lunedì 30 agosto 2021

Recensione: HARVEY di Emma Cline

 

Come trascorre le sue probabili ultime 24 ore da libero cittadino un uomo che sta lì lì per ricevere la condanna o l'assoluzione per i crimini sessuali di cui è accusato?
L'Autrice di questo breve romanzo prova ad immaginarlo e a raccontarcelo attraverso il suo protagonista, che almeno per un giorno ci appare un uomo un po' meno cinico, più impaurito e anche un po' patetico.


HARVEY
di Emma Cline



Ed. Einaudi
trad. G. Granato
104 pp
"Non vedeva l'ora che fosse il futuro. Era da tanto che non aspettava qualcosa con ansia, che non desiderava ardentemente l'arrivo dell'indomani."


Sono le quattro del mattino quando Harvey (Weinstein) si sveglia e si appresta a vivere quella che sarà una giornata particolare, diversa da tutte le altre.
Lo separano, infatti, soltanto ventiquattro ore dal verdetto che potrebbe dichiararlo colpevole o innocente dei crimini di cui è accusato.

In attesa che la sua vita cambi (o anche no) drasticamente e che tutto il mondo sappia chi è davvero Harvey, l'uomo inizia la propria giornata in una casa in Connecticut che non è neanche sua, circondato dalle costanti cure del solerte Gabe e comunicando via telefono con i propri avvocati.

Harvey si rende conto di essere sostanzialmente solo: solo con se stesso, i propri dubbi, le paure e le mille incertezze su ciò che sarà di lui dall'indomani in poi.


"Harvey era da solo al buio. (...) chi era rimasto a dispiacersi per lui? Era spaventato. Non ricordava una paura così, una specie di paralisi che prendeva il sopravvento, immobilizzandolo..."


Inevitabilmente ripensa al proprio comportamento in merito a ciò che gli viene imputato, e per quanto gli riguarda non c'è donna, che lui abbia gustato come un gusto di gelato, che non fosse consenziente o che non avesse ceduto, dopo qualche resistenza, ma sempre volontariamente.

Quale corte in America lo condannerebbe mai??

Ma l'attesa è snervante anche per un potente come lui; è nervoso (in primis con i legali, dai quali desidererebbe rassicurazioni convincenti che invece non arrivano), insofferente verso chiunque gli graviti intorno (compreso il medico belloccio ed asessuato e che si occupa di un suo molesto problema di salute); quando riceve la visita di una delle figlie e della nipotina, è scostante e indifferente, quasi desiderando che lo lascino in pace, salvo poi guardarle malinconico da una finestra quando esse se ne vanno davvero.

L'unica novità della giornata a ringalluzzirlo è il vicino di casa: appena lo nota si accorge subito che è nientemeno che lui..., il grande scrittore Don DeLillo, autore di Rumore bianco.
Nulla succede per caso, Harvey se ne convince: in tutto quel mare di amarezza, magari un motivo per sperare in qualcosa di buono c'è ancora! Ed infatti, la convinzione che il vicino di casa sia lo scrittore lo anima e gli fa pensare ad un prossimo progetto cinematografico da poter realizzare: portare sul grande schermo proprio Rumore bianco. Che grande idea, eh?
Tanto ci sarà tempo, mica andrà davvero in prigione.

La fiducia che nulla di brutto si profili all'orizzonte per uno come lui, la sicumera e l'arroganza che gli appartengono, col passare delle ore si vanno un po' affievolendo, per far spazio a timori, domande, fragilità e così, l'ultima immagine che abbiamo di Harvey è quella di un uomo insicuro, patetico, che sta per affrontare una notte insonne in vista di un domani che minaccia tempesta.

La Cline ci ha lasciato entrare in una giornata (e non una a caso!) vissuta da un uomo - di cui non c'è bisogno di precisare il cognome - accusato di molestie e stupri a danno di molte donne; uno la cui faccia è stata sbattuta su tutti i giornali ed in seguito a questo scandalo in tanti gli hanno voltato le spalle.
Leggo queste pagine e non riesco a non pensare ad Harvey come a un predatore sessuale, né credo l'autrice si fosse prefissa di mostrarcelo quale vittima (ci mancherebbe) o meno feroce di quel che è; però ciò che emerge dal ritratto romanzato del protagonista  è quello di un individuo solo, finito, acciaccato fisicamente oltre che moralmente, che continua ad avere fin troppa autostima e che nega le proprie colpe, come se avesse perso il contatto con la realtà e non volesse accettare chi è davvero, cos'ha fatto e cosa rischia.

Non c'è giudizio morale sul personaggio e sulle sue azioni; piuttosto, attraverso la narrazione di atti, parole e soprattutto pensieri di un uomo che cerca di perdersi nella banalità di una giornata qualunque come per esorcizzare lo tsunami che sta per abbatterglisi addosso, c'è forse l'intenzione di presentare "il mostro" nella sua solitudine, nello stato di paura che lo attanaglia e che cerca di tenere a bada con la noia di azioni inutili, nella sua imperfetta e meschina umanità.

"Perché la vita non poteva essere così, questo assistere impassibile, il sollievo di essere un vegetale? (...) Poteva addirittura cominciare a pensare a quello che gli era successo. (...) Adesso era in grado di analizzare il problema, a testa alta (...) Poteva girarci attorno,  avvicinarsi (...) Cos'era Harvey se non una sagoma di cartone, davvero, un'idea di se stesso?"

Mi ha lasciata un po' perplessa; è quel tipo di lettura che non riesco a catalogare in modo semplicistico con aggettivi del tipo "bello" e "brutto"; credo che per farmi un'idea precisa di Emma Cline e decidere se mi piace o meno, dovrò leggere altro.

sabato 28 agosto 2021

Recensione: RAMONDO LO SCUDIERO - L’avventurosa storia di Raimondello Orsini del Balzo, di Antonio Chirico



Quella di Ramondo Orsini Del Balzo, vissuto nel Regno di Napoli a cavallo tra il 1300 e il 1400, è stata una vita avventurosa, contrassegnata tanto da battaglie feroci e sanguinose quanto da amore, amicizia, tradimenti, giuramenti, pericoli ed imprevisti, che hanno visto il protagonista diventare, da giovanotto alla ricerca di un posto nel mondo a uomo d'armi coraggioso, da semplice scudiero a ricco feudatario, gonfaloniere, connestabile e principe.


RAMONDO LO SCUDIERO
di Antonio Chirico


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484 pp
Giugno 2021
"Neanche Ramondo invero era mai cambiato davvero. Nel corso della sua vorticosa esistenza, il tempo lo aveva trasformato esteriormente. Aveva variato abiti, acconciatura, abitudini, luoghi, amici e persone frequentate, per rimanere, alla fine dei conti, sempre se stesso, il bambino che, a Nola, restava a bocca aperta estasiato nell’ascoltare i racconti di cavalieri, dei suoi avi e dell’orsa da cui tutto era partito."


C'è stato un tempo in cui nascere dopo il primogenito era proprio una gran sfortuna!
Lo sa bene il giovanissimo Ramondello, secondogenito del conte Orsini, costretto ad accettare, pena l'ira e le punizione da parte del genitore, ciò che questi ha deciso per lui e suo fratello.
Al primo figlio Roberto vanno titoli e proprietà di famiglia, mentre per il minore il padre ha previsto la carriera ecclesiastica.
E questo nonostante sia evidente che i due fratelli abbiano caratteri ed attitudini diversissimi, e Ramondo possegga le qualità per essere un futuro conte molto più del fratello maggiore, più pavido, tranquillo e decisamente poco portato per la vita militare.

A  sostenere a gran voce la decisione del burbero e autoritario conte - di favorire unicamente Roberto e di mandare in monastero il povero Ramondo - ci pensa la moglie, che è madre naturale solo del primogenito; Ramondo, infatti, è frutto di una relazione adulterina avuta dal conte Orsini, per cui la donna nutre astio verso questo figlio non suo ma che ha comunque dovuto accettare dentro casa.

Fortunatamente, però, Ramondello ha dalla sua l'omonimo zio paterno, Ramondo del Balzo; il prozio non ha figli e vede nel pronipote l'unico futuro erede, ed infatti lo nomina successore di tutti i propri beni, a condizione che il ragazzino aggiunga il proprio cognome al suo, una volta entrato in possesso dell'eredità.

Ramondello è un ragazzino vispo, intelligente, abile nel maneggiare la spada, ubbidiente... ma per quanto consapevole di dover rispettare e temere l'autorità paterna, è altresì convinto di non poter andare contro se stesso e la propria natura: lui non ha alcuna intenzione di diventare un religioso, non è a quello che aspira, quanto piuttosto ad essere un combattente valoroso e, un domani, un uomo potente, stimato... e con famiglia!

Il destino vuole che egli incontri e si innamori, ricambiato, di una dolce e bella fanciulla, ma il padre, ostinato e determinato nel voler imporre i propri ordini, scombinerà il futuro del figlio minore, lo priverà di ciò che gli spetta di diritto (e previsto dal testamento del prozio Ramondo, che nel frattempo muore) e Ramondello sarà costretto a fuggire di nascosto dalla casa in cui è nato.
Impavido e intraprendente, si unisce al seguito di Guy de Chavigny, cavaliere e guida di una compagnia di ventura (costituita da nobili e soldati mercenari), che si appresta ad andare in Prussia a combattere per l’Ordine teutonico nelle crociate contro i lituani.

Da questo momento inizia per il ragazzo una grande avventura, fatta di scontri corpo a corpo sul campo di battaglia, dove il nemico è valoroso e restio a lasciarsi "evangelizzare" da questi soldati cattolici.
Ramondo cresce molto nel fisico e nello spirito, e il cavaliere de Chavigny lo prende volentieri sotto la sua ala, diventando per lui un mentore perspicace, saggio e leale.

Al ritorno dalle crociate, Ramondo è un giovanotto ormai rispettato, ricco ed è pronto a riprendersi l'amata Isabella e a rivendicare l'eredità presso il padre; ma soltanto uno di questi progetti, purtroppo, riuscirà a realizzarsi perché il nostro eroe dovrà scontrarsi con un'amara verità.

Ma se c'è una qualità che non lo abbandonerà mai è la forza d'animo, la capacità di rialzarsi sempre, anche dopo delle sconfitte non facili, che siano in battaglia o nella vita e Ramondo, sostenuto anche dagli amici, comprenderà che la vita deve per forza andare avanti e che sarebbe sbagliato lasciare che i ricordi e il passato, con il loro fardello di dolore, rancori, amarezze, avessero la meglio su di lui e sulla sua felicità.

Nel tornare a Napoli, Ramondo si trova coinvolto, in modo sempre più diretto, nelle rivalità politiche e religiose all'interno dello "scisma d'Occidente", e che vedono contrapposti il papa di Roma, Urbano VI, sostenuto da Carlo III, e il papa di Avignone, Clemente VII, sostenuto da Luigi d'Angiò.

Ramondo, negli anni e attraversando varie vicissitudini pericolose e incredibili, mostra sempre un gran discernimento per capire, di volta in volta, con chi schierarsi, chi considerare alleato e da chi invece guardarsi le spalle.

Il futuro ha in serbo per lui un nuovo amore, che lo accompagnerà sino alla fine dei suoi giorni: Maria d'Enghien, una ragazza nobile, tanto bella quanto intelligente, dalla forte personalità, che saprà restare sempre accanto al marito incoraggiandolo, consigliandolo e dandogli tutto il sostegno possibile.

Ramondo accrescerà con saggezza e scaltrezza il proprio potere e i propri domini, conquistando città e contee in Puglia, divenendo di fatto il feudatario più ricco dell'Italia dei suoi tempi.

Questo di Antonio Chirico è un romanzo storico nella sua accezione più pura e, se piace il genere, è una lettura che non si può non amare; per quanto mi riguarda, amo i romanzi storici e leggere le avventure e le peripezie di questo personaggio realmente esistito mi ha intrattenuto piacevolmente; il periodo storico di riferimento ha sempre esercitato su di me un grande fascino, in particolare per ciò che riguarda il nostro Paese, che - come sappiamo - a cavallo tra il XIV e il XV secolo era diviso in tanti piccoli Stati, costituiti da feudi e da signorie comunali costantemente in guerra tra di loro.

Non conoscevo questo personaggio, quindi la lettura ha colmato una lacuna storica e ha stuzzicato il mio interesse in merito; è un protagonista che impariamo a conoscere a tutto tondo e cattura la nostra simpatia, perché sin dall'adolescenza non possiamo non "fare il tifo per lui", non sentirci solidali con le ingiustizie subite e augurarci che sappia far valere i propri diritti contro chi intende raggirarlo o calpestarlo.
Ma Ramondo non si fa ingannare facilmente (anche se a volte i nemici si rivelano essere quelli a noi più vicini), essendo scaltro, arguto, sempre attento a tutto ciò che gli accade intorno e pronto a prendere decisioni importanti, mettendo avanti il bene di chi serve ed ama.

Ci sono non poche pagine dedicate agli scontri tra i soldati, ma questo a mio avviso non rallenta il ritmo, che resta costante per tutta la narrazione con note più vivaci nei momenti clou; i dialoghi abbondanti contribuiscono a dare dinamicità alla storia, colore ai personaggi e ci immergono nel contesto in modo vivido.

Se cercate un romanzo ricco di avventura, combattimenti estenuanti, legami famigliari, d'amore e di amicizia, alleanze e tradimenti, con personaggi ben caratterizzati e il tutto su uno sfondo storico ben preciso e ben narrato (il linguaggio è sì consono al periodo di riferimento, ma, lungi dal risultare pesante o ampolloso, mantiene per tutto il corso del racconto una freschezza, una vivacità e un'ironia che riflettono il temperamento del protagonista e conferiscono una maggiore agilità e leggerezza alla narrazione), l'esordio letterario dell'avv. Chirico è il libro che fa per voi.

venerdì 27 agosto 2021

Libri&Musica in "Uomini di poca fede" di Nickolas Butler


Uno degli ultimi libri letti è stato UOMINI DI POCA FEDE di Nickolas Butler; tra queste pagine sono presenti numerosissimi riferimenti musicali e anche diversi di tipo letterario.


Parto da tre libri menzionati da Butler. Fatemi sapere se li conoscete!


Il controllo della natura di John McPhee (Ed. Adelphi, trad. G. Castellari, 311 pp., 1995), apparso per la prima volta nel 1989.

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In questo libro McPhee ha voluto esplorare e studiare i luoghi in cui l’uomo si è impegnato in una battaglia totale con la natura per conquistare ciò che non è dato, per «accerchiare la base dell’Olimpo, reclamando e aspettando la resa degli dèi».
Nella piana deltizia del Mississippi, con il volgere dei cicli naturali, è giunto per il fiume il momento di mutare corso e confluire in uno dei suoi vicini. Ma New Orleans, la Louisiana e l’intera economia degli Stati Uniti non possono permetterselo, e così viene varato un gigantesco sistema di dighe e chiuse e canali con il compito – né più né meno – di mantenere il vecchio grande fiume al suo posto. 
In Islanda, un’isola si spacca all’improvviso vomitando enormi masse di lava che minacciano di cancellare quello che è il primo porto peschereccio islandese, e l’unico sulla costa del Sud. Per salvarlo, c’è una sola cosa da fare, e viene fatta: bagnare la lava, raffreddarla, quindi solidificarla e deviarne il corso. 
Nei dintorni di Los Angeles, migliaia di residenze sono state edificate a ridosso di montagne che le piogge dilavano e trascinano a valle. Con uno sforzo formidabile, vengono allestiti centocinquanta bacini, ciascuno grande come uno stadio, per intercettare la perenne minaccia delle colate. In tutti questi casi, gli uomini mettono a repentaglio la propria vita e affrontano spese colossali per continuare a vivere là dove la conformazione geologica e il clima sembrerebbero vietarlo. Ma l’esito non è mai scontato. 

Così può accadere che l’ingegno umano e la tecnica, generosamente congiunti, possano sommare nuovi disastri ai disastri della natura. Con questo libro McPhee ha saputo darci ancora una volta un felice esempio di quel genere di letteratura di cui egli è certamente il massimo rappresentante: una letteratura fondata sull’investigazione minuziosa, ossessiva, di fatti reali – e per lo più di fatti che ben pochi conoscono nel dettaglio (trama presa dal sito di Adelphi).



Pionieri di Willa Cather (Ed. Mattioli, trad. N. Manuppelli, 182 pp). 
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Immigrati svedesi, i Bergson vivono e muoiono nelle sconfinate praterie del Nebraska. È Alexandra la
figura centrale di questo racconto, giovane donna determinata che eredita dal padre un terreno e dedica la vita intera a farlo fruttare, mentre attorno a lei si snoda il lento progredire di un paese intero.

Attraverso gli occhi e il coraggio di una donna, intrecciando storie di resistenza e di amore, tentazione e solitudine, isolamento e infine riscatto, Willa Cather riporta in vita in queste pagine, con nostalgia, un mondo che ha visto scomparire (Ibs).



Gilead di Marilynne Robinson (Einaudi, trad.E. Kampmann, 258 pp).

John Ames è un uomo di 76 anni ed è il pastore congregazionalista di Gilead, cittadina di poche anime nel cuore dell’Iowa; una malattia cardiaca lo sta spegnendo. 
Ecco dunque la decisione, nella primavera del 1956, di lasciare testimonianza di sé al figlio di sette anni, che non vedrà crescere.
Parte da lontano, dalla storia degli altri due reverendi John Ames, nonno e padre, che prima di lui hanno assolto quella funzione. Un abolizionista radicale, il primo, guerrigliero accanto a John Brown e volontario nell’esercito unionista, che, folgorato da una visione in giovane età, comunica con Dio da pari a pari e sceglie di esserne il braccio armato in nome di un’inflessibile giustizia. Pacifista convinto, il secondo, che del proprio mandato privilegia l’osservanza, e vive una vita di reazione implosiva all’esplosiva azione paterna.
Il terzo John Ames, lo scrivente, racconta delle loro eredità, dei saperi e delle esperienze che gli hanno permesso di coniugarle, della sua esistenza di studio e servizio in un luogo, Gilead, che dispensa con parsimonia il suo biblico balsamo, della lunga separazione dalla vita vissuta fino alla tarda folgorazione dell’innamoramento e alla rinascita in una piena e matura felicità.
L’arrivo in città di Jack Boughton, figlio del suo amico fraterno, giovane inquieto e un po’ sinistro dal passato oscuro e dalle dubbie intenzioni, gli offre l’occasione di chiudere i conti anche con la gelosia e il sospetto, sciogliendoli in perdono e tolleranza.
Resta una sola prova da superare: la serena accoglienza della propria mortalità, il distacco da una vita terrena più che amata, da una famiglia che non può più proteggere.
In un discorso lucido e luminoso da padre a figlio, da padre a Padre, dove l’intelligenza e la speranza parlano la stessa lingua.



*****

Ed ecco a voi le canzoni che compaiono nel romanzo (è possibile che abbia saltato qualcuna!)!




Viene citato anche un album di Bob Dylan, Nashville Skyline.

Di Johnny Cash vengono citate due canzoni, You are my sunshine e Folsom Prison Blues.

Da questa playlist, scelgo e condivido con voi You are my sunshine, la mia preferita.




martedì 24 agosto 2021

Recensione: UOMINI DI POCA FEDE di Nickolas Butler



Può una fede, per quanto piccola, spostare le montagne?
Può una preghiera, elevata con sincerità e fede, portare guarigione là dove ci sono la malattia e la triste ombra della morte?
Butler ci porta nel Wisconsin e attraverso il succedersi delle stagioni, che si intervallano portando mutamenti nella natura rigogliosa che lui conosce molto bene, ci lascia entrare, con discrezione, nelle vicende di una famiglia come tante, chiamata a discernere il limite tra il vivere secondo i principi della fede e le insidie del fanatismo religioso.


UOMINI DI POCA FEDE 
di Nickolas Butler



Ed. Marsilio
trad, F. Cremonesi
272 pp
In una tiepida giornata di primavera, un nonno e il suo nipotino di cinque anni si godono la bellezza di un pomeriggio insieme... al cimitero, tra le lapidi della gente che negli anni addietro ha abitato Redford, una tranquilla cittadina nel Wisconsin.
Forse il luogo potrebbe non sembrare, a un primo sguardo, quello ideale per divertirsi, ma nei due visitatori non c'è ombra di tristezza, quanto piuttosto di serenità; Lyle Hovde, ormai avanti negli anni ma ancora forte ed energico, sa che la morte fa parte della vita e non c'è da far scongiuri pensando ad essa; il suo amatissimo nipotino, Isaac, ha dalla sua parte la giovanissima età e tutta una vita davanti a sé: che paura possono mai indurgli quei volti sereni che lo guardano dai ritratti delle lapidi?

Lyle è sposato con la sua dolce metà, la moglie e compagna di una vita, Peg; hanno una figlia adottiva, Shiloh, che dopo un'adolescenza ribelle che l'ha allontanata da casa e la nascita di Isaac, è tornata dai genitori, sempre così comprensivi e pronti ad accogliere lei e il piccolo in qualunque momento.

Isaac è la gioia dei nonni: dotato di una curiosità vivace e di una dolce sensibilità, con la sua allegria e la sua vitalità tiene impegnato il nonno nei propri giochi infantili e la nonna, che per lui è sempre disponibile a mettersi ai fornelli, cuocendo pancake e torte.

Le giornate scorrono placide e gioiosamente tranquille, fino a quando Shiloh - per carattere sempre un po' riservata, scontrosa e fonte di preoccupazione per la coppia - comunica ai suoi che ha deciso di lasciare la loro casa per andare a vivere con il figlio a La Crosse (non distante da Redford).
Il motivo? Non solo per non pesare sugli anziani genitori, ma in special modo per essere più vicina alla chiesa che sta frequentando con assiduità da un po' di tempo a questa parte e grazie alla quale ha riscoperto la fede in Dio, e la propria esistenza ha assunto un nuovo e più profondo significato.
 
Lyle e Peg restano un po' perplessi: che bisogno c'è di andare a vivere altrove? Possono comunque frequentare la chiesa e Lyle potrebbe accompagnarli, no?
Ma Shiloh, testarda e di poche parole, è inamovibile. Ha già deciso e, se vogliono, i genitori possono recarsi anch'essi in chiesa, sicuramente ne troverebbero giovamento per le loro anime.

La coppia è preoccupata, tanto all'idea di perdere di vista il piccolo Isaac, quanto al pensiero che questa loro amata figlia, sempre così volubile, si infili in qualche guaio.
Magari è bene accompagnarla in chiesa, una domenica, e vedere con i propri occhi "che aria tira".
Nell'ex-cinema ormai adibito a luogo di culto, incontrano il pastore Stevens, un uomo giovane e che parla a suon di versetti biblici e condisce ogni parola con larghi sorrisi e una gentilezza che ha un che di fastidioso per quanto è eccessiva.
Ed è proprio conversando con lui che Peg e Lyle vengono a sapere una cosa, anzi due, che li mette immediatamente in allarme: anzitutto, Shiloh e il bimbo andranno a vivere con il pastore (!!) in un appartamento, e poi il religioso condivide con loro, con una noncuranza incredibile, che ha scoperto che il piccolo Isaac è... un guaritore.
Sì, un guaritore: è un bambino speciale su cui il Signore ha fatto scendere la propria luce, facendogli la grazia di questo meraviglioso dono sovrannaturale, che si manifesta attraverso la preghiera, innalzata a vantaggio di chi è malato, con lo scopo di guarirlo.

Dire che Lyle e Peg sono sbigottiti e confusi è un eufemismo; e se Peg è così sconvolta da non riuscire a dire granché, il marito è a dir poco arrabbiato: quale adulto sano di mente potrebbe mai pensare che un bimbetto di cinque anni abbia il dono di guarire gli ammalati? Cos'è, uno scherzo!?

Se potesse agire d'impulso, Lyle prenderebbe il nipotino e lo porterebbe via da quella chiesa, che probabilmente è una setta di fanatici religiosi in cerca di miracoli, ma non può farlo perché Isaac è il figlio di Shiloh e lui non vuol perdere la figlia, benché non la capisca.

Per restare vicini a figlia e nipote, ed aiutarli in caso di necessità, Lyle e Peg decidono di far buon viso a cattivo gioco e di frequentare la chiesa del pastore Steven per cercare di conoscere dal di dentro questa realtà religiosa e soprattutto per tener d'occhio  questo giovanotto, la cui religiosità ostentata puzza di ipocrisia e retorica a buon mercato.

O forse Lyle è troppo carico di pregiudizi ed offuscato dal timore di perdere Isaac, per essere obiettivo?
A fargli arrovellare il cervello è soprattutto la storia del dono di guarigione, e la cosa preoccupante è che non solo Shiloh è convinta anch'ella che Isaac lo possegga, ma è disposta ad allontanare chiunque - nonni compresi - non nutra la stessa convinzione di fede e, con il proprio atteggiamento miscredente, finisca per "bloccare" l'azione delle preghiere rivolte a Dio, facendo posto all'incredulità (e quindi al diavolo).

È una situazione oltremodo delicata, come possono esserlo le questioni di fede, e Lyle non è un vecchio mulo incapace di riflettere e mettersi in discussione.

Il susseguirsi delle stagioni scandiscono sì l'evolversi degli eventi ma anche, in un certo senso, il turbine di pensieri, domande, dubbi e fame di risposte che l'anziano sente vorticare dentro l'anima e che lo tormentano: forse è colpa sua, della sua mancanza di fede, se non riesce a vedere al di là del proprio naso, del proprio rozzo pragmatismo di contadino abituato a vivere in campagna?

Custodire e nutrire una fede - per quanto piccola - dentro di sé è un privilegio, e Lyle è sempre stato circondato, in qualche misura, da amici credenti, che hanno dedicato l'esistenza a Dio, come suo cugino Roger e l'amico Charles, pastore della chiesa luterana che ha sempre frequentato con Peg, più per abitudine che per devozione.

Lyle è un brav'uomo e non crede di aver bisogno di Dio e di Gesù per esserlo: ha dei valori e sa cosa voglia dire vivere onestamente e nel rispetto degli altri.
Chissà, forse tanti anni fa avrebbe potuto anche credere che qualcuno da lassù vegliava su di lui, ma dopo che lui e Peg hanno perso il loro unico figlioletto, Peter (morto a soli nove mesi di vita), quel germe neanche davvero sbocciato di fede, è morto prima ancora di nascere.

"La cosa più pesante del mondo da trasportare è la bara con dentro il corpo di un figlio piccolo, nessun adulto che abbia sopportato quel fardello lo dimenticherà mai. Seppellire un figlio è una tragedia che molti genitori non superano mai. Sporca il sole, ruba tutti i colori, spegne qualsiasi musica; dissolve matrimoni come un acido, dissangua la felicità e lascia dietro di sé nient’altro che grigia disperazione."

Da allora, a riempire le giornate di quest'uomo ci sono stati la famiglia e le piccole e grandi incombenze della vita; adesso ci sono i lavoretti nel frutteto di Otis e consorte e i momenti preziosi trascorsi con gli amici, in particolare il vecchio Hoot -  dal linguaggio colorito e vivace, che ama tracannare birre e chiacchierare rumorosamente con il più pacato Lyle - e il pastore Charles, sempre pronto ad ascoltare confidenze e turbamenti, in compagnia di uno scotch e di un po' di musica jazz.

Butler ci racconta la vita di queste brave persone e lo fa con una penna che sa calare il lettore direttamente in quei campi, nei frutteti, e ci sembra di sentire i profumi di una natura viva e che muta seguendo il proprio corso; se c'è una sensazione che ho avuto e che ha prevalso su tutte le altre, durante la lettura, è stata la pace, la serenità, una sorta di beatitudine..., le stesse provate tanto spesso da Lyle e che nascono dal godere di ciò che lo circonda, di ciò che quell'ambiente agreste, così famigliare, che profuma di casa ad ogni passo, dona naturalmente e con generosità: 

<< “Adorare” è una parola forte, ma che Lyle adorasse quelle giornate è la pura verità. I raggi del sole obliqui della tarda primavera, le mani che si imbattevano tra i rami nei nidi delicati di invisibili uccelli canterini, il dolce profumo dell’erba tagliata, la terrosa decomposizione delle foglie umide cadute. I fiori selvatici e i lillà, le rare, preziose spugnole, le api irrequiete e la loro estatica attrazione per il polline, il nipote che si arrampicava sui rami più bassi di un albero per nascondersi o correva nel frutteto, una piuma di tacchino in ciascuna mano tesa come se stesse volando. O ancora, seduto in silenzio nella sua giacchetta blu, a strappare erba dalla terra… >>
Ma è una pace che viene disturbata da preoccupazioni, interrogativi, da eventi che recano tristezza, amarezza, paura di perdere chi si ama.

E questi eventi si scontrano tutti, in qualche modo, con la necessità di nutrire fede in Dio, in un Dio che non è lontano dagli uomini ma di essi ha cura, benché abbiano una fede piccola piccola.
E Lyle, in fondo, vorrebbe crederci e smettere di essere uno di quelli che va in chiesa solo per abitudine o per far compagnia alla moglie.

Ma non è così semplice, non quando un tuo caro amico sta per lasciarti per sempre e tu non sei pronto, o quando vedi tua figlia allontanarsi per seguire un gruppo di credenti un tantino esaltati e che adorano il giovane pastore, belloccio e carismatico, che crede di vedere in un frugoletto di cinque anni niente meno che .... un guaritore!!

Che fare? È giusto tentare di far ragionare Shiloh, affinché molli pastore e chiesa e porti via un'anima innocente e indifesa, lontano da una probabile gabbia di invasati religiosi, o è bene piegarsi a ragioni di fede che lui finora ha ignorato per la durezza del proprio cuore di miscredente?

Lyle fa fatica a credere che basti chiudere gli occhi e pregare al capezzale di un malato perché questi sia guarito dal proprio male.
Nel Ventunesimo secolo c'è ancora gente che crede in questa roba?
Sì, c'è, ok..., ma se queste convinzioni si spingessero troppo in là, al punto di mettere a rischio la salute, e quindi la vita, di una persona cara, cosa bisognerebbe fare? 

Lyle non può permettere che il lutto bussi nuovamente alla porta del cuore suo e dell'adorata Peg, ed è pronto a tutto pur di evitare che una nuova tragedia si abbatta sulla sua famiglia. 

Nickolas Butler, ispirandosi a una drammatica storia vera, accaduta qualche anno fa proprio nella "sua" terra, ha dato vita ad un romanzo intenso, profondamente umano, e lo ha fatto ponendo sullo sfondo un’America rurale, "country", in cui il lettore si sente a proprio agio e gli sembra di percepire ogni dettaglio con tutti i sensi: l'odore dell'erba fresca, dei fiori, il sapore delizioso delle mele del signor Otis, il piacere di una birra ghiacciata che placa l'arsura d'estate, le malinconiche note di una vecchia canzone jazz, il freddo delle innevate mattine invernali, il profumo di pancake e mirtilli...
È un contesto campagnolo, di quelli belli, che vorremmo avere a portata di mano per rifugiarci dal caos quotidiano, di tanto in tanto, e prenderci dei momenti solo per noi, lasciandoci scaldare dal sole, sentendo il vento soffiarci intorno, senza far nulla, solo così..., felici per il solo fatto di esserci.

La narrazione parte, e inizialmente procede, molto lentamente, con un ritmo placido e descrivendo la vita di gente semplice, nelle cui normalissime esistenze sbirciamo senza però sentirci intrusi, ma anzi, accolti come degli amici, con naturalezza.
Butler prepara il terreno per ciò che accadrà dopo, quando entreranno in gioco altre dinamiche meno distese, che rompono l'idillio.

In un'atmosfera dolcemente malinconica e pacifica si solleva un dramma famigliare, che tocca temi fondamentali del vivere di ciascuno di noi, di ogni essere umano: l'amore per i propri cari, e quanto amare rechi infinite gioie ma anche tanti dolori e grattacapi; l'elaborazione difficile di un lutto; la fede in Dio, e tutto il carico di dubbi che essa inevitabilmente porta con sè (seppur in maniera differente in base alle persone), e se/quanto/come questa fede possa cambiare il corso degli eventi, attraverso la preghiera, anche sfidando la ragione, la scienza, la medicina.

Sono argomenti delicati, che attengono alla "misura di fede" di ogni individuo ma che, pur riferendosi alla spiritualità, inevitabilmente possono avere conseguenze di tipo pratico, quando Dio diventa il centro della vita e da Lui lasciamo che dipendano le nostre scelte, in ogni ambito; e sono spinosi perché non è facile e automatico (neanche giusto, per quanto mi riguarda) giudicare la fede altrui ed emettere sentenze sulle decisioni che gli altri prendono sulla base delle proprie convinzioni religiose... Eppure tra queste pagine risuona costante la domanda: ok la fede, ma c'è un limite (oltre il quale si sfocia nel fanatismo religioso) che non va superato, soprattutto quando è in gioco la vita umana e, oltretutto, di persone che non possono decidere per se stesse?
 
Sono di fede cristiana e l'argomento della preghiera, e delle guarigioni attraverso di essa, mi ha colpito molto da vicino, per cui ho letto il libro con un certo trasporto emotivo, lasciandomi guidare dalla scrittura di Butler, che ora instillava calma e rilassatezza, ora induceva a riflessioni significative; ho amato la sua sensibilità, la delicatezza, la profonda empatia, l'attenzione per i rapporti umani e la capacità di raccontarli (già apprezzata molto in Shotgun Lovesongs); mi ha spiazzato un po' il finale, nel senso che la mia ragione, il mio bisogno di "avere una soluzione", una fine chiara e definitiva, non sono stati soddisfatti, ma non lo dico perché è necessariamente un aspetto negativo: Butler mi ha lasciata un po' così, con una bellissima (e consona al tema) citazione biblica* e con un epilogo che lascia al lettore la facoltà di immaginare cosa possa essere accaduto dopo, di "risolvere" i nodi da solo.

Un libro da gustare, pagina dopo pagina; una storia che fa riflettere sui rapporti uomo-Dio, ragione-fede, terreno-sovrannaturale; personaggi che ci sembra di conoscere da una vita, ai quali ti affezioni perchè sono... così umani, così dubbiosi, fragili, bisognosi, in cerca di risposte; persone semplici, buone, che come me, come noi, sperano solo di essere sereni e un po' felici.
Esseri umani che alzano un sopracciglio con scetticismo davanti alla parola miracolo, ma che sentono le lacrime salire agli occhi quando chinano il capo per pregare Dio, sperando che li ascolti e stenda il suo braccio per salvarli dalla tempesta.

Leggete Butler se avete bisogno di una lettura che vi dia un attimo di pace e distensione senza annoiarvi, e che stimoli interrogativi importanti, con dolcezza e delicatezza.



 “Non ho mai creduto in Dio finché non ci siamo trovati là fuori, in mezzo al mare su quella barchetta. Adesso però ci credo."

«Non mi servono prove dell’esistenza di Dio, Lyle. So che c’è qualcosa di più. L’ho sentito. (...) È in quel fuoco e in questo single malt invecchiato. (...) È dentro di te, amico. È dentro di me. (...) Perché so che vedi Dio nel mondo; so che Lo senti.»


* Atti degli Apostoli 2:17; Gioele 2:28-32



domenica 22 agosto 2021

Recensione: SORELLE di Daisy Johnson



Tra queste pagine si consuma la storia di una famiglia spezzata che cerca di fuggire da un passato triste e soffocante cercando rifugio in una casa; una casa che dovrebbe segnare l'alba di un nuovo giorno,  essere luogo di accoglienza e sicurezza, sinonimo di radici, di appartenenza, le cui mura dovrebbero risuonare di risate e spensieratezza, e invece essa diventa il luogo del terrore e della minaccia.
La casa, con i suoi muri rovinati, le sue pareti umide, i suoi strani rumori, è percepita da chi la abita (una mamma con le sue due figlie) come un organismo vivente, pronto a inghiottirle, spaventarle, richiudersi loro addosso mozzando il respiro.



SORELLE
di Daisy Johnson



Fazi Ed.
trad. S. Tummolini
224 pp
"Se il cervello è una casa con tante stanze, io vivo nello scantinato. È buio e silenzioso."

Sheela, insieme alle sue due figlie Luglio e Settembre, sta viaggiando in auto verso la casa al mare, di proprietà di Ursa, la sorella del defunto marito di Sheela, Peter.
In realtà, la loro è praticamente una fuga da Oxford, dove hanno vissuto finora; avvertiamo dalle parole di Luglio (che ha il ruolo di narratrice per gran parte della storia; a lei si alterna sua madre) che qualcosa di terribile è successo alle due sorelle quando frequentavano la scuola; qualcosa che non viene menzionato ma che sta lì, come un fantasma, una maledizione, a ricordare alle tre donne che il passato è tutto da dimenticare.

Ma prima di dimenticarlo, il lettore deve poterlo conoscere.
Giusto, se non fosse che la voce narrante si rivela subito per quella che è che sarà sempre, per tutto il libro: confusa, (involontariamente) enigmatica, febbricitante, delirante.

Scoprire la verità, conoscere ciò che davvero è accaduto prima e sta accadendo ora, nella "casa dell'Accoglienza" (come viene chiamata la casa paterna) non sarà lineare e semplice, e il lettore viene trasportato nella vita bizzarra delle due sorelle come in un sogno evanescente, dai contorni labili, che assumono man mano quelli di un incubo.

Luglio e Settembre sono due adolescenti che hanno tra loro un legame simbiotico; si comportano come se fossero gemelle anche se in realtà Settembre è più grande di Luglio di dieci mesi.
Stanno sempre insieme, bastano a loro stesse; non hanno relazioni con i coetanei e, anzi, a scuola non sono affatto integrate; in particolare, apprendiamo che Luglio è oggetto di bullismo, di cattiverie gratuite ed umilianti, che fanno arrabbiare moltissimo Settembre, che pare meditare vendetta contro queste compagne perfide che si divertono a far del male alla sorellina.

Le due hanno personalità diametralmente opposte: Settembre è una furia, sempre agitata, nervosa, scorbutica, prepotente e ha un forte ascendente sulla sorella minore; la comanda a bacchetta e si aspetta da lei obbedienza assoluta, soprattutto quando le chiede di fare "per gioco" cose assurde e pericolose.
Le due trascorrono le giornate dentro casa guardando documentari, mangiando cibo in scatola o al massimo sandwich al formaggio, giocando come se fossero ancora bambine, a nascondino o a "Simone dice...", dove però  a dire e comandare è sempre Settembre.
Vanno anche in giro, vagando all'esterno della casa, nei dintorni, e conoscono un ragazzo dai capelli rossi, il quale si mostra interessato a una di loro..., o a tutte e due, non si capisce subito (si capirà dopo, quando tutto verrà chiarito).

Intanto la madre, Sheela, è chiusa nella propria stanza, sempre a letto, con un piumone a coprirla tutta.
Perché? È forse depressa?

Di lavoro fa l'illustratrice di libri per bambini, e le sue figlie compaiono nei suoi disegni; attraverso la sua voce, veniamo a conoscenza di come la relazione col padre delle figlie, Peter, fosse una relazione molto malata,fatta di abusi, dalla quale ella fuggiva ma senza in realtà riuscire a sciogliersi mai del tutto dall'uomo amato, neppure dopo la morte di lui.
Peter era un violento e Sheela vede in Settembre molto di lui...

Quello che sembrava un nuovo inizio in un posto lontano da Oxford, dalla scuola, da quell'evento indicibile che ha cambiato le loro esistenze, ben presto si colora di tinte cupe, fosche, che gettano qua e là piccoli semi di terrore, soprattutto perché la sensazione di paura e di claustrofobia, che si respira in quella casa, non è chiaro a cosa vada attribuita.

Fatto sta che le luci tremolano, da dietro le pareti umide provengono strani rumori, dall'intonaco sbucano decine di formiche; ci sono pertugi in cui Luglio si infila, giocando con la sorella, che paiono volerla soffocare; la casa è descritta - da una impotente e spaventata Luglio - come una cosa viva, che si gonfia, si accovaccia; ci sono oggetti che sembrano spostarsi quando nessuno li guarda. Travi e travetti sono marci, sembrano lì lì per crollare giù.

La casa è tutto fuorché accogliente ma per fortuna le due ragazze non si annoiano mai, perché non sono sole. Non finché l'una ha l'altra, e viceversa.

Eppure, il lettore percepisce in modo palese, proseguendo nella lettura, che qualcosa di minaccioso è nell'aria; qualcosa che arriverà come un uragano a turbare quella strana ed inquietante quiete che le ragazze sembrano aver trovato, nonostante la loro mamma sia sempre chiusa in camera, chiusa in un mondo di silenzio e dolore dal quale sono escluse.

Settembre è una presenza forte, ingombrante e inamovibile; incombe sulla sorella, più debole, remissiva, silenziosa, debole, le dà degli ordini e lei, supinamente e come un robot, obbedisce senza fiatare.
Perché l'ha promesso.
Perché Settembre è tutto il suo mondo.

"Settembre mi teneva ancorata. Non al mondo ma a lei.
(...)
Settembre è la persona che avrei sempre voluto essere. Io sono una forma ritagliata dall’universo, trapunta di stelle che continuano a morire – e lei è la creatura che riempie il vuoto che io lascio nel mondo. Mi ricordo della promessa che ci siamo fatte anni fa, di quando l’abbiamo scritta per non scordarcela, di come ci siamo prese le mani e le abbiamo tenute sul foglio, stringendo sempre più forte."

Settembre, la "bambina manipolatrice e crudele, che a volte trattava la sorella come un recipiente, da portare in giro, da prendere e rimettere a posto, versandoci ogni cosa dentro."

Di capitolo in capitolo, ci vengono aperti squarci di passato e attraverso immagini e scene nitide e lucide ma fulminee, intuiamo qualcosa della tragedia accaduta e delle sue ripercussione sul qui ed ora; un oggi che ci sembra fumoso, impenetrabile e dove la presenza umana si confonde in modo sinistro e inspiegabile con la casa.

La casa accoglie, sì, ma non la vita; accoglie depressione, disperazione, una preoccupante inquietudine di cui si fa fatica a liberarsi, uno sfinimento soffocante.
Accoglie la rabbia infantile e capricciosa di Settembre e l'arrendevolezza (spesso irritante) di Luglio.
Accoglie i ricordi intrisi di tristezza di una mamma che ha perso ogni voglia di vivere.

La casa è, in questo romanzo che scivola lungo i binari dell'horror psicologico, un personaggio principale a tutti gli effetti, tanto che due delle protagoniste - Sheela e Luglio - quasi si confondono con essa e perdono di vista il proprio corpo: non capiscono più dove finisca la casa e comincino loro.

Come dicevo all'inizio, il racconto affidato alla voce di Luglio ci confonde, mescola delirio e lucidità, sogni ad occhi aperti e realtà, follia e salute mentale, passato e presente, ciò che si vorrebbe fosse vero e ciò che invece lo è sul serio.

Quando si soffre, è facile che ci si dica delle bugie per soffrire di meno, perché guardare in faccia la realtà aprirebbe finestre di dolore, crepe e ferite profonde che poi è difficile chiudere.

La casa "sente" tutto questo dolore disperato e senza via d'uscita, ne è impregnata in ogni angolo, nei soffitti, sui pavimenti, in ogni traliccio, buco sul muro: tutto esprime e rappresenta l'angoscia e la sofferenza inespressa della povera Luglio, che deve fare i conti con la verità.
Questo è, forse, l'unico modo perché lei, sua madre, e anche la loro casa che va a pezzi, riprendano a respirare.

In "Sorelle"  la Johnson pone al centro due sorelle il cui rapporto è indissolubile ma non equilibrato perché segnato dalla dipendenza affettiva di Luglio verso Settembre, che nella coppia è l'elemento dominante, forte. Luglio sente che non esiste senza la sorella; esiste per lei e grazie a lei; l'affetto che senza dubbio le unisce fa più male che bene, quantomeno a una di loro.

"Non sono una persona senza di lei. Mia sorella è un buco nero mia sorella è un albero che cade mia sorella è il mare. (...) un buco nero mia sorella è una finestra murata mia sorella è una casa che brucia mia sorella è un incidente stradale mia sorella è una lunga notte mia sorella è una battaglia mia sorella è qui."

Le relazioni famigliari sono tossiche, in questo romanzo: lo è quello di Sheela con Peter, quello di Peter con la sorella Ursa quando erano bambini e, ovviamente, quello tra le due sorelle protagoniste.
Queste ultime sembrano due animaletti selvatici lasciati a loro stessi, abbandonate di fatto da una madre che ha alzato un muro grosso tra lei e le figlie e, più in generale, tra lei e la vita.

Perché?, la domanda ritorna.

Nell'andare su e giù tra eventi passati e presenti, il dubbio sul perché sorge e comunque la risposta arriva, piano piano, in un crescendo di tensione e all'interno di un'atmosfera che viaggia sempre sul filo della paura, della sensazione di una minaccia incombente eppure sfuggente, difficile da individuare e nominare, e forse proprio per questo più terrificante.

Un romanzo che mi è piaciuto, per il taglio gotico conferito alla narrazione e la scrittura accattivante, densa, per l'ambientazione della casa (in cui aleggia un che di inspiegabilmente misterioso e pauroso) e per il legame morboso tra le due sorelle; l'autrice ha saputo, per quanto mi riguarda, tenere sempre accesa l'attenzione su "quel fattaccio accaduto a scuola", che ogni tanto sbuca fuori, come a ricordare che, in mezzo ai giochi assurdi tra sorelle, ai loro battibecchi, dietro il disagio provato costantemente da Luglio e la testardaggine di Settembre, c'è qualcosa di cruciale che va chiarito e reso noto per mettere insieme tutti i frammenti di questa drammatica storia di dolore e d'amore tra sorelle.


sabato 21 agosto 2021

LIBRI IN USCITA A SETTEMBRE (Fazi, Newton Compton, NN Editore)

 

Vi presento alcune prossime uscite che incontrano i miei gusti ed interessi! Spero incuriosiscano anche voi!


Dopo il grande successo di Io sono la bestia torna in libreria con LEI CHE NON
NN Editore
USCITA
9 SETTEMBRE 2021
TOCCA MAI TERRA 
Andrea Donaera: 
un romanzo nero, una storia di amore e morte, salvezza e destino, dove la ragione perde forza e viene sostituita da un inconscio potente, che si incarna nei luoghi, nei sacerdoti della superstizione e nei suoi nemici, fino all'atteso risveglio.

Miriam è in coma dopo un incidente e Andrea le siede accanto e le parla, tutti i giorni, ed in questo modo cerca di ricomporre un proprio mondo dopo il suicidio del padre. 

Intorno a loro gli altri personaggi di questa tragedia gotica: Papa Nanni, il venerato santone esorcista che istruisce Andrea sull'uso del tamburello e che è convinto che Miriam sia indiavolata; Mara, la madre della ragazza, che soffre ancora per la morte di una sorella amatissima (a sua volta chiamata Miriam); Lucio, il padre di Miriam e fratello di Nanni, che è il sindaco del paese, Gallipoli; e infine Gabry, la migliore amica della ragazza, che da Bologna le manda lunghi messaggi per riportarla in vita.


*****

Torna anche Angela Marsons con la sua detective Kim Stone.


QUELLI CHE UCCIDONO di Angela Marsons  

Ed. Newton Compton
trad. E. Farsetti
384 pp
USCITA
6 SETTEMBRE 2021

Un neonato, avvolto in uno scialle, viene lasciato sulla soglia della stazione di polizia di Halesowen, sotto la neve. 
Chi abbandonerebbe un bambino per strada con un freddo simile? 

Il detective Kim Stone, formalmente incaricata di prendersi cura del neonato fino a che non verranno allertati i Servizi Sociali. 
Nella notte, mentre è in servizio, riceve una chiamata urgente: Kelly Rowe, una giovane prostituta, è stata assassinata nel quartiere di Hollytree. 
Le brutali ferite sul corpo sembrano suggerire che l'omicidio sia frutto di un raptus o di una rapina, ma Kim non è convinta. 
Infatti, quando altre prostitute vengono uccise in rapida successione, appare chiaro che i delitti sono collegati e nascondono qualcosa di inquietante. 

Nel frattempo prosegue la ricerca della donna che ha abbandonato il suo bambino, ma quello che all'inizio sembra un gesto disperato assume via via contorni sempre più sinistri. 

Per Kim Stone e la sua squadra comincia così una discesa negli abissi più oscuri dell'animo umano, che li porterà ad addentrarsi in una spirale di sangue e barbarie. Forse questa volta la verità è più spaventosa di ogni immaginazione...


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Dopo il grande successo di Eredità, LONTANANZA è il nuovo romanzo di Vigdis Hjorth.
Un rapporto disfunzionale tra madre e figlia scandagliato nelle sue pieghe più nascoste. Una nuova storia di famiglia in cui le bugie, i silenzi e i segreti vengono messi a nudo. 

Fazi Ed.
trad. Podestà Heir
483 pp
USCITA
23 SETTEMBRE 2021

Trama

Dopo trent'anni di assenza Johanna torna in Norvegia e telefona alla madre, che ora ha ottantacinque anni ed è vedova. 
Ma la donna non le risponde perchè per la famiglia Haug, Johanna non esiste più: è morta quando, appena sposata e studentessa di Legge per volere del padre avvocato, ha mollato tutto per diventare pittrice e si è trasferita nello Utah con il suo professore d'arte, con cui ha avuto un figlio. 
Johanna ormai è un'artista affermata ma a far arrabbiare i famigliari sono anche i suoi stessi quadri, che rappresentano, a loro avviso,  una distorsione e una denigrazione ulteriore nei loro confronti, soprattutto per il modo in cui viene raffigurata la madre. 
Nella mente di Johanna affiorano vecchi ricordi di una donna all'apparenza leggera, spensierata, bellissima, ma quando riesce finalmente a spiegarsi alcuni episodi sconcertanti a cui ha preso parte, capisce che la madre non faceva che nascondersi dietro una corazza di convenzioni. 
Il lunghissimo silenzio fra le due donne si spezzerà in maniera violenta in un ultimo, spietato confronto.



*****

Dall’autore di Eureka Street, un romanzo drammatico, profondo, toccante.

Fazi
trad. L. Olivieri
224
USCITA
23 SETTEMBRE 2021
In IL DOLORE DI MANFRED Robert McLiam Wilson descrive gli ultimi giorni di 
Manfred, un vecchio che, pur soffrendo molto nel fisico, rifiuta di confidare nei medici; ma la sofferenza è anche psicologica, legata ai ricordi della seconda guerra mondiale e al suo matrimonio con Emma, una sopravvissuta ai campi di sterminio. 

Tutto ruota attorno al rapporto tra Emma e Manfred: perché un marito picchia la moglie che adora? E perché, a vent’anni dalla loro separazione, i due coniugi (che non hanno ancora divorziato) continuano a incontrarsi ogni mese su una panchina di Hyde Park?

McLiam Wilson ci rende partecipi dei tormenti, delle gioie e dei sentimenti d’un finale di partita talvolta beckettiano, dove il tragico e il burlesco si mescolano in un dosaggio sapiente, a cui fa da sfondo una Londra densa di fuliggine, umida e piovigginosa, con i suoi soli appannati, i lastricati lucidi di pioggia, i fasti di certi tramonti e la grigia noia della sua alba.


giovedì 19 agosto 2021

Recensione: UN COLPO AL CUORE di Piergiorgio Pulixi



Chi ha letto il precedente romanzo dello scrittore sardo Piergiorgio Pulixi - L'isola delle anime - ha già avuto modo di conoscere le ispettrici di polizia Eva Croce e Mara Rais e di ammirarne la tenacia e il formidabile intuito, caratteristiche che - unite a una grande capacità di lavorare insieme, in perfetta sintonia, pur essendo caratterialmente agli antipodi -  hanno permesso loro di risolvere un caso spinoso; in questo nuovo romanzo danno la caccia ad un criminale che ha un modo di operare particolare: non è un semplice serial killer, ma un "social killer", che diventa noto col soprannome "il Dentista" a motivo di un macabro dettaglio che accomuna le sue azioni criminali.
Ad affiancarle in quest'indagine c'è il vicequestore Vito Strega (protagonista della serie I canti del male), esperto in Criminologia e con, alle spalle, numerosi casi difficili risolti.


UN COLPO AL CUORE 
di Piergiorgio Pulixi



Ed. Rizzoli
506 pp
Quante volte ci è capitato di pensare che ci sono criminali che non ricevono la giusta pena per le loro malefatte? Cosa abbiamo provato davanti a certe ingiustizie, in cui la vittima era tale due volte, a causa del torto subito ma anche di un sistema giudiziario con troppe falle? Rabbia, senso di impotenza, desiderio di vendetta?

E se ci venisse chiesto di ergerci a giudici di tali uomini perversi - che, per diverse e assurde ragioni, la fanno franca e non pagano per i propri misfatti -, di poter decidere se essi meritino o meno una condanna, cosa faremmo? Ci affretteremmo ad emettere il nostro giudizio o penseremmo che, per quanto imperfetta, è la Legge a doversene occupare e che non sta a noi "fare giustizia" neppure quando essa sbaglia?

A Cagliari c'è qualcuno che si sta divertendo a mascherarsi da "giustiziere della notte", arrogandosi il diritto di punire i delinquenti là dove la Legge non fa il suo dovere, perché li rimette in libertà troppo presto o, addirittura, lasciandoli impuniti perché il reato è ormai andato in prescrizione, come accade proprio alla prima vittima di questo fantomatico giustiziere.

Nel prologo, infatti, assistiamo all'ultima infelice battuta di un processo durato otto anni: un uomo, accusato di aver violentato sistematicamente e per anni la figlioletta di un'ex-compagna, viene rilasciato in quanto, a motivo di lungaggini processuali, il reato alla fine è andato in prescrizione.
Il pedofilo è libero.
Ma il "giustiziere" non è d'accordo e vuole dare giustizia alla ragazza che ha subito anni di violenze.

Così, rapisce il pedofilo e lo sottopone ad un primo tremendo assaggio di sofferenza per le sue malefatte: gli stacca tutti i denti con una pinza, uno alla volta e senza  anestesia; pur somministrando dei sedativi al malcapitato, si assicura che questi resti lucido e comunque mai privo di sensibilità fisica. Del resto, l'obiettivo è che soffra... e anche tanto.
Ma non lo uccide subito. Il rapitore realizza un filmato in cui compare il pedofilo - sofferente, senza denti, pieno di sangue, legato ad una poltrona, terrorizzato e decisamente in balia della volontà di colui che l'ha privato della dentiera e della libertà - e lui stesso, il Dentista (così verrà ribattezzato il killer, dall'opinione pubblica e dalla polizia), la cui identità è celata da una parrucca arancione e da una maschera da clown dai tratti demoniaci.

Il Dentista nel video rende chiara la propria missione: egli rapisce e punisce criminali sfuggiti alle maglie della giustizia e sottopone gli stessi al giudizio delle persone, della gente comune, cui viene inviato il presente video e attraverso i social essa è invitata a far sentire la propria voce e ad esprimere il proprio verdetto. Ha tre ore di tempo per votare e Il Dentista garantisce che le votazioni sono anonime e irrintracciabili, per cui ogni persona che parteciperà non deve temere ripercussioni di alcun genere.

Il pedofilo deve morire o essere liberato, come del resto la giustizia italiana ha sentenziato?
Il Dentista organizza online una vera e propria votazione: sì o no, morte o vita. Chi vuole può partecipare e il destino del criminale verrà deciso a colpi di semplici click.

Immaginatevi se questo accadesse davvero: a un certo punto sul nostro cellulare arriva un link, con l'anteprima di un video intitolato "La Legge sei tu". Ogni persona deve decidere se aprirlo o no e, successivamente alla visione, scegliere se credere o meno a quel matto con la parrucca e la maschera che blatera di una "giustizia ingiusta" e della possibilità di far qualcosa perché il mondo sia un po' meno storto.

Cosa faremmo? Proveremmo a votare, magari pensando che in fondo potrebbe essere tutto uno scherzo bislacco?
Ma se è tutto vero, ogni persona si trova davanti ad un interrogativo fondamentale: posso io sostituirmi alla Legge e pronunciarmi in merito ad una condanna somministrata da un folle che pretende di applicare la legge del taglione, con la pretesa di riparare i torti del sistema giudiziario e dare un po' di giustizia alle vittime?

In pochi minuti non solo il video diventa virale ma il contatore che segna i voti si muove alla velocità della luce: la gente si è fiondata in massa sul sito del Dentista a votare.

Quando tutto questo giunge alle orecchie della polizia, si crea il caos.

"Il piano era banale nella sua semplicità: l'odio era l'agente fertilizzante, e la pericolosa rabbia sociale che attanagliava il Paese l'humus propizio e fertile. La virulenza dei social network avrebbe accelerato il contagio. < È un sistema che si autoalimenta e autoreplica, impossibile da fermare se non si arriva alla fonte >".

Il Dentista, con i suoi video e i suoi "sondaggi" popolari, fa leva sulle difficoltà delle persone di distinguere tra finzione e realtà, facendo loro credere che basti una connessione ad Internet per esercitare un delirante e presunto potere di decidere della vita o della morte di un individuo.

Se c'è una cosa che questo individuo sa fare bene è "lubrificare la macchina della giustizia col sangue", perché in lui c'è una carica di odio tale da sembrare concreto, palpabile. E questo fa paura.

L'indagine, complicata e molto delicata, vede Mara Rais coinvolta al 100%, con tutte le scarpe e i completi eleganti; la donna si affretta a richiamare in sede la collega, Eva Croce (in ferie in Irlanda) perché sa che col suo istinto e la sua sensibilità può aiutarla a vederci meglio in questa brutta storia.
Ad aiutarle nella soluzione di questo caso, che in pochi giorni ha scosso l’Italia, c'è il vicequestore Vito Strega, esperto di psicologia e filosofia, tormentato criminologo dall’intuito infallibile, abituato a lavorare immerso tra le pieghe più oscure del Male.

Le due donne sono l'una il contrario dell'altra, a cominciare dall'aspetto fisico: Mara è una bionda che veste con eleganza, è sempre in tiro ed è tutta precisina; l'altra è una rossa che veste con jeans strappati, giubbini da motociclista e sembra a suo agio nel disordine e nel presentarsi nel modo più informale possibile.
Là dove Mara è impulsiva, scorbutica, sboccata e sempre pungente e sarcastica, l'altra è riservata, più taciturna e posata. Ma entrambe hanno menti acute, brillanti, un sesto senso ormai allenatissimo e, soprattutto, non hanno paura di portare avanti le indagini anche prendendo strade scomode, e se c'è da pestare i piedi a qualcuno in alto pur di raggiungere i propri scopi, lo fanno e basta, affrontando a muso duro rimproveri e punizioni.

Inizialmente le due colleghe - affiatate nonostante i continui battibecchi, conseguenza delle battutine caustiche e dell'irruenza di Rais - non vedono di buon occhio l'intromissione di un esterno, per quanto sia indiscutibilmente bravo. Ma col passare dei giorni avranno modo di ricredersi.

Vito è un uomo singolare, guardato dai colleghi con un misto di diffidenza e fascino. È un uomo avvenente, alto, dalle spalle imponenti, dall'aria esotica in virtù della sua pelle mulatta (sua madre era di origine africana); è un tipo schivo, tende a starsene per conto proprio e ad avere poche relazioni sociali; sua moglie l'ha lasciato e c'è una macchia nella sua carriera che continua a gettare ombre sul presente, nonostante l'uomo abbia dato prova, e molte volte, di essere valido ed esperto nel proprio lavoro.

Strega sa come farsi apprezzare dalle due donne, che comprendono subito le qualità non solo professionali ma ancor più umane del vicequestore, il quale mostra una grande pietas, un'ammirevole capacità empatica, una raffinatezza di pensiero che lo rende insostituibile per cercare di capire la personalità del Dentista, le caratteristiche del suo modus operandi, le possibili motivazioni che lo hanno spinto a montare questo pseudo tribunale virtuale e ad autoeleggersi giustiziere del popolo.

I tre poliziotti si mettono al lavoro per risalire all'identità del killer e ci riescono, in circostanze pericolose ed avventurose, ma anche molto strane.
Proprio quando sembra che abbiano preso l'uomo giusto, ecco che si accorgono che il successo dell'operazione è parziale: c'è un regista che muove gli attori di questo truculento show, c'è una mente intelligente, organizzata, lucidissima e diabolica dietro la serie di rapimenti, torture ed omicidi che via via continuano a verificarsi, e tutto sotto gli occhi stravolti della polizia e sotto quelli iniettati di sangue e spaventosamente avidi di "giustizia" della gente che, a migliaia, vota online e, ormai in preda a deliri di onnipotenza, comincia a sostenere a gran voce l'operato del Dentista, che considerano uno di loro, un uomo coraggioso che si ribella ad una Legge troppo spesso distratta, parziale, che nega giustizia agli oppressi per avvantaggiare i "mostri".
È un vero e proprio delirio, quello che ha messo perfidamente e scaltramente in atto il Dentista.

Attraverso percorsi rocamboleschi e pericolosi, amare sorprese ed improvvisi contrattempi, in un andare e venire tra l'aspra e misteriosa Sardegna e la chic e torbida Milano, i tre poliziotti dovranno mettere in gioco tutto per affrontare un imprendibile nemico dai mille volti, per tenere a freno l'inevitabile gogna mediatica (sostenuta e amplificata da un certo tipo di televisione che alimenta odio, sospetti, furore popolare) e misurarsi ciascuno con i fantasmi del proprio passato. 


Un colpo al cuore è un romanzo corposo (500 pagine che scorrono via senza che ci si distragga o ci si annoi)  ricco di adrenalina e colpi di scena, intrattiene mirabilmente il lettore che, sempre più coinvolto dal caso da risolvere e dagli aspetti umani ad esso collegati, si appassiona ai ragionamenti e alle ipotesi investigative portate avanti di volta in volta da Strega, Rais e Croce e segue con loro l'evoluzione delle vicende.

Sono tre protagonisti caratterialmente complessi, affascinanti, dalla personalità spiccata, accomunati dall'avere ciascuno i propri tormenti interiori, anche se tra Vito ed Eva c'è un'affinità maggiore, in quanto entrambi sono molto irrequieti e fragili, ma la presenza di Mara - col suo pragmatismo, la sua sicurezza e il suo sarcasmo che "alleggeriscono" un po' la tensione - rende il trio molto equilibrato al suo interno e l'affiatamento che c'è tra loro è uno dei punti di forza che li rendono una squadra formidabile.

È una lettura immersiva, trascinante, che regala molte emozioni, suscita domande, fa sorridere in certi momenti (non manca l'ironia e neanche l'attrazione sessuale, che si innesca fra loro tre), spinge a immedesimarsi nei personaggi, soddisfa chi, come me, ama sì il thriller e il noir ma sa anche che, leggendo Pulixi, non vi troverà solo quello perché l'Autore va ben oltre i confini di questi generi: se c'è una peculiarità che ritrovo sempre nei suoi romanzi e che mi conquista tutte le volte, è il suo saper indagare nell'animo dei  personaggi - positivi e negativi - e di presentarceli senza veli, in tutte le loro molteplici sfaccettature, nelle luci come nelle ombre.
Eva, Mara, Vito: sono certamente gli "eroi" di questo romanzo, coloro che mettono in campo tutte le proprie abilità investigative per consegnare i criminali alla giustizia, ma questo non li rende automaticamente irreprensibili, limpidi, senza macchia.
Sono tre esseri umani con tante fragilità, insicurezze, rimorsi, sensi di colpa, rimpianti, con qualche "buco nero" nell'anima che cercano di riempire in qualche modo per lenire le proprie solitudini.
Questa complessità tocca anche gli assassini cui danno la caccia: è vero, sono capaci di azioni turpi, indegne, ma nessuno di essi (come nessun uomo, del resto) è nato omicida, e se lo sono diventati, qualcosa è successo nelle loro vite e saperlo, forse non ci indurrà a giustificarli, ma a cercare di capire i meccanismi che sono scattati nella loro testa, sì.

Ormai chi mi segue e mi legge da un po' lo sa: per me leggere un romanzo di Piergiorgio Pulixi è una garanzia. Mi piacciono le ambientazioni e il loro fare da sfondo in maniera coerente e funzionale alle vicende e ai personaggi; il saper bilanciare il ritmo narrativo, ora più incalzante nelle scene movimentate, ora più lento quando si sofferma sul mondo interiore dei personaggi, i quali sono sempre ben strutturati e interessanti (secondari compresi); ho apprezzato molto la brevità dei capitoli, tanto più vista la mole del libro, perché questo ha conferito agilità e fluidità alla lettura; le battute finali sono intriganti e fanno sperare di rivedere ancora all'opera Strega-Rais-Croce. 

Concludo davvero (sono un caso disperato, lo so, ma quando un libro mi piace mi lascio andare), consigliandovi questo romanzo in quanto capace di intrattenere, di regalare momenti di evasione e svago pur toccando argomenti molto attuali (le crepe del sistema giuridico, il farsi giustizia da soli, il potere dei social network, l'influenza esercitata da certi brutti programmi tv nei cui salotti hanno luogo, ormai quotidianamente, dei veri e propri processi mediatici) e che credo attirino l'interesse di molti.

Vi lascio con la canzone di Mina che dà il titolo al libro.





 

Altri libri dell'autore recensiti sul blog:

lunedì 16 agosto 2021

Recensione: "Sanpa, madre amorosa e crudele" di Fabio Cantelli Anibaldi



Non molto tempo fa ho avuto modo di guardare la docu-serie SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano, e l'avevo apprezzata perchè, a mio modestissimo avviso, tiene fede al titolo, cioè quello di mettere in risalto gli aspetti positivi e quelli più critici, controversi, che inevitabilmente hanno gettato delle ombre sulla comunità e, in special modo, sul suo fondatore, Vincenzo Muccioli.

Più di recente, ho letto il libro di un uomo che a SanPa vi ha trascorso tra alti e bassi, tra fughe e ritorni, non un anno bensì dieci come ospite e due quale portavoce e responsabile dell'ufficio stampa della comunità (1983-1995).
Sto parlando di Fabio Cantelli Anibaldi, che già che 1996 (quindi non molto tempo dopo l'addio a San Patrignano) aveva pubblicato con Frassinelli "La quiete sotto la pelle", testo in cui desiderava trattare in primo luogo il tema della tossicodipendenza e quanto fosse difficile venirne a capo, e poi spiegare cosa realmente accadesse lì, a Sanpa. La testimonianza, però, a quel tempo, passò un po' sotto silenzio, fino a quando essa diviene oggetto di grande interesse per gli autori della docu-serie di Netflix.
Il libro viene quindi ripubblicato da Giunti nel 2021.


SANPA, MADRE AMOROSA E CRUDELE 
di Fabio Cantelli Anibaldi


Ed. Giunti
224
"San Patrignano era la madre psichica, madre che mi aveva partorito una seconda volta".

"...la storia della mia ultima estate a San Patrignano è stata la storia di un doppio dolore: la storia del dolore della malattia e della morte di una persona carissima...".


Che la comunità fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978 sia al centro di questo libro autobiografico, è innegabile; ma  tra queste pagine c’è anche molto altro. 

L'autore ci racconta la propria esperienza con la droga, sin dagli anni dell'adolescenza, il suo essere per anni continuamente al confine tra la vita e la morte, la difficoltà ad uscire da quel tunnel che lo stava risucchiando, il bisogno di cure per potervi uscire.

Il tossico vive un mortale circolo vizioso, che lo porta paradossalmente ad affezionarsi alla palude che lo inghiotte a poco a poco, anche perché non conosce altro mondo che quella, benché ne percepisca in modo tanto vivido e drammatico sulla propria pelle e sulla propria psiche, tutta la carica pericolosa e letale.

"In pochi giorni la tua esistenza e il tuo corpo si scarnificano, si riducono a pura pulsione, e quando perdi anche l’ultimo residuo di autocontrollo sopraggiungono le allucinazioni. Allora è come se il mondo ti ghignasse attorno, come se ogni cosa si prendesse gioco della tua impotenza."

Quando mette piede a San  Patrignano per la prima volta è un giorno d'autunno del 1983 e Cantelli si definisce "riluttante come un naufrago tratto a riva suo malgrado".

Non è stato semplice entrare, perché essere lì significava da una parte uscire dall'isolamento proprio della sua condizione di tossicomane, per poter imparare a condividere una nuova esperienza con altre persone, e dall'altra voleva dire ammettere ufficialmente, e senza più bugie, la triste realtà: quella di essere, appunto, un tossicodipendente.

Non è stato semplice né automatico neppure restare in comunità ed infatti Fabio ha tentato la fuga un numero imprecisato di volte; alcune fughe duravano una giornata o solo qualche ora, e terminavano con un ritorno perché, a differenza di altre comunità per tossici in cui era già stato, San Patrignano era la prima e la sola capace di esercitare su di lui attrattiva e smarrimento insieme. Ne subiva il fascino, forse intimamente ed inconsciamente convinto che, in un modo o nell'altro, quell’esperienza lo avrebbe cambiato per sempre. Ed è stato proprio così.

In questo memoir Cantelli ci dice come uno degli aspetti forse più sorprendenti di San Patrignano fosse la mancanza di un vero e proprio programma terapeutico:

"...il “metodo” San Patrignano era un aggiustare il percorso che accadeva dentro la via, una costante correzione della rotta esistenziale per condurre al punto dove avresti capito che percorso e obiettivo sono la medesima cosa."

Si è parlato molto di questi metodi, e la stessa serie Netflix in fondo ruota proprio attorno alla questione: "è ammissibile usare qualunque metodo (anche "discutibile", dal punto di vista etico) per far del bene?"

È vero che Cantelli scappa diverse volte da San Patrignano, ma c'è una fuga in particolare che sarà diversa da tutte le altre in quanto ad essa è collegata l'esperienza centrale della sua vita: essere rinchiuso da Muccioli per venti giorni in una stanza, da solo.

"Quella prigionia servì a separarmi dalla mia malattia; io solo potevo salvarmi. Ma perché ciò accadesse doveva nascere in me una dissociazione.
Io dovevo dissociarmi da me stesso, prendere le distanze dal male che mi ero fatto, dal lento omicidio col quale, da quattro anni, stavo cercando sistematicamente di farmi fuori."


L'Autore dichiara che lì "il confine tra terapia e violenza era sottilissimo, e per mantenersi in equilibrio su quella corda sospesa sul vuoto bisognava avere una profonda consapevolezza dei propri gesti. Bastava una parola male dosata o anche uno schiaffo che non trasmettesse nient’altro che la sua fisicità ed ecco che il “ciocco” non solo perdeva la sua efficacia terapeutica, ma rischiava di distruggere laddove si proponeva di costruire."

Attraverso il “ciocco” (una sorta di mega-rimprovero  pubblico che Muccioli rivolgeva agli ospiti che commettevano degli "sgarri") veniva pubblicamente giudicato il comportamento del malcapitato, e il fatto che l'umiliazione avvenisse davanti a tutti era per liberarlo dai suoi conflitti interiori, dai quali nessuno degli ospiti poteva guarire da solo perché, essendo ciascuno solidale col proprio male, nemmeno li riconosceva; ecco allora che si rendeva pubblico il privato e così lo si annullava, lo si negava nella sua realtà. 

Di Vincenzo Muccioli Fabio dice che avesse una personalità multiforme, flessibile e imprevedibile, un carattere straordinario, sconcertante; era un uomo che dava ai suoi ragazzi la certezza di essere amati, e sapeva trasmettere queste "potentissime iniezioni d'amore" come nessun altro. È questa certezza a salvare la vita dei tanti ragazzi che l’hanno conosciuto:  il trasporto di Vincenzo, la sua capacità di essere totalmente presente in un gesto, la fisicità straordinaria delle sue espressioni affettive.

Il quadro che emerge è quello di un uomo che è stato per la propria comunità un padre di famiglia, certo, ma anche un padre-padrone, come del resto ce n'erano tanti nelle famiglie italiane dell'epoca.
Cantelli racconta e, se da una parte lo fa con onestà, non nascondendo responsabilità e mancanze, dall'altra non si sottrae all'innegabile affetto provato per Vincenzo, con cui ha condiviso un pezzo fondamentale dell'esistenza, del proprio cammino di uomo: "Fabietto" non giudica colui che resta, al di là di luci ed ombre, la persona più importante della sua vita, oltre che la pietra miliare della"vecchia" SanPa, quella di prima della morte del suo fondatore - anche se in effetti i primi cambiamenti cominciarono già prima che Muccioli si ammalasse e morisse.

Tra queste pagine ovviamente si fa menzione dei processi affrontati da Muccioli e di tutte le burrasche che hanno investito San Patrignano negli anni '80-'90; in merito ad es. all’omicidio Maranzano e a tutte le presunte violenze o reclusioni successive al “processo delle catene” del 1984, scrive come essi, a suo avviso, siano accaduti in un periodo durante il quale Muccioli, non potendo più seguire personalmente tutti i programmi di recupero, aveva iniziato a concedere maggiori responsabilità ai collaboratori, e tra questi c'erano alcuni inadeguati, che si rendevano protagonisti di episodi di brutale violenza.


La scrittura di Cantelli è elegante, ricercata e lucidissima, senza però essere mai fredda o distaccata, tutt'altro: è molto introspettiva, diventa tra le sue mani strumento di ricerca di sé, della propria identità - che, negli anni della droga s'è ridotta in frammenti, si è dissolta per poi ricomporsi -, delle motivazioni, delle paure, del potere della droga sul proprio io.

Ho provato insieme a lui e per lui, per quel Fabio che in isolamento ha dovuto venire a patti con se stesso - con quell'io più profondo che aveva conosciuto l'abisso infernale della droga - orrore, pena, rabbia, impotenza, compassione, sollecitudine, speranza.

In questa personale ed intima testimonianza, egli ci racconta cosa significhi essere dipendenti e schiavi di eroina e cocaina, come ci si sente quando le si assume (quella sorta di delirio di onnipotenza di chi crede di essere immortale, un po' come i bambini che non sanno cosa sia la morte), cosa si prova in preda alle terribili e temibili crisi di astinenza.

Il testo è scorrevole e in buona parte piacevole da leggere, pur essendo pregno di citazioni filosofiche e letterarie, che personalmente trovo siano coerenti con la cultura e la profondità di pensiero dell'Autore, la cui sensibilità emerge in modo indiscutibile tra queste pagine in cui mette a nudo se stesso, ciò che è stato - le debolezze, gli errori commessi, le tante ombre che hanno preso possesso per anni della sua esistenza - e ciò che è diventato, soprattutto grazie a San Patrignano e a Muccioli.

Nonostante abbia del libro un giudizio positivo nel complesso, devo dire che avanzando nella lettura ho avvertito un po' eccessivo il taglio "filosofeggiante" datogli dall'Autore.

Io solitamente apprezzo l'attitudine a voler indagare nella psiche umana, e questa raffinata capacità introspettiva dell'autore non mi è dispiaciuta - l'ho vista come segno di ricchezza interiore, bellezza 
d'animo e raffinatezza di pensiero, oltre che di grande conoscenza - però, a un certo punto, è come se fossi arrivata ad un livello di saturazione.

Avrei preferito che - soprattutto dopo aver parlato di sé, del rapporto tossico-droga - nel trattare più strettamente di Sanpa, di Muccioli e delle vicende giudiziarie, l'Autore mettesse da parte la filosofia e la psicologia e scendesse nel cuore delle questioni; per carità, senza  disquisire dei fatti processuali come una Leosini di seconda mano, né per il gusto di soddisfare curiosità morbose e "pettegole" sulle violenze, le umiliazioni, sui misteriosi casi di suicidio ecc..., però 
non nego che mi sarei aspettata che ci si soffermasse di più (di come ha fatto) e in modo da dare il proprio punto di vista in maniera più approfondita e anche privilegiata (considerati ruolo, tempo di soggiorno, rapporto con Vincenzo...). 

Concludendo, mi è piaciuto sicuramente ed è un libro che mi sento di consigliare, ma mi sarebbe piaciuto di più se non ci fosse stato quell' "eccesso di filosofia" che ha fatto sì che da un certo momento sentissi meno coinvolgimento nella lettura.

Su Muccioli, cosa posso aggiungere che in tanti non abbiano già detto, e meglio di me? 
È innegabile che abbia fatto tanto per salvare moltissimi giovani schiavi della droga, ma non posso nascondere che certe testimonianze che ho letto (oltre a quanto narrato nella serie tv) mi abbiano turbata e i dubbi etici sulla giustezza dei metodi usati all'interno di questa "madre amorosa e crudele" restano.


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