un'infinità di baracche. Corpi emaciati. Denti sporgenti. Occhi infossati. Latrati di cani. Mengele. Sorveglianti ucraine. Impiccagioni. Appello all'alba. Noma".


"...Miriam non era lì, le erano spuntate le ali sulla schiena, era diventata un uccello, un uccellino azzurro che poteva levarsi in alto e lo fece subito, e quando fu al di sopra del campo vide che sarebbe venuta fuori una giornata bellissima, e laggiù in lontananza stava arrivando un altro uccellino ed era Didi. Era diventato un uccello anche lui! Che fortuna! Avrebbero potuto volare insieme... Volare lontano. In un bosco da qualche parte".


"...questi sono i presupposti della vita. Siamo destinati a perdere tutto, anche le persone che hanno più importanza per noi. E per questo non tenta più di trattenere il pianto...".

- tratto da IO NON MI CHIAMO MIRIAM, di M. Axelsson - 




"Le idee arrivano e basta. Certe volte se ne vanno e certe altre attecchiscono. Come le piante. E come le piante crescono e crescono. Hanno vita propria".


"Ricordare fa male?
Da morire, - risposi (...) E' come un animale feroce che se ne sta nascosto dentro di me (...). E morde. Sempre. Forse un giorno riuscirò a mettergli guinzaglio e museruola. Ammaestrarlo. Tornare ad avere solo giorni buoni.".

- tratto da LA SOSTANZA DEL MALE di L.D'Andrea - 

venerdì 21 luglio 2017

Premio Liebster Award (2017)



Cari lettori, ho ricevuto la nomina per il premio Liebster Award, e questo non può che farmi tanto piacere.
Ringrazio la cara Ariel (L'angolo di Ariel) per il tag e per ora mi accingo a rispondere alle 11 domande, cui seguiranno le mie 11 per le blogger che taggherò.


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Queste sono invece le undici domande di Ariel:


1) Di quale libro vorresti essere la protagonista?

Forse di un romanzo di Jane Austen, per baloccarmi tra pomeriggi placidi a bere tè e a chiacchierare di tutto e un po'...!


2) Quali sono i tuoi film preferiti?

Come genere, sicuramente quelli drammatici e realistici.

3) Quale corrente pittorica ti piace di più?

L'impressionismo, per l'uso dei colori, il senso di calma che mi trasmettono i quadri di questa corrente. In particolare amo Claude Monet!!


4) Sei mai andata a teatro?

Sì, certo, però meno di quanto avrei voluto! In genere ci sono andata per vedere spettacoli prettamente musicali, però mi piacerebbe vedere anche opere teatrali, ma non ho nessuno che mi accompagni >_<

5) Capelli lunghi o corti?

Ehm... di media lunghezza; troppo lunghi mi starebbero male e cortissimi non mi piacciono perchè li ho mossi e sembrerei una pazza!! :-D

6) Mare o montagna?
Mah... entrambi in momenti diversi; un po' di mare ci sta bene perchè mi piace prendere un po' di abbronzatura, però quando fa troppo caldo mi piace cercare anche la frescura dei paesini di montagna!


7) Qual è il tuo cibo preferito?

Eeeh! I dolci... La "fregatura" (scusate il termine) è che mi piace sia farne che.. provarli, ovviamente ^_^


8) Fai qualche collezione?

Hum... no, però c'è stato un periodo in cui conservavo i bigliettini poetici dei Baci Perugina e le schede telefoniche.


9) Hai il pollice verde?

Questa è proprio facile: assolutissimamente NO.
Sotto le mie mani muore tutto, secca tutto, si prosciuga tutto, ingiallisce tutto.


10) Giochi a carte?

Non tanto e non so fare molti giochi. Diciamo pure che non li amo particolarmente...


11) Qual è la tua serie tv preferita?

Anche questa è facile: GOMORRA forever *_*


Ed ora ecco le mie domandine:


  1. Un libro dell'infanzia al quale sei particolarmente affezionata.
  2. Ti piaceva guardare cartoni animati da bambina? Quale era il tuo preferito?
  3. Pensa a un personaggio letterario che ami particolarmente: chi è e a quale fiore lo paragoneresti?
  4. Se fossi uno scrittore (magari lo sei ^_-), in quale epoca storica e luogo ambienteresti il tuo primo libro?
  5. C'è un genere letterario che proprio non riesci a leggere?
  6. Ti piace vedere film tratti dai libri o ti astieni perchè temi di restare delusa da trasposizioni troppo discordanti "dalla carta"?
  7. Cioccolato: fondente - al latte o bianco?
  8. Ti piace cucinare? Se sì, quale tipo di pietanze?
  9. Un aspetto caratteriale che di te vorresti cambiare/eliminare in toto.
  10. Il libro più bello del mese di giugno?
  11. Quali sono gli hobbies ai quali dedichi più tempo?

Ed ecco i blog che ho pensato di taggare:


http://lestoriedierielle.blogspot.com/

http://sognintrisinellinchiostro.blogspot.it/

http://andibelieveinabookagain.blogspot.it/

http://gattaracinefila.blogspot.com/

http://vivereromance.blogspot.it/

http://sofasophiablog.blogspot.it/

http://chiarabooklover.blogspot.it/

http://helenarrazioni.blogspot.it/

http://ilgiardinosegretodigretel.blogspot.it/

http://ilprofumodelleparole.blogspot.it/

http://www.scrittiapenna.it/

giovedì 20 luglio 2017

Recensione: LA SOSTANZA DEL MALE di Luca D'Andrea



Un triplice, feroce delitto che da trent'anni cerca un colpevole; una piccola comunità isolata e chiusa in se stessa, ostile ai forestieri (soprattutto se impiccioni e curiosi); uno scenario di montagna in cui si respira un'atmosfera tanto antica quanto angosciante; incubi e ossessioni che travolgono la vita di un uomo e di coloro che gli sono accanto; un susseguirsi di colpi di scena che rendono questo romanzo un  thriller sorprendente.


LA SOSTANZA DEL MALE
di Luca D'Andrea



Ed. Einaudi
451
18.50 euro
Jeremiah Salinger è un giovane autore televisivo di New York che, insieme alla moglie Annelise e alla figlioletta Clara (una bimbetta di 5 anni assai vispa e precoce), si è trasferito per un periodo a Siebenhoch, il piccolo centro del Sud Tirolo dove la moglie è cresciuta.

Affascinato dalla montagna e dalla gente che vi abita, Salinger comincia a realizzare un factual - a metà tra un film e un documentario - sul soccorso alpino, ma nel corso di un’emergenza - alla quale lui partecipa per fare delle riprese - accade qualcosa di inaspettato e terribile: un pauroso incidente, provocato da una valanga, coinvolge Salinger e tutta la squadra di soccorso, tanto che dalla tragedia ne uscirà vivo soltanto lui.

L’esperienza vissuta è talmente angosciante e forte che diventa un incubo quotidiano per Salinger, che è ossessionato dalle sensazioni di terrore provate quando s’è trovato in mezzo ai ghiacciai, solo, in compagnia soltanto della parte più oscura e pericolosa della montagna.

Mentre cerca in ogni modo di dimenticare la sua esperienza traumatica, viene a sapere per caso di un cruento fatto di sangue risalente a molti anni prima: il massacro di tre giovani, avvenuto durante un'escursione nella gola del Bletterbach, il 28 aprile 1985.

Per questo triplice assassinio nessuno ha mai pagato, il colpevole non è mai stato trovato e in paese nessuno vuole parlarne.
Come mai? Forse perché il solo pensarci crea dolore, brutti ricordi, tanto più in quanti hanno conosciuto le vittime e le loro famiglie personalmente? O forse - come man mano, ascoltando più versioni e più racconti da diverse voci, sta cominciando a sospettare Salinger - sono in troppi ad avere qualcosa da nascondere?

La voglia di sapere e poter raccontare una storia misteriosa come questa solletica l’intelligenza e la curiosità di Salinger, che dopo il trauma subito e l'inattività cui è stato “costretto”, tanto dai dottori quanto dalla premurosa moglie, è desideroso di tornare a far lavorare il cervello in qualcosa di stimolante. E il tremendo massacro di cui la gigantesca gola di Bletterbach è stata testimone sembra davvero circondato da fitti misteri, segreti, verità nascoste che nessuno sembra intenzionato a rivelargli.

Ma Jeremiah è un testardo e, nonostante l'ostilità crescente incontrata presso i montanari di questa piccola e isolata comunità, e l'opposizione di Annelise (che vorrebbe accanto un marito più coscienzioso, un padre che metta l’amore per la famiglia prima di tutto, lavoro compreso), Salinger si mette a scavare nel passato, penetrando sempre piú a fondo nella vicenda.

Quello che non avrebbe mai immaginato è che dietro l’assassinio dei tre giovani - la bella Evi, il suo compagno Kurt e il fratello minore di lei, Markus - si celano imprevedibili e terrificanti verità, che qualcuno ha sapientemente depistato e insabbiato.

Il triplice omicidio è circondato da aspetti sinistri, come sinistro è il luogo in cui si è verificato: un posto che trasuda di antico, di storia, in cui sono presenti fossili di milioni di anni fa; il Bletterbach

“..non è una semplice gola (…) è un film, un documentario a cielo aperto che ha il suo inizio duecentottanta milioni di anni fa (…)”.

È come se in quel luogo si fosse risvegliato qualcosa di spaventoso che si credeva scomparso, antico come la Terra stessa, e per questa ragione esso fa paura, incute spavento con i suoi sentieri vecchi e pericolosi, le sue grotte buie che sembrano condurti verso l’inferno; lì possono avvenire temporali tremendi, valanghe di fango e melma ai quali è difficile sfuggire. È un posto in cui si respira una sensazione inspiegabile di puro terrore, come se la natura, la montagna con i suoi ghiacciai, diventasse un essere sovrannaturale capace di farti volontariamente del male, anche se in realtà - come viene detto a Salinger -:

“La montagna se ne frega di te. Non è né buona né cattiva. È oltre queste stupide considerazioni da mortali. Lei è lì da milioni di anni e ci resterà per chissà quanto altro tempo. Per lei, tu non sei niente.”.

A fornire al curioso Salinger le prime informazioni è il suocero, Werner, uno dei primi a fondare il servizio di Soccorso Alpino in quella zona; un anziano uomo di montagna, nato e cresciuto in quella terra, abituato alla durezza e alla praticità della vita da montanaro e da appassionato di escursioni; un uomo che ha visto di tutto e di più, e che racconta al genero quella che è stata l’esperienza più brutta della sua vita, vissuta non da solo ma in compagnia dei suoi amici di sempre: Max - che attualmente è la guardia forestale, colui che detiene l’ordine nella tranquilla e chiusa Siebenhoch -, e gli ormai defunti Gunther e Hannes, padre, quest'ultimo, del povero Kurt, barbaramente massacrato in quell’aprile dell’85 insieme ad altre due persone.

Cosa videro realmente quel giorno? È possibile ancora andare indietro nel tempo e ricostruire i fatti, così da dare un volto e un nome al feroce assassino?
Le persone che Salinger interpella e dalle quale esige la verità, sanno più di quello che son disposti a raccontare? Nascondono qualcosa, e se sì… perché?

Il pensiero di sbrogliare la matassa occupa la mente di Salinger e l’ossessione per il Bletterbach divora giorno per giorno, travolgendolo come un torrente in piena che, togliendogli ogni forza per respingere la corrente, lo porta dove vuole.
Portare avanti le proprie personali indagini è difficile per Salinger, almeno per un paio di importanti motivi: anzitutto i montanari lo considerano un mezzo forestiero, un impiccione che vuol solo far soldi su quella lontana disgrazia.
E inoltre, essendo morbosamente concentrato sul caso, l’uomo finisce per trascurare Anneliese e la piccola Clara, deteriorando il rapporto con la prima e rischiando di non proteggere adeguatamente, come un padre dovrebbe fare, la seconda.


Considerazioni.

L’autore, con una padronanza e uno stile magistrali, ha scritto un thriller che non è solo incentrato su un misterioso ed inquietante assassinio irrisolto, ma ancor di più su ciò che accade ad un uomo quando si fa travolgere dalla propria ossessione, fino ad arrivare al punto di mettere in pericolo il proprio equilibrio emotivo e la propria famiglia, pur di non tirarsi indietro dal proprio intento (risolvere il mistero).

Il ritmo è assolutamente incalzante, la scrittura accurata, trascinante; nessuna descrizione - della natura circostante, delle persone, dei fatti - è lasciata al caso; la suspense attraversa sapientemente tutta la narrazione per crescere soprattutto in certi momenti, quando vengono svelate importanti verità; ma attenzione, fino alla fine il lettore - come il protagonista - non deve abbassare la guardia perché i colpi di scena non sono solo in itinere ma fino alla fine non si è certi di nulla perchè nuove scoperte arrivano a dare ulteriori scosse e tensione alle vicende.

Si mette molto in risalto l’aspetto psicologico del protagonista, nonchè voce narrante, e il lettore viene messo faccia a faccia con i suoi incubi, con le sue paranoie, col pensiero fisso di trovare il colpevole, cosa che cozza però contro la sincera voglia di non portare anche i propri cari nel suo personale abisso di paure e fissazioni.

Un thriller mozzafiato, che si lascia divorare fino all’ultima pagina; uno stile ineccepibile; le sequenze narrative hanno un taglio cinematografico che incalzano il lettore, lo coinvolgono, creando attese e incertezze; lo scenario della montagna (così imponente, imprevedibile e anche pericolosa), unito al fascino oscuro di leggende e credenze legate a un passato che si perde nel tempo, costituiscono un elemento accattivante, come lo è la voglia di portare alla luce terribili verità in un contesto caratterizzato invece da una mentalità chiusa, propria di questa piccola località di montagna, i cui abitanti desiderano solo vivere tranquilli.

Non posso che consigliarlo, è davvero un gran bel libro, credo proprio vi catturerà, e 450 pagine neanche le sentirete ;-)


martedì 18 luglio 2017

Ebook gratis: “I’M RUNNING” di Gianfranco Virardi - solo oggi 18 luglio



Cari lettori, in questa giornata, 18 luglio, avrete la possibilità di scaricare e leggere GRATIS un ebook.
Si tratta del saggio “I’M RUNNING” di Gianfranco Virardi, scaricabile Gratis  in versione ebook dal sito di Amazon al seguente link:

https://www.amazon.it/RUNNING-superarsi-sviluppare-creativit%C3%A0-automotivazione-ebook/dp/B07335LG3M/ref=sr_1_4?ie=UTF8&qid=1499961387&sr=84&keywords=virardi+gianfranco


Questo libro non è stato scritto da un runner. O meglio, l'autore non ha ancora vinto nessun trofeo e non ha partecipato a
nessuna gara ufficiale. Chi lo ha scritto, corre per superarsi. Chi sta pensando di aver sbagliato libro, perché i propri lettori, cercavano un manuale di running si sbaglia. 
Questo è il testo giusto, in cui si
impareranno molte più cose di un manuale tecnico sulla corsa.
Imparerete a superare voi stessi e vincere qualsiasi sfida. 

L'autore è Gianfranco Virardi, autore di saggi di successo su Tecniche di Vendita,
Marketing e Comunicazione editi, tra gli altri, da Buffetti, Lupetti e il Sole 24Ore. Probabilmente vi state domandando se questo è un libro motivazionale oppure un libro per imparare a fare running.
Nel libro "I’M RUNNING" troverete una guida chiara per iniziare a correre e
allenarvi a far andare la mente più veloce delle vostre gambe.
Imparerete come migliorare il vostro pensiero proiettandolo sempre più
avanti. Scoprirete nella corsa un metodo per trovare soluzioni, idee creative, energia per affrontare i problemi e superarli.

lunedì 17 luglio 2017

Recensione: IO NON MI CHIAMO MIRIAM di Majgull Axelsson



La tragedia dell’Olocausto vissuta da una rom che si è ritrovata a mentire sulla propria identità, fingendosi ebrea, e ha costruito man mano un castello di bugie che le hanno permesso di sopravvivere in una realtà purtroppo caratterizzata da razzismo etnico e culturale..



IO NON MI CHIAMO MIRIAM
di Majgull Axelsson


JAG HETER INTE MIRIAM
Ed. Iperborea
SETTEMBRE 2016
PP. 576
TRAD. LAURA CANGEMI
€ 19,50
È il giorno del suo 85° compleanno e Miriam riceve in regalo dalla sua famiglia - composta dal figlio Thomas, dalla moglie Katarina e dalla loro figlia Camilla, a sua volta madre del piccolo Sixten - un bracciale con su scritto il proprio nome; ma alla vista di quell’oggetto, l’anziana donna svedese pronuncia una frase sibillina, una verità taciuta e celata per 68 anni nel suo cuore: “Io non mi chiamo Miriam”.
I famigliari non fanno caso a questa frase - o non vogliono perché questo significherebbe conoscere cose finora tenute nascoste? -, tranne la giovane Camilla, che alla prima occasione propone alla nonna una passeggiata nel parco di Nassjo e comincia a farle delle domande su quel passato oscuro che l’ha sempre avvolta e di cui sanno essenzialmente solo che è di origine ebraica.

Ed è così che Miriam è “costretta” ad aprire ad uno ad uno i cassetti della propria lunga memoria e a tirar fuori quello che vi è dentro.
In realtà il suo nome non è Miriam, ma Malika; e lei non è ebrea… ma una rom. Una zingara.

Negli anni del secondo conflitto mondiale, Malika è solo una bambina che viveva in Germania con suo padre (la mamma è morta quando lei era ancora piccolina), il fratellino Didi e la cuginetta Anuscha quando la polizia arriva a strapparla da casa sua per portare i tre bambini in un convento cattolico, dove essi restarono per un paio di anni. Al convento purtroppo seguì la deportazione ad Auschwitz a causa del loro “sangue misto”, in quanto anche se il loro padre è tedesco, la mamma era rom, e quindi andavano rinchiusi nei campi di concentramento preparati dai nazisti. Dopo un periodo ad Auschwitz, Malika viene trasferita, in condizioni inumane dentro vagoni sovraffollati, al campo di Ravensbruck; durante il tragitto accade qualche baruffa tra le prigioniere, alla ragazza si strappa la divisa e, per evitare punizioni e botte, prima di scendere dal treno, riesce a rubarne una appartenuta ad una ragazza morta durante il viaggio: scopre così di aver preso la divisa, e con essa l’identità e il numero (fortunatamente le ultime cifre delle due serie di numeri corrispondono), di un’ebrea: Miriam Goldberg. Per sopravvivere, quindi, Malika decide che da quel momento non ci sarà più posto per Malika la zingara, bensì per Miriam l’ebrea.
Del resto, si sa: gli zingari non vengono trattati bene da nessuno, anzi sono sempre stati oggetto di disprezzo da parte di tutti, ritenuti ladri, sporchi, senza fissa dimora; non che gli ebrei se la passino meglio, ma sempre meno peggio dei rom!

Ed è così che Malika si impossessa della vita di questa sconosciuta, Miriam, e continuerà a dire di essere ebrea anche dopo, quando sopravvivrà al lager e troverà rifugio in Svezia…

La passeggiata con Camilla, la pratica e insoddisfatta Camilla - studentessa di Medicina che ancora non riesce a completare gli studi, sempre in conflitto con l’acida e infelice madre Katarina -, diventa l’occasione propizia per l’ormai stanca ma lucida Miriam per raccontare chi lei davvero sia.

Ricordare è difficile, provoca l’apertura di ferite profonde mai rimarginate; a dirla tutta, Miriam vorrebbe non dover guardare indietro, perché sa che questo significa rivivere dolori e sofferenze atroci; e poi “Dimentica e vai avanti” è stato, da settant’anni a questa parte, il suo mantra, necessario per sopravvivere, per non soccombere sotto il peso dei ricordi e delle bugie raccontate per troppo tempo.

Certo, Miriam lo sa: quelle bugie erano necessarie! Cosa le sarebbe accaduto se avesse detto di essere rom? Sarebbe sopravvissuta comunque ad Auschwitz e poi a Ravensbruck?

E una volta trovato aiuto e riparo nella evoluta e bella Svezia, sarebbe stata accolta comunque se avesse detto la verità, cioè di essere una zingara? Evidentemente no, visto che anche in questo Paese era diffuso un atteggiamento di profondo disprezzo e discriminazione verso i tattare, cioè gli zingari, e Miriam - dopo aver vissuto l’inferno del campo di concentramento - non aveva alcuna intenzione di essere perseguitata anche fuori.

Lo scotto di una vita costruita sull’identità di un’altra persona è stato il sentirsi sempre e comunque “..un’estranea, un’esclusa, una che in realtà non c’entrava”, eppure “Silenzio, bugie e servigi possono certo essere un tormento, ma un tormento sopportabile, infinitamente più sopportabile di certe verità”.

Seguiamo le vicende drammatiche della protagonista passando dal presente al passato, conoscendo tutto ciò che ha patito nei lager, le condizioni in cui erano costretti a vivere i deportati, la miseria, la fame allucinante, i litigi per accaparrarsi un tozzo di pane con la segatura o una coperta lurida e sottile, per trovare posti meno in vista durante l’appello, i piccoli ma vitali accorgimenti per evitare di essere presa a manganellate da kapò e nazisti malvagi e privi di pietà.
Conosciamo anche le amicizie nate tra Miriam ed altre prigioniere, e come questo sia stato fondamentale per la sua sopravvivenza.

Anche se questo ha significato tradire il suo popolo, il suo povero e sfortunato fratellino, il suo caro papà, la sua lingua, le sue tradizioni. L’amore per loro resta immutato nel suo cuore, ma è bene tenerlo lì, al sicuro, come un segreto geloso da custodire perché, se scoperto, la sua vita potrebbe cambiare di nuovo e in peggio, e Miriam ha diritto ad avere una vita serena: una vita normale, in cui è circondata da gente che non la scaccia via, che non la guarda con disgusto e superiorità; una vita in cui ha una casa sua, in cui non deve mendicare per avere il pane, la coperta, un vestito…

“Fred. Pace, pensò Miriam. Fremid. Futuro. Due parole. Non aveva altro. Niente marito e niente figli, niente genitori e niente fratelli. Nemmeno un’amica. Ma cosa significavano in realtà quelle parole? In concreto? Cosa comportava vivere in pace? E avere un futuro?”.

Pensare solo al futuro, insomma, una volta fuori dal lager e giunta in Svezia:

…non pensare mai più a Ravensbruck e Auschwitz. Cercare di dimenticare. Rimuovere e seppellire quello che nonostante tutto si ricordava. Negare a se stesse il diritto alla propria storia”.

In “Io non mi chiamo Miriam” il lettore scende nell’abisso terrificante costituito dal campo di concentramento, in cui la vita e la dignità umane sono state calpestate in modo vergognoso; in cui l’uomo ha raggiunto una delle vetta più alte della propria meschinità e malvagità.

La descrizione meticolosa e precisa delle giornate nei lager è qualcosa che turba sempre, che non lascia indifferenti; ma in questo romanzo non c’è solo questo (non che sia poco), perché si guarda alle persecuzioni razziali ad opera del nazismo aprendo un velo sul destino del popolo rom, di cui si è parlato (e si parla) troppo poco; ci ricorda come in quegli anni, anche una nazione progredita come la Svezia ha avuto i suoi lati oscuri e ha fatto la sua parte (in negativo) nei confronti dei rom, agendo verso di essi con comportamenti profondamente ingiusti. Ci ricorda di come, immediatamente dopo la liberazione dei lager e quindi la diffusione dei racconti relativi alle abominazioni perpetrate dai tedeschi, in molti faticassero a credere ai sopravvissuti o comunque preferissero non sentire troppi particolari perché era assurdo immaginare come una tale atrocità fosse potuta accadere…

Posso dire di aver letto diversi libri sulle esperienze nei campi di concentramento narrate dai sopravvissuti, ma sono racconti ai quali non mi abituerò mai; anzi, ogni volta è un pugno nello stomaco che mi stordisce, mi sconvolge, mi lascia addosso una gran tristezza e un grosso magone, insieme alle fatidiche domande, per le quali forse non ci sarà mai una vera e sufficiente risposta: PERCHE’ C’È STATO TUTTO QUESTO? PERCHE’ L’HANNO FATTO? COME HANNO POTUTO?

L’Autrice ha la grande capacità di farci entrare dentro la storia, di mostrarci in modo vivido tutto quello che gli occhi della protagonista hanno visto, tutto ciò che ha sopportato, i suoi timori, i pensieri più intimi, tutta la sua sofferenza dovuta all’esperienza vissuta, alla perdita dei propri cari, alla paura e al terrore di essere scoperta e additata come bugiarda, una “ladra d’identità”, al dolore di aver tradito ciò che lei è davvero, di aver dovuto seppellire Malika per far posto a questa Miriam, una sconosciuta che è poi diventata se stessa (e la sua salvezza!).
Non possiamo non provare profonda empatia verso Miriam perché la sua vita di menzogne è nata dal legittimo desiderio di poter vivere serenamente, di essere accettata, amata, considerata. Quale essere umano non ha diritto a questo?

Un romanzo accurato storicamente, intenso, doloroso, uno stile scorrevole ma profondo, toccante, che scava nel suo personaggio principale, attraverso i cui occhi viviamo una pagina della nostra Storia contemporanea che non va strappata ma ricordata e raccontata.



READING CHALLENGE
Obiettivo n.35 - Un libro ambientato in un paese nordico.

domenica 16 luglio 2017

Cover&Fiori



Oggi mi sento floreale, benchè non sia primavera ma estate; poi col caldo soffocante che fa i fiori "s'ammosciano" alla grandissima :-D

Quale cover preferite? ^_-

Il fascino dei papaveri..., la forza di un rosa che più rosa non si può o la delicatezza della terza cover?








sabato 15 luglio 2017

Recensione: FORE MORRA di Diego Di Dio (RC2017)



Accattivante per stile di scrittura e storia, ricco di tensione, crudo, spiazzante, e un ritmo vivace che ti prende dalla prima all'ultima pagina, immergendoti in una realtà complessa, feroce, dove, se redimersi è quasi impossibile, combattere con tutte le forze, sperando almeno di sopravvivere, diventa necessario.


FORE MORRA
di Diego Di Dio



315  pp
Fanucci Ed.
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"Siamo uguali, Buba. Siamo due universi divisi a metà. La luce e il buio trovano lo stesso spazio dentro di noi. Combattono, si odiano. Si amano".

Alisa e Buba sono due sicari professionisti che svolgono benissimo il proprio lavoro e sono per questo molto noti nell’ambiente criminale.
Li conosciamo proprio il giorno in cui vengono assoldati per un lavoretto: devono ammazzare un piccolo boss che sta dando fastidio ad un altro più potente; i due killer si preparano per la missione in modo minuzioso ma scoprono, giunti sul posto, che è una trappola…

In realtà c’è qualcuno che sta dando loro la caccia da un po’ di tempo, più precisamente da quando cinque anni prima Buba e Alisa hanno fatto fuori un commercialista, tale Vito Pastore, che lavorava per un camorrista.
Ebbene, ad aver ordito la trappola contro i due killer è il fratello di Pastore, che vuol vendicare il parente.

Buba e Alisa hanno la pelle dura, non improvvisano nulla e sono allenati come soldati ad affrontare anche gli imprevisti, così con la calma razionale e fredda che appartiene a Buba, e l’agilità di Alisa, riescono a sfuggire a chi li vuol morti.

Ma i guai non sono finiti: c’è un pesce molto più grosso che sta col fiato sul collo ai due, o meglio ad Alisa: un boss potente, di cui loro non conoscono ancora l’identità, che è intenzionato a prendere Alisa viva, perché contro di lei sta organizzando un’atroce vendetta.

Di chi si tratta e perché ce l’ha a morte con la donna?

Alisa e Buba sanno di dover stare sul chi va là e che sono davvero poche le persone di cui possono fidarsi; una sola cosa è certa per loro: la consapevolezza di poter contare l’uno sull’altro sempre, perché ad unirli c'è un legame di affetto e stima molto forte che nulla può spezzare.

Oggi entrambi sono degli assassini spietati e impassibili ma tanto diversi per carattere e storia personale; sia Buba che Alisa hanno attraversato esperienze che li hanno formati e resi ciò che sono ora, lasciando però enormi cicatrici (sul corpo e nel loro cuore).

Buba è un uomo alto e atletico, dal fisico possente, è preciso e maniacale (è anche amante della letteratura), ma soprattutto è una macchina di morte cinica ed efficiente dal passato oscuro, che neanche la sua compagna di lavoro conosce.

Quest’ultima è una ragazza che è sopravvissuta ad esperienze terribili, passando attraverso un’infanzia di povertà, soprusi, botte e maltrattamenti da parte anzitutto di un padre che non l’ha mai amata e che ha riversato sull’unica figlia rabbia e dolore.
Alisa porta lo stesso nome della mamma, morta dandola alla luce; la donna era molto amata dal marito, Carmine, che quindi addossa la colpa della morte della compagna alla bambina.

La piccola Alisa cresce circondata dall’indifferenza di un padre che dovrebbe proteggerla e prendersi cura di lei ed invece la tratta come uno straccio; Alisa non ricorda un gesto d’affetto da parte sua, una carezza, un sorriso….

Al contrario: da Carmine riceve schiaffi, calci, insulti, ghigni che non fanno presagire nulla di buono e infatti quest’uomo sarà capace di commettere atti abietti nei confronti della figlia.

Alisa cresce senza amore, all’ombra di un padre che la guarda con odio e che la fa sentire in colpa per la morte della moglie; le uniche due persone che le danno momenti di serenità sono la vicina di casa, la buona signora Romeo (che purtroppo muore quando Alisa ha tanto bisogno di lei) e il cugino Tony, che però venera Carmine e lo ama come un padre, desiderando un giorno entrare anch’egli nella vita malavitosa e fare affari insieme a lui…

Sono anni terribili quelli vissuti nella casa paterna; è un incubo essere la figlia di un uomo così, che arriva a legarti ad una sedia durante il giorno mentre lui va a “lavorare”.

Un giorno la giovanissima Alisa trova il coraggio di disobbedirgli e scappare per ore dalle grinfie di Carmine, gustando il sapore della libertà: la libertà dalla paura, dalle sensazioni costanti di terrore, dalla crudeltà imprevedibile di un padre senza amore:

“So solo che per un istante assaporai la gioia di essere una cosa sola con la libertà. La respiravo, la sentivo scorrere in me. Ma quella libertà non era solo il grido di felicità di un prigioniero evaso. Mi sentii libera non dal dolore, ma dalla paura. I tormenti fisici c’entravano poco: gli schiaffi, i pugni, i calci lasciavano lividi che sarebbero spariti col tempo. Il vero strazio era il terrore, che mi soffocava le parole in gola, che mi stringeva lo stomaco in una morsa implacabile. Era questo il tranello ultimo di Carmine: la paura dell’imprevedibilità. Qualunque cosa, anche il gesto più insignificante, poteva scatenare la sua rabbia”.

Ed infatti quest’atto di ribellione le costerà una carissima punizione, che le procurerà molto dolore e le scaverà solchi di sofferenze e traumi che la segneranno per sempre.

Eppure quella giornata in libertà porta con sé qualcosa di buono: conosce infatti un gay, che ama travestirsi da donna e andare in giro per metrò a raccogliere qualche spicciolo sciorinando buffe rime e divertenti filastrocche. Si fa chiamare Pavella e, non troppo più tardi da quel primo incontro, Alisa incrocerà di nuovo il proprio cammino con quello di lui.

La narrazione procede, di capitolo in capitolo, passando dal presente al passato, ed infatti le vicende di Alisa adulta si intervallano con quelle di lei bambina e ragazza.

La donna di oggi si guarda indietro, fa un tuffo doloroso nel passato e comprendiamo come è arrivata a conoscere Buba e quali tristi vicende ha dovuto vivere e sopportare.
I suoi ricordi sembrano foglietti sparsi senza un ordine logico nella sua mente, e alcuni di essi sono più sbiaditi di altri, ma tra questi momenti confusi che formano il suo passato c’è un dolore che è il più vivido di tutti, capace non solo di crearle lacerazioni dentro e fuori, ma anche di innescare una serie di eventi ed incontri che daranno un determinato corso alla vita di Alisa, la quale a soli sedici anni vivrà un’esperienza traumatica, di tradimento, abuso, umiliazione…

Questo viaggio tra i ricordi è necessario tanto al lettore per capire gli avvenimenti del presente, quanto alla stessa Alisa, per la medesima ragione: il potente boss che le sta dando la caccia con insistenza, ammazzando chiunque incroci sulla via che porta a lei, chi è e da quale antro oscuro del suo passato viene fuori? A chi Alisa ha fatto un torto così grave da meritare un tale accanimento?

Proprio andando a ritroso nella memoria, riesplorando le violenze subite, la solitudine provata, la paura, la consapevolezza che la morte le è sempre in qualche modo passata accanto più di una volta, la donna potrà cercare di capire chi c’è dietro la intricata macchinazione organizzata contro di lei e, di riflesso, contro il fedele compagno Buba.


Insieme, i due devono guardarsi le spalle reciprocamente, addentrarsi per le vie di una Napoli pericolosa e in quelle, ancora più minacciose, di una mente umana devastata da odio e rancore, e in grado, per questo, di provocare spirali di violenze e morti, molte delle quali innocenti.

Considerazioni.

“Fore morra” è un thriller dal ritmo incalzante, che lascia senza respiro il lettore, coinvolgendolo nelle vicende di Alisa ragazzina e poi Alisa donna, la cui esistenza è costellata da pericoli, da poche persone che le vogliono bene e desiderano aiutarla e troppe che, al contrario, le faranno del male. La parte relativa alla sua infanzia è “tremenda” dal punto di vista emotivo, perché mostra in modo concreto e senza mezze misure quanto sia difficile nascere e vivere in un contesto malavitoso, in quei quartieri dove la criminalità organizzata comanda tutto e tutti, e se non trovi la forza per andartene vieni risucchiato in meccanismi perversi e molto pericolosi.

La parte di Napoli (le vicende, per un breve tempo, si spostano a Castel Volturno) che fa da sfondo alle vicende camorristiche è ritratta con pennellate vivide e realistiche, tanto che ci sembra di essere insieme alla protagonista mentre cammina per le strade e i quartieri, caratterizzati da determinati suoni - gli schiamazzi dei bambini, le voci delle donne e degli uomini… - e odori, che sia il profumo del cibo cucinato, del sapone dei panni stesi o della puzza delle fognature. È la Napoli, quella di “Fore morra”, degli spacciatori di droga, del traffico della prostituzione, delle lotte tra piccoli o grandi mafiosi che si contendono le piazze di spaccio o il contrabbando.

Le scene descritte si susseguono come delle sequenze cinematografiche ricche di suspense, la scrittura è dettagliata e asciutta ma allo stesso tempo, non si perde in eccessive descrizioni ma tutto è funzionale alle vicende narrate, che inevitabilmente sono molto dinamiche e i personaggi che intervengono a creare movimento sono come delle schegge impazzite che colpiscono in pieno petto.

C’è però anche spazio per la caratterizzazione psicologica dei personaggi, in special modo della protagonista e del suo amico e collega, Buba; verso di loro ho provato, nel corso della lettura, sentimenti contrastanti: da una parte non posso non scuotere la testa davanti alla loro fredda spietatezza nell’ammazzare le vittime designate e, ancor più, nel torturare persone alle quali bisogna estorcere informazioni; dall’altra, però, è inevitabile desiderare di scorgere quel guizzo di umanità che evidentemente in loro è ancora presente, e che li rende ben più che delle macchine da guerra senza emozioni.

Con Alisa non riesco a non “simpatizzare” (pur disapprovandone le scelte di vita) perché, se è vero che da adulta è un’assassina, è altrettanto vero che ne ha passate di tutti i colori (non che questo sia una giustificazione a diventare un killer, ovvio) ed è cresciuta in un contesto di violenza che l’ha segnata e comunque ha contribuito a renderla quella che è; Buba è un personaggio più enigmatico, ambiguo, sembra indossare perennemente una maschera di imperturbabilità che lo protegge da qualsiasi scalfittura, ma durante il racconto comprendiamo che anche dietro il suo comportamento si nasconde un dolore che non è riuscito a superare e che lo logora dentro.

Diego Di Dio scrive davvero bene, è coinvolgente, ti fa appassionare alla storia e ai personaggi coinvolti e leggi un capitolo desiderando andare oltre, perché non riesci a staccarti dalle pagine; è un po’ come quando guardi una puntata della tua serie preferita (ehm… tipo Gomorra?) e fremi all’idea che dovrai aspettare una settimana per vedere la prossima…! Fortunatamente, per un romanzo non devi soffrire, perché ti basta semplicemente proseguire con la lettura e soddisfare ogni curiosità.

Bramosia di potere, avidità insaziabile di far soldi, di svestire i panni del “pesce piccolo” per diventare un camorrista temuto a cui tutti obbediscono senza fiatare; patti e alleanze violati senza pensarci due volte, tutti sono pronti a tradire tutti…: la realtà raccontata dall’Autore è intrisa di sangue e violenza, è una tormentata denuncia di un modo di vivere fuori dalle regole, dal quale è difficilissimo uscire. Eppure, fino alla fine, tu lettore ti ritrovi a sperare (a me quantomeno è accaduto questo) che per Alisa e Buba ci sia “un altro finale” che li riscatti da tutto il marcio che hanno respirato da quando son nati.


Non so se si capisce che lo consiglio ^_^


READING CHALLENGE
Obiettivo n.29 -
Un libro ambientato a Napoli

Frammenti di "Io non mi chiamo Miriam"



Un passaggio del libro "Io non mi chiamo Miriam", che mi ha fatto pensare ad una nota poesia...


"Al di là del filo spinato c'era qualcosa che avrebbe potuto essere un prato, se non fosse stato così intriso d'acqua, e dietro c'era un muro grigio. Sì, in effetti, sembrava quasi un vero prato con solo qualche pozza qui e là e qualche chiazza di terra nuda, ma per il resto grandi alberi con rami grigi e zolle di erba verde. E fiori. Fiorellini gialli. Una farfalla si sollevò da un fiore e si avvicinò ignara alla recinzione dietro la baracca. Miriam trattenne il fiato. Sarebbe morta? No. Non voleva davvero che la farfallina morisse. Per un paio di secondi, quando si avvicinò al filo spinato, sembrò che dovesse accadere il peggio, ma poi, a una ventina di centimetri dalla corrente, frenò e riprese a svolazzare sul verde fino ad atterrare su un fiore distante, fermandosi lì per un po'. Infine si alzò in volo e sparì al di là del muro.Era salva."



LA FARFALLA


L’ultima, proprio l’ultima,
link
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!
l’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto:
i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere di castagno
nel cortile.
Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

(Pavel Friedman, Praga 1921 – Auschwitz 1944)

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