MASTRO TITTA E L'ACCUSA DEL SANGUE di Nicola Verde
Fratelli Frilli editore 303 pp |
È il gennaio del 1869 e lo scrittore Ernesto Mezzabotta si reca da Giambattista Bugatti, boia di Roma ormai in pensione, perché gli racconti un'altra storia delle sue, così da poterla pubblicare in un libro.
Mastro Titta inizia a raccontare, tornando indietro nel tempo di dieci anni: è l'inverno del 1859 e quell'anno accade una faccenda che ha tutti i requisiti per mettere a rischio l'alleanza franco-piemontese con lo Stato Pontificio; un fatto che ricalca un altro accaduto solo un anno prima a Bologna, vale a dire il "caso Mortara": un bambino di nome Edgardo Mortara (appartenente ad una famiglia ebrea) venne preso in custodia dalla Chiesa di Roma, dopo aver ricevuto in segreto il battesimo, per essere educato secondo i dettami della religione cattolica.
Ebbene, adesso a Roma c'è il rischio che stia per nascere un caso simile: un neonato (Charles Reynard), figlio di un ufficiale francese ebreo, è scomparso.
Chi l'ha sottratto ai genitori?
Forse la gendarmeria pontificia, per portarlo nella "casa dei catecumeni" - come accadde al piccolo Mortara - per essere allontanato dall'infida e infedele religione ebraica ed allevato in quella di Santa Madre Chiesa?
Se così fosse, questo potrebbe creare, verosimilmente, delle tensioni con i francesi, vista la nazionalità della famiglia Reynard...
È un momento assai delicato, in cui si sta decidendo l'alleanza franco-piemontese contro l'Austria: forse una delle due potenze sta cercando un pretesto per screditare lo Stato Pontificio affinché Napoleone III possa schierarsi senza suscitare le ire e lo sdegno dei cattolici europei?
Oppure c'è un'altra spiegazione?
La mattina in cui il bimbo viene rapito, scompare anche la domestica di casa Reynard, tale Amelia Corvaro, che poco tempo prima aveva fatto battezzare il neonato; magari la giovane nutrice l'ha portato via da casa proprio per sottrarre il neonato alle "grinfie" pontificie?
Fatto sta che quel giorno, ella, nella sua fuga, indugia per qualche secondo davanti alla bottega dell'ombrellaio Mastro Titta, che nota questo particolare ma sul momento non sa spiegarselo.
Amelia cercava forse qualcuno che abitualmente frequenta la bottega del boia? Se sì, chi e perché?
Ma soprattutto, dove progettava di andare con quel bimbo in fasce stretto al seno?
L'ombrellaio vuol vederci chiaro e comincia a parlarne con i suoi due amici, il poeta-tornitore Giuseppe Marocco d'Imola e Amilcare Laudadio, giovane ispettore di polizia di Borgo; quest'ultimo rivela da subito un atteggiamento strano (è sfuggente, imbarazzato, nervoso...) nei confronti della questione e, in special modo, verso la giovane domestica. Come mai? C'è stato qualche tipo di legame tra loro?
Le tante perplessità si scontrano bruscamente con la triste realtà che di lì a breve apprenderanno: il bambino e la balia vengono trovati cadaveri presso il fiume Tevere.
Chi ha potuto commettere questo duplice omicidio, lasciando i poveri corpi in balia dello scempio operato da animali selvatici?
I tre amici sono turbati e non sanno cosa pensare: a chi appartiene la mano assassina?
Adesso che il piccolo Reynard è stato trovato ucciso, cosa accadrà con i francesi?
Come se queste due morti non bastassero, altri omicidi si verificano nei giorni a seguire e il mistero si infittisce.
Chi poteva avere interesse ad ammazzare la bella Amelia? Certo, parliamo di una ragazza avvenente e "libertina" nello stile di vita, con più di un uomo a girarle intorno e, si sa, un innamorato geloso e svelto con il coltello può diventare una mina vagante e lasciarsi accecare dalla rabbia fino a commettere azioni orribili.
Ma ad inasprire gli animi c'è un'altra ipotesi, la più brutta di tutte perché in grado di innescare meccanismi perversi, da cui far scaturire ondate di odio verso una categoria specifica di persone: la credenza nella leggenda denominata "l'accusa del sangue", una maligna diceria riguardante gli ebrei.
Questa leggenda ha origini nell'età medievale; la nostra storia è ambientata in anni in cui in Italia era in corso il processo che avrebbe condotto all’unità nazionale, ma poiché, purtroppo, i pregiudizi sono duri a morire, in quel periodo c'erano ancora uomini e donne di religione ebraica accusati di rapire cristiani (donne, bambini...) per ricavarne il sangue, da mescolare con gli azzimi in occasione della Pasqua o da usare in altre occasioni per scopi rituali.
E cosa può accadere quando queste dicerie, passando di bocca in bocca, assumono "magicamente" e con una velocità sorprendente una parvenza di verità? Nulla di buono, ovviamente, tanto più se a fomentarle ci pensano gli esponenti del clero, dall'alto del loro pulpito autorevole: l'ebreo è un deicida, un rinnegato che non riconosce Gesù e che chissà quali indicibili usanze ha per scimmiottare la vera fede, quella cristiana.
In questo clima di odio, di cieco furore assassino, Mastro Titta e i suoi due amici continuano a cercare le risposte ad un mistero che si ingarbuglia sempre di più, che vede coinvolte persone diversissime tra loro: cardinali, preti, mendicanti, ubriaconi, carabinieri in borghese, prostitute...
E tra gli errori di ingenuità del buon Giuseppe e le intuizioni e i tormenti del giovane Amilcare - emotivamente coinvolto da questo caso, a motivo di Amelia -, il taciturno e riflessivo Giambattista Bugatti riuscirà a dipanare la matassa e a dare un nome e un volto al misterioso e scaltro assassino, che "fortunatamente", come in ogni buon giallo che si rispetti, commette qualche errore...
Questo romanzo di Nicola Verde unisce, con sapienza e maestria, finzione e realtà, l'avvincente elemento giallo/noir con un contesto storico splendidamente caratterizzato; leggerlo è stato davvero un piacere perché è scritto magnificamente, molto accurato nelle descrizioni del periodo e della città in cui la storia è collocata.
La narrazione procede con un buon ritmo e, di capitolo in capitolo, si arricchisce di sviluppi ed intrecci sempre più interessanti; durante la lettura, si ha l'impressione di attraversare strade e vicoli di questa Roma ottocentesca di cui non ci fermiamo ad ammirare "la maestà der Colosseo (...) la santità der cupolone", bensì ci lasciamo sedurre, rapire e, in un certo senso, inquietare dal fascino fosco e oscuro di una città tanto grande quanto sfaccettata, di cui vediamo e sentiamo lo sporco, i cattivi odori, gli schiamazzi, la bruttezza miserabile dei mendicanti e degli ubriaconi, la simpatica sfacciataggine dei giovanissimi strilloni, la patetica lascivia delle "donne curiali", l'odio e il disprezzo tra ebrei e cristiani (sob!) e il persistere di mitologie antisemite, gli "intrighi di palazzo" dove politici e religiosi stringono accordi ostentando un'ossequiosa gentilezza che maschera invece ipocrisia e interessi egoistici.
È all'interno di questa cornice, sordida e fascinosa insieme, che si staglia la figura affascinante del boia dello Stato Pontificio, dell'ombrellaio Mastro Titta, un personaggio storico sulla cui vita personale non si hanno molte informazioni, ma che qui, grazie alla fantasia dell'Autore, ci viene presentato in tutta la sua umanità, con i suoi silenzi e le poche ma sagge parole, con il suo pesante fardello di ricordi, le "giustizie" eseguite, i tanti rimpianti, la sprezzante diffidenza e il timore che leggeva negli occhi di quanti lo incrociavano, gli amori non vissuti e la solitudine di un uomo che ha sacrificato la propria esistenza (è stato boia per ben 68 anni!) sull'altare di una carriera di carnefice che ha esercitato con serietà e scrupolosità e non senza una certa pietà per gli scellerati che finivano sotto le sue mani.