Viola Ardone ha scritto una storia col cuore, che parla al cuore e nel cuore resta. La storia di un bambino troppo piccolo per fare scelte realmente consapevoli, ma grandicello quanto basta per seguire il desiderio (legittimo) di provare ad avere una vita migliore, lontana da quelle umilissime origini, avare di sogni e ambizioni, dalle quali però non ci si separa mai definitivamente, e anzi, alle quali sarà necessario ritornare per dare requie a tormenti e sensi di colpa.
IL TRENO DEI BAMBINI
di Viola Ardone
Ed. Einaudi 248 pp |
Amerigo Speranza ha sette anni nel 1946; vive a Napoli, in un vicolo vivace ma povero; suo padre non sa chi sia, non l’ha mai conosciuto e di lui sa solo che se n’è andato in America a far soldi e fortuna, e quando avrà ottenuto entrambi tornerà a casa; ha avuto un fratello maggiore di nome Luigi, morto prematuramente per una malattia, e adesso vive con mamma Antonietta, una donna bella, dai lunghi e folti capelli neri, che raramente sorride e regala abbracci e carezze al figlioletto.
Antonietta è una mamma giovane che tira avanti la propria piccola famiglia con dignità e sacrificio, cercando di mettere sempre un tozzo di pane in tavola, ma la guerra è appena finita, lei è sola (anche se in casa si aggira un uomo taciturno e ambiguo, Capa ‘e fierro, che sta decisamente poco simpatico ad Amerigo) e la miseria è nera, che più nera non si può.
Amerigo lo vede che sua madre è triste, un’ombra cupa costantemente accompagna il suo bel viso; cerca di starle dietro (in tutti i sensi, “Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei”), di dare un senso al suo pragmatismo, al suo essere così essenziale e spiccia nei modi e nel parlare e ci intenerisce “ascoltare” la sua voce di bambino, schietta, ingenua e inconsapevolmente e dolcemente ironica, mentre ci parla del suo piccolo grande mondo, che è il rione in cui è cresciuto.
Ci sembra di essere lì con lui, di sentire voci, suoni, rumori, di vedere le persone che lo circondano - uomini che svolgono i lavori più umili per tirare avanti, madri stanche ma determinate nel crescere masnade di figli, ragazzi e bambini cresciuti in fretta e per la strada, che si fanno ogni giorno più esperti nell’arte dell’arrangiarsi -, di toccarne gli stracci, le scarpe rotte, e sentirli, nonostante tutto, vivi.
Ma non si campa con le buone intenzioni e la vivacità: il pane ci vuole e per davvero, come ci vogliono scarpe nuove, vestiti adatti, cappotti caldi.
E il Partito Comunista si sta attivando per dare una mano alle famiglie più poverelle, che stanno facendo più difficoltà a riprendersi dopo la guerra: vengono organizzati dei treni speciali, i “treni dei bambini”, che portano i “figli del Sud” presso famiglie del Nord disposti ad ospitarli per un certo tempo: giusto quello necessario per rifocillarli, dar loro cibo, vestiario, il calore di una casa in cui non mancano i beni necessari (e anche qualcosina in più), così che poi, pasciuti e sereni, possano ritornare alle proprie case, ai propri genitori.
Mamma Antonietta è tra quei genitori che aderiscono all’iniziativa.
Proviamo ad immaginare questa giovane donna single, che ha perso un figlio piccolo - con tutto il carico di dolore che una perdita di questo genere comporta - e che adesso la povertà costringe a fare una scelta drammatica: tengo mio figlio vicino a me col rischio che muoia di fame, o me ne separo mandandolo per qualche tempo presso un’altra casa, altri “mamma e papà”? E se non mi dovesse più tornare indietro? Cosa si è disposti a fare per amore?
Antonietta - e come lei altre madri e padri - decide di accettare le esortazioni di queste donne comuniste, come Maddalena Criscuolo, che insistono sulla bontà della proposta: date un’alternativa - anche solo temporanea - alle vostre creature, dimostrate loro il vostro amore infinito!
Sì, perché mandare via un figlio in quel Settentrione che pare lontano chissà quanto e forse manco pare Italia a chi dal Meridione non s’è mai allontanato, è un atto d’amore: sofferto, certo, e lo è proprio perché “costa”, ed è un atto anche di fede, di speranza, di coraggio, perché richiede ai genitori di fidarsi di questi comunisti che dicono di volerli aiutare alleggerendoli per un po’ di bocche da sfamare.
Ed è così che gruppi di bambini vengono fatti salire su questi treni speciali, diretti verso destinazioni a loro ignote e sulle quali girano voci spaventose che terrorizzano i piccoli: ma siamo sicuri che non ci mandano in Siberia, in campi di lavoro? E davvero ci taglieranno le mani e i piedi e ci cucineranno nel forno?
Amerigo Speranza parte, dopo una foto con la mamma e scarsità di carezze e affettuosità da parte sua; parte lanciando il cappottino nuovo (la scena dei bimbi che buttano i cappotti dal finestrino per lasciarli alle loro famiglie, che ne hanno più bisogno, provoca brividi di tenerezza) appena dato ai bambini dai comunisti, e con la mela annurca che Antonietta gli ha messo in tasca.
Parte per questo viaggio della speranza assieme ad altri poverelli come lui, tra cui l’amico Tommasino e la lagnosa Mariuccia; ore di treno e finalmente si giunge a Modena e, pian piano, uno alla volta, tutti i bambini del Sud vengono scelti da qualcuno.
Ad Amerigo “càpita” Derna, una donna giovane, bella, single, comunista convinta, gentile e affettuosa quanto basta, che però, per ragioni legate al lavoro, non può occuparsi di Amerigo durante il giorno, così lo manda da sua sorella, in casa Benvenuti, dove ci sono anche tre bambini. Il capofamiglia, Alcide, è un uomo buono, caloroso, allegro, che accoglie in casa il bimbo del treno con una tale spontanea gioia da metterlo in imbarazzo e suscitando anche, inizialmente, le gelosie di uno dei figli.
Prima vi ho chiesto di mettervi nei panni di una madre che lascia andare, per amore, la propria creatura; adesso è il momento di provare a capire come si sentiva Amerigo e, in generale, i “bambini del treno”.
Tua madre ha deciso per te che un giorno avresti lasciato il vicolo, i tuoi amici, le tue strade, la tua casa disadorna ma pur sempre tua, gli affetti più cari…, per salire su un treno e andare via, in un posto che non conosci, in casa di estranei che non sai come ti accoglieranno. Amerigo si sente smarrito, confuso, abbandonato al suo destino; non sa che pensare, come comportarsi, come reagire alle gentilezze di persone che non hai mai visto prima; però, essendo sveglio, attento, intelligente e sensibile, non può non notare quanto Derna e i Benvenuti facciano di tutto per farlo sentire a casa, per fargli capire che sono felici di averlo con loro, di poterlo aiutare.
Il loro amore incondizionato gli fa piacere e, allo stesso tempo, un po’ lo confonde, e giorno dopo giorno lui sente di stare così bene là da sentirsi “spezzato in due”, diviso tra il pensiero della mamma lasciata nel vicolo, che lo aspetta (perché lei lo aspetta, vero?), e il calore di una famiglia che, oltre a cibo e vestiti, gli sta dando una nuova prospettiva di vita: a Modena, in casa Benvenuti di giorno e con Derna che gli si accoccola vicino di sera e gli legge una storia, lui sta bene. Sta scoprendo anche di avere un talento musicale che vorrebbe poter coltivare. E poi gli stanno giungendo notizie di altri bambini come lui che hanno deciso di non tornare a casa, al Sud, perché ormai la loro vita è al Nord, nella nuova famiglia.
E lui, Amerigo, giunto nel Settentrione con la speranza di un po’ di benessere e di riscatto dalla povertà - fossero anche solo transitori -, che farà? Tornerà a casa dalla silenziosa mamma Antonietta, così parca di gesti affettuosi ma che pure è stata capace di un atto d’amore estremo, anche se non del tutto comprensibile agli occhi di un bimbo di soli sette anni?
Non vi darò chiaramente tutte le risposte, anche se non posso esimermi dall’aggiungere che a un certo punto la parte relativa al 1946 si interrompe e si salta agli anni Novanta.
Il narratore è sempre il nostro Amerigo, ma è mutata inevitabilmente “la voce”: non è più il bimbetto vispo e curioso di un tempo, che ci ha intenerito, fatto sorridere e stringere il cuore: adesso è un affermato musicista che ha superato i cinquanta e che la vita costringe a tornare nel suo rione di Napoli.
Lui, andato via su un treno, da bambino, torna nei luoghi dell’infanzia ormai adulto, con le spalle non più mingherline ma “da uomo fatto e finito”; torna con un nuovo nome, un nuovo bagaglio di vita e di esperienze, che l’hanno formato e reso ciò che è: un tipo solitario, di poche parole, avvezzo a divagare di fronte a domande precise su di sé inventando frottole sul momento.
Amerigo si guarda attorno e noi lettori, attraverso la sua voce malinconica, ci lasciamo sopraffare da “un sentimento strano, una nostalgia anticipata”, condividendola con il protagonista, sentendo un magone nella gola come lo sente lui; ci sembra di provare lo stesso suo carico di rimpianti e rimorsi, di “ti voglio bene” mai detti (“Ci siamo voluti bene da lontano, penso. Chissà se lo hai pensato pure tu”), di tutte quelle cose che andavano dette al tempo giusto ma che sono state taciute, provocando dolore, strascichi di silenzi sofferti, vuoti da riempire con quello che c’era a disposizione.
Malintesi:
“La lontananza tra noi è diventata un’abitudine. Abbiamo disertato tanti appuntamenti. Dal momento in cui mi hai messo su quel treno, io e te abbiamo preso binari diversi, che non si sono più incrociati. (…) mi viene il dubbio che sia stato tutto un equivoco, tra me e te. Un amore fatto di malintesi”.
“C’è un tempo per ogni cosa”, ci ricorda l’Ecclesiaste della Bibbia, ed è così, e quando questo tempo lo perdiamo, recuperarlo davvero è impossibile; è come quando perdi il treno: non sempre l’occasione giusta ritorna.
E chi più di Amerigo s’intende di treni e di occasione colte o perdute? Lui vi salì suo malgrado e la sua vita ha preso un binario ed una direzione che, se l’avesse perso, mai si sarebbero ripresentati.
Ne è cosciente, la sua mente razionale di adulto lo sa che era solo un bambino e che non aveva colpe…; però di ciò che ha deciso da grande è responsabile, e questa consapevolezza, adesso che forse - pensa lui - è troppo tardi, lo dilania.
Ha paura, Amerigo:
“Paura dello sporco, della povertà, del bisogno; paura di essere un impostore (…). Negli anni la paura ha imparato a rattrappirsi in un angolo della mente, ma non è sparita, è rimasta in agguato (…). Tu non avevi paura di niente. Camminavi a testa alta. La paura non esiste, mi dicevi, è solo una fantasia.”.
Come il viaggio del 1946, anche questo potrebbe essere decisivo, solo che quello era un viaggio della speranza verso un futuro roseo, questo da adulto è un viaggio per ritrovare se stesso, per tornare alle proprie origini, a quel vicolo che, per certi verso, pare rimasto sempre uguale, come se il tempo burlone si fosse divertito a mettergli su un cappotto d’eternità.
Un viaggio che potrebbe aiutare quest’uomo a perdonarsi, a chiudere un cerchio lasciato aperto per quarant’anni, a riscoprire la propria famiglia e quanto bene si possa condividere con gli altri.
Perché finchè c’è vita, c’è speranza, recita un noto modo di dire.
Regàlatela, questa speranza, Amerì, concèditela. Non può che farti bene.
“Il treno dei bambini” racconta una storia di amore, di riscatto, di solidarietà - che bella l’Italia che accoglie, che apre le proprie porte, che dona, che non fa discriminazioni! Vicende come questa dei bambini dei treni, accolti in Emilia, ci rendono orgogliosi -, di rinunce e di sogni da realizzare, di bambini e di genitori che li hanno amati fino al sacrificio più grande; è la storia di un bambino che se ne va e torna uomo per rincorrere se stesso, con gli stesso dolori ai piedi di tanti anni prima, con mille domande ancora in testa. L’Autrice ha scritto un libro potente, che commuove, fa riflettere, emoziona; ha adottato magistralmente il punto di vista maschile, tanto quello del bambino - col suo linguaggio semplice, un po’ “sgrammaticato” e tanto spontaneo - quanto quello dell’uomo, la cui complessa interiorità ci viene restituita con sensibilità e delicatezza.
Chiedo scusa per la lunghezza della recensione ma ci sono storie che, se le sintetizzassi, le snaturerei; ci tenevo a trasmettervi quello che ho provato leggendolo e a consigliarvelo perché è un gran bel libro, da non perdere.
Salite con Amerigo sul suo treno e... "Benvenuti! Benvenuti alla Speranza."