martedì 3 luglio 2018

Recensione: IL MORBO DI HAGGARD di Patrick McGrath



Solitudine, amore ossessivo e morboso, sofferenze fisiche, insonnia: questo circonda la grama vita di un medico solitario, la cui mente è proiettata in un passato che non si ripresenterà mai più, il cui cuore è ingabbiato in sentimenti che non gli recano alcuna gioia ma solo tormento, e il cui corpo è sfiancato da dolori atroci, in virtù dei quali, paradossalmente, egli si sente ancora vivo.


IL MORBO DI HAGGARD
di Patrick McGrath



Adelphi Ed.
208 pp
1999
Siamo nella Londra del 1940, dunque in pieno conflitto mondiale e nel cielo d'Europa gli Spitfire e si incrociano con i Messerschmitt di Göring.

Edward Haggard è un giovane dottore; solo un paio di anni prima è stato una promessa della chirurgia e non era affatto irrealistico pensare che avrebbe fatto carriera in questo ambito.
Ma la vita (o sono stati i suoi sentimenti, il suo amore ossessivo?) si è fatta beffe e di lui e attualmente non presta più servizio al St. Basil - ospedale londinese dove ha esercitato la professione fino a non molto tempo prima -, bensì ha acquistato una maestosa villa (Elgin) in un paesino sperduto e solitario, Griffin Head, svolgendovi la professione di medico di famiglia, essendo subentrato al vecchio dottore, ormai in pensione.

Elgin è una vecchia dimora in stile edoardiano affacciata su una scogliera in riva al mare e l'uomo vi abita dal 1938.

Trasferirsi a Elgin ha rappresentato una sorta di "esilio" cui Edward è stato in un certo senso costretto da una serie di drammatiche circostanze vissute mesi prima. A fargli compagnia, oltre alla presenza di una domestica, la signora Gregor, c'è Spike.
Chi è Spike?
Non è un cane, un pappagallo o un altro dei classici animali domestici: è un pezzo di ferro che gli è stato impiantato nell'anca dopo che se l'è rotta; questa giuntura artificiale gli dà dolori e fitte lancinanti, che lo tormentano, gli impediscono di dormire, di stare per troppo tempo in una stessa posizione, insomma è la sua personale "spina nel fianco". Eppure, Edward si rivolge a Spike e parla di esso come se fosse una persona, una sorta di coinquilino (e in fondo lo è, ad esser pignoli) con cui lui è tenuto ad andar d'accordo; per tenerlo buono, il claudicante dottore si spara iniezioni di morfina, che gli placano i dolori donandogli qualche ora di "placida euforia".
Cosa è successo all'anca di Edward?
L'episodio che l'ha reso zoppo e dolorante a vita lo scopriremo nel corso della lettura.

Ma andiamo per ordine, quell'ordine che poco appartiene al nostro Haggard e al suo modo di raccontare i fatti.
Perchè è lui in persona a narrarci ogni cosa; ma il vero destinatario della sua intima e accorata "confessione" non è tanto il lettore, quanto un altro uomo: James Vaughan.

James è un giovane aviatore della RAF* che un giorno, all'improvviso, gli si presenta in casa con una frase sconcertante: «Penso che lei abbia conosciuto mia madre».

Bastano queste poche parole per sconvolgere il presente di un uomo che, nella desolazione della propria volontaria solitudine e nell'abitudinarietà di un'esistenza priva di qualsivoglia stimoli, aveva già deciso come la propria esistenza dovesse essere una sorta di culto feticistico in onore dell'unica donna da lui amata e perduta per sempre: Fanny Vaughan, la mamma di James.

Era il 1937 quando, partecipando ad un funerale, gli occhi tranquilli dell'anonimo e poco attraente aspirante chirurgo Edward Haggard incrociano quelli magnetici della bella ed elegante Fanny; i due si ritroveranno poco tempo dopo ad una cena e di lì a breve inizieranno una relazione amorosa clandestina.

Fanny, infatti, è sposata; suo marito è Ratcliff Vaughan, l'anziano anatomopatologo di St. Basil, e la coppia ha un figlio che è ancora un ragazzo (James, appunto), ma ciò non impedisce a lei e Haggard di lasciarsi andare alla passione e di cercare, ogni volta che possono, dei momenti di intimità solo per loro.

Haggard, in particolare, si innamora follemente di questa donna eterea, dalla pelle diafana come quella di una dea, col corpo sinuoso, gli occhi enigmatici, la risata cristallina, la voce suadente, e di lei il giovane dottore dice:

"...tua madre mi prese il cuore, lo conquistò senza neppure dar battaglia."

La passione amorosa per l'amante invade la mente e il cuore di Haggard, obnubilandone addirittura i sensi, rendendolo distratto sul lavoro, cosa che un chirurgo - che ha tra le mani la vita di esseri umani - proprio non può permettersi.

Come andrà a finire la storia d'amore tra i due? E se il marito scoprisse questa tresca..., come reagirebbe e cosa farebbe l'adultera?

Una cosa è chiara dalle prime pagine, o comunque da quando James piomba in casa di Haggard, mostrando interesse per la "conoscenza" che il dottore aveva della madre: Fanny è deceduta ed infatti il suo "fantasma" ossessiona ancora Edward, come lo ossessionava il pensiero di lei anche quand'era viva...

Del resto, la stessa villa, Elgin, egli l'ha trasformata in una sorta di tempio in memoria della sua dea...:

"Spesso il suo spirito sembrava padrone della casa più ancora di me, quasi l'avessi stregata con il suo ricordo. E in qualche modo era così... un museo della nostalgia, ecco cosa avevo fatto di Elgin".

La casa è infestata del ricordo di Fanny, l'amore per lei non ha mai cessato di accendere il cuore e i sensi di Edward, che vive in funzione di ciò che è stato e che, in fin dei conti, ha anche distrutto la sua vita..., rendendolo un relitto, uno zoppo infelice e solo, il cui unico svago è fare passeggiate faticose e non prive di pericolo per raggiungere la scogliera e ammirare il mare nero e in tempesta, che si infrange selvaggiamente contro gli scogli.

L'animo straziato e disperato di Haggard si sposa perfettamente con l'ambiente attorno a sè, che siano le scene di una natura selvaggia e indomabile, feroce e oscura - che sono specchio delle tempeste che si agitano in lui - o la stessa villa Elgin, isolata, abbandonata eppure monumentale, con un che di romantico, ma un romantico non poetico, bensì struggente, inquieto.

Come reagisce Haggard in presenza del figlio del suo grande amore, venuto in casa sua per sapere qualcosa in più sulla mamma morta?

Haggard, superato lo sconcerto iniziale, si lascia prendere da una specie di gioiosa frenesia, e comincia ad aspettare le visite di James - che mostra sempre un atteggiamento distaccato, senza dare confidenza - come un innamorato brama ardentemente che arrivi l'ora dell'appuntamento con l'amata.

C'è qualcosa di stranamente morboso in Edward verso il giovane ospite: forse in lui, nei suoi lineamenti delicati e in certi modi di fare, rivede la madre, e l'amore feroce e assillante nutrito per lei si riaffaccia prepotente spingendolo in modo irresistibile e inquietante verso il ragazzo...?

Come dicevo, il racconto è in prima persona ed è una sorta di lungo monologo che il protagonista e voce narrante rivolge a James; non c'è un vero e proprio presente che si intervalla ai flashback, perchè è tutto nel passato e solo giunti alla fine capiamo qual è la situazione presente.
All'inizio questa "confessione" intima ci appare delicata e per lo stesso Edward è facile provare sentimenti di pietà e simpatia, ma man mano che proseguiamo nella lettura ci rendiamo conto di come invece essa assuma contorni asfissianti, claustrofobici. Malati. 

Edward è un uomo che vive e si nutre di fantasmi frutto di un amore che si è trasformato in una fissazione morbosa, che non si è acquietata con la morte dell'oggetto del desiderio, anzi: essa è lasciata in vita ed è alimentata dallo stesso Haggard, che pensa, invoca, si strugge per la sua Fanny giorno e notte, incessantemente, la sente ovunque, dentro e fuori di sè e forse in questo strazio egli si crogiola, vive di esso.

"Decisi che non avrei permesso al ricordo di atrofizzarsi, di appassire e morire. Lo avrei mantenuto vivo, lo avrei nutrito, ne avrei fatto un oggetto di venerazione e avrei costruito nel mio cuore un altare sul quale offrire, ogni sera, i miei atti di devozione. Vedi, mi ero reso conto di essere una di quelle rare persone che, avendo amato, arrivano a considerare l'amore l'attività spirituale più alta cui un essere umano possa dedicarsi. L'amore, per me, non è effimero, non è un'emozione passeggera, uno stato transitorio, un tuffo o un volo nella follia o nell'estasi: io lo considero, piuttosto, una condizione sublime, o addirittura sacra, una condizione in cui vengono esercitate tutte le migliori e più elevate facoltà umane."

Il cuore del romanzo è incentrato su questo salto all'indietro, e si va dai fatti accaduti tre anni prima, in cui apprendiamo com'è nata la relazione con la donna e come essa si è interrotta, a quelli più recenti delle visite di James, passando per la personale tragedia che ha reso Edward un anonimo medico di un paesino sconosciuto, nonchè uno zoppo il cui fisico e il cui spirito sembrano invecchiati irrimediabilmente.

E' verso la fine che comprendiamo qualcosa in più su James e sull'interesse di Haggard nei suoi confronti, dal punto di vista medico, ma che in realtà si rivestono di qualcosa di anomalo...

Un romanzo attraversato dall'inizio alla fine da atmosfere angoscianti, dal racconto di un amore che non ha fatto bene a chi lo coltiva dentro sè, anzi: l'amore come forza distruttiva, come la ricerca spasmodica e folle di tenere in vita ciò che invece il fato ha voluto toglierci; un fuoco che consuma e che travolge la ragione, diventando una malattia dello spirito, forse peggiore di quella fisica.
Haggard è un uomo che non ha nulla di attraente, ed è lui stesso a descriversi oggettivamente come un tipo dal fisico sproporzionato; certo, è un'anima sensibile, ed è questo ad attirare una donna aggraziata e di classe come Fanny; non è un granchè come medico e qualche guaio lo combina. Insomma, lui e l'eroe romantico e tormentato sono lontanissimi, agli antipodi.

La villa solitaria, grande, deserta, posta presso il mare, è una location che mi affascina; la scelta di dare alla narrazione dei fatti un taglio introspettivo, intimo, vòlto a raccontare fatti del passato mi piace; Haggard è un narratore dettagliato, non si lascia sfuggire l'analisi precisa (chirurgica!) dei moti della propria anima, come anche degli odori, dei rumori, di tutto ciò che caratterizza la vita in ospedale, visto dalla parte dei dottori, molti dei quali operano con cinismo, freddezza, guardando al corpo umano come un oggetto di studio e basta.

E' stata una lettura che, onestamente, mi ha dato sensazioni contrastanti, perchè se è vero che riconosco in McGrath il suo essere un ottimo narratore, che sa scavare nei recessi più profondi e contorti dell'animo umano, è altrettanto vero che si viaggia sul filo della follia, del disturbo, dell'ossessione perchè il suo Haggard è davvero contorto, il che mi ha reso perplessa durante la lettura e non mi ha fatto simpatizzare per questo dottorino, che alla fine non ci sta tanto con la testa.

Ma la cosa più inquietante è che il lettore diventa inevitabile spettatore di un racconto connotato da una serie di elementi torbidi, che esercitano come un richiamo, una fascinazione inspiegabile su di lui non dissimile da quel potere attrattivo che spinge Haggard verso "il povero James".
Per farla breve, ho provato un'ambivalenza verso questo libro: mi ha sì intrigato, l'ho letto fluentemente e con curiosità, perchè mi interessava arrivare alla fine, ma allo stesso tempo mi ha provocato sensazioni non sempre positive, come una specie di "odi et amo", di attrazione-repulsione.

Penso di leggere prossimamente "Follia" di questo autore, libro di cui ho sentito parlar bene.


*sigla di Royal Air Force (Regia Forza dell'Aria), denominazione della aviazione militare britannica.

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz

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