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domenica 29 maggio 2022

** RECENSIONE ** NIENTE DI VERO di Veronica Raimo



Veronica Raimo (Verika per sua madre, Oca per suo padre) si racconta tra le pagine di questo romanzo candidato al Premio Strega 2022 e lo fa con schiettezza e dissacrante ironia, donando al lettore aneddoti esilaranti e divertenti sulla propria famiglia e su sé stessa, impegnata nell'universale compito di crescere e diventare adulta, e poiché è impossibile scrollarsi di dosso il bagaglio di ferite, incertezze, dubbi, fallimenti, smarrimenti che ognuno si porta dietro, tanto vale parlarne senza perdere il gusto di riderci su con acume e autoironia!
Per la serie: ridi che ti passa, e se non passa, facciamo che sia così, sennò si arriva al paradosso! 


NIENTE DI VERO 
di Veronica Raimo



Ed. Einaudi
176 pp

Occhi strizzatissimi e fronte corrugata nello sforzo di ricordare (o di fare qualcos'altro?): l'Autrice, in questo romanzo autobiografico, viaggia sui binari della memoria e alza il velo sulla propria storia, sulla propria famiglia, facendocene conoscere manie, abitudini, stranezze e ponendoci davanti a certi particolari tratti caratteriali o episodi che - a prescindere dal fatto che siano accaduti davvero o in parte o per nulla - fanno sorridere, e non poco.

Fa sorridere questa madre super apprensiva, che comincia ad andare in crisi se i figli non rispondono immediatamente ai suoi messaggi o chiamate, non limitandosi a tartassare loro, ma anche eventuali fidanzati o amici, pur di tranquillizzarsi una volta appreso che non è successo loro nulla di tragico.
Una madre che elogia il figlio maschio, l'enfant prodige di casa, mentre della figlia femmina si limita a un semplice "È brava a disegnare" (cosa che, tra l'altro, non corrisponde a realtà); una donna che spesso "se ne va in depressione" - in particolare quando discute col marito - e si chiude in casa ascoltando Radio 3.
In quei giorni in cui l'emicrania teneva a letto la donna, e fratello e sorella dovevano farsi andar bene il silenzio e la semioscurità delle tapparelle abbassate, la casa diventava "una palude di vaporosa angoscia".

Stare in casa ed evitare di incappare in brutta gente o fare cattive esperienze è stata una costante per Veronica e il fratello Christian, cui non era consentito andare, ad es., a giocare fuori in cortile con altri bambini, o semplicemente andare in bicicletta:

"Abbiamo passato l’infanzia chiusi dentro casa a romperci le palle. Era un’attività talmente intensa che presto divenne una posa esistenziale. Sapevamo annoiarci come nessun altro."

Mica solo la madre aveva le sue ubbie esagerate: pure il padre non scherzava.
Ha sempre avuto la mania di dividere le stanze costruendo muri, di sottoporre i figli a rituali di disinfezione attraverso infiniti rotoli di scottex ed alcool, di spaventare i compagni dei figli urlando loro in faccia e di commentare ogni situazione per lui incomprensibile o assurda sempre con la stessa frase: "Siamo arrivati al paradosso".

L'Autrice ci racconta dei primi approcci con l'altro sesso, della prima fuga da casa per raggiungere il ragazzo di cui era infatuata, dei rapporti con i parenti pugliesi di un paesino triste nel foggiano, del perfido sarcasmo della nonna Muccia circa le tettine di Veronica (altro che coppa di champagne: la tazzina del caffè era il metro di misura del seno piatto di quella nipotina esile e inappetente), le mani del nonno che, in un moto di solidarietà, stringevano quelle della nipote mentre questa si sforzava di "fare al bagno" - aneddoto che nel tempo, diventando un ricordo d'infanzia, assume una sorta di valore simbolico:

"Non ho mai più avuto una persona che mi stringesse le mani mentre pativo sulla tazza del cesso. Chiederlo non è facile. Mi sono restate solo la solitudine e l’inadeguatezza. Ogni volta che vado incontro a quell’afflizione, comincio a rileggere tutta la mia vita in questi termini: un conflitto costante tra abbandonare qualcosa e cercare di riprenderlo. La maledizione perpetua della terra di mezzo."

Ci parla del soggiorno a Berlino, di perdite, di scelte non facili ma prese con la consapevolezza di essere una donna libera che ha il diritto di decidere del proprio corpo, a prescindere da cosa dice l'orologio biologico, da cosa sogna sua madre per lei (la donna avrebbe voluti tanti figli - ma s'è dovuta accontentare di due - e ha ripiegato sulla figlia, sperando le desse dei nipoti) e dai giudizi non richiesti di un ginecologo che non sa farsi i fatti propri.

Come dicevo, si legge questo libro avendo il sorriso sulle labbra ed è quello che è successo a me, che mi sono lasciata trascinare dalla penna della Raimo, dal suo modo intelligente e disilluso di presentare questa famiglia "allegramente difettosa", di cui confessa le bizzarrie in modo comico ma non per questo superficiale, tutt'altro: scrivere è un modo per curare le ferite ridendo, perché dopotutto la vita è un po' commedia e un po' tragedia (più la prima che la seconda, si spera).

"«Una storia è un concetto ambiguo». 
Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti."

Durante la lettura le pagine scorrevano veloci, merito tanto dell'argomento in sé, così personale - la famiglia con i suoi disastri e quella sua unicità che ti porti dietro ovunque vai e per tutta la vita, il "diventare grandi", con tutto il suo carico di incertezza, dubbi, fallimenti, smarrimenti - quanto dello stile di scrittura, che mi è piaciuto molto perché pungente e brillante, buffo ma non frivolo, disincantato ma non spietato né distaccato; la scrittrice esprime molto bene quel senso di inadeguatezza e "indeterminatezza costante" che la caratterizza e che sembra accompagnarla da sempre, dovuta alla sensazione che gli altri facciano fatica a conoscerla davvero, a riconoscerla. 
Forse scrivere può servire a questo: a riconoscersi, a ritrovarsi o, perché no?, a reinventarsi.

"...è cosí che mi sento in ogni istante della mia vita: ma sí, dài, facciamo che sono io."

Sono rimasta colpita molto positivamente dalla prosa della Raimo, vorrei leggere altro di suo e intanto non mi resta che consigliarvelo. Tra gli otto candidati Strega che sono riuscita a leggere, questo rientra fra i tre che preferisco.


❤★❤★❤★❤★❤★❤★

Di seguito vi riporto alcune citazioni;  l'ultima ve la trascrivo perché quando ho letto quel passaggio sono scoppiata a ridere e ho pensato: "Dai, ma allora non sono l'unica matta che nel letto, nella smania nervosa di non riuscire a prendere sonno, si muove come se stesse andando in bicicletta o se volesse prendere a calci qualcuno (facendo sussultare il povero marito)!"


"Ogni esperienza per me ha bisogno di una precisa spiegazione linguistica o empirica, di un sussidiario illustrato con tanto di esempi, altrimenti mi sfugge il fatto che la stia vivendo."


"Nella mia vita non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Nemmeno mezzo vuoto. Lo vedo sempre sul punto di rovesciarsi. Oppure non lo vedo proprio. Non c’è nessun bicchiere. Non c’è niente. Sono di fronte a un tavolino brutto e sopra il nulla. Potrebbe sparire anche il tavolino. Anzi, è già sparito. Non mi resta l’assenza, ma la perplessità."


"Possono toglierci tutto tranne i nostri ricordi, si dice. Ma chi mai sarebbe interessato a questa espropriazione? La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo."


"Quando non riesco a dormire, continuo a rigirarmi nel letto seguendo una mia personale coreografia. Credendo di non essere vista, do libero sfogo a tutti i tic che ho cercato di tenere a bada durante il giorno. Poi puntualmente arriva l’eco dell’esasperazione. «Ti prego, Vero, la smetti di picchiettare il tallone sul materasso?»"

martedì 24 maggio 2022

RECENSIONE: ✔ DIVORZIO DI VELLUTO di Jana Karšaiová ✔



In Divorzio di velluto leggiamo una storia che non è solo quella personale - contrassegnata da ferite, delusioni, perdite, separazioni, litigi, tentativi di rinascere... - della protagonista, Katarìna, ma è anche la storia di uno strappo culturale, linguistico, politico, che - per quanto sia stato definito "di velluto", quindi non violento o "traumatico" - inevitabilmente si è riversato nelle vite dei singoli, influenzandole nel bene e nel male.

DIVORZIO DI VELLUTO
di Jana Karšaiová


Ed. Feltrinelli
160 pp
Era il 1992 quando la Cecoslovacchia si "dissolveva" per dar vita a due nuovi Paesi: la Slovacchia e la Repubblica ceca.

La giovane Katarìna è nata nel 1978 "in una Cecoslovacchia comunista appena matura che dopo quindici anni sarebbe morta per vedere sorgere dalle proprie ceneri due stati nuovi, una fenice moderna, gemella ma non troppo, un matrimonio il cui apice sarebbe stato il divorzio, battezzato anche quello di velluto. Come la rivoluzione dell’89, la Rivoluzione Gentile la chiamavano gli slovacchi, di Velluto, ribattevano i cechi."

Adesso che è una donna adulta e indipendente, torna a Bratislava (da Praga) in occasione delle festività natalizie, ma se ne pente immediatamente.

Come al solito, l'atmosfera in casa è greve, soffocante, resa tale dal rapporto conflittuale tra i suoi genitori - dalle personalità molto diverse - e da quello di Katarina stessa con la madre.

Infatti, se con suo padre ha sempre avuto un rapporto sereno, nonostante la debolezza caratteriale dell'uomo, che col tempo ha deciso di ripiegare nel demone dell'alcolismo le proprie delusioni ed amarezze, è con la madre che è difficile comunicare e interagire.

La donna è un tipo forte, rigido, poco affettuoso e anzi è sempre pronta a criticare le scelte e le condotte dei figli, in special modo di Katarìna (di cui, ad es., non ha mai approvato il matrimonio) e di Dora (più grande di Katka; hanno anche un fratello, Jojo), la figlia che se n'è andata di casa, trasferendosi negli Stati Uniti, non facendo più ritorno e non dando scarse notizie di sé; con lei, Katarìna è rimasta in contatto tramite email.

Ad aggiungere malumori nei giorni di festa è la notizia che Katarìna, con ostentata indifferenza, dà circa il proprio rapporto con Eugen: dice, infatti, che il marito se n'è andato di casa.

Si sono lasciati, dunque?

Katka non si sbilancia granché ma il lettore ne segue il filo dei ricordi e apprende in che modo i due si sono innamorati, la passione che li ha travolti, la decisione - forse troppo affrettata - di sposarsi in quattro e quattr'otto, e poi le tante difficoltà di integrarsi a Praga e, soprattutto, un episodio doloroso che ha creato uno strappo nel matrimonio, mandandolo in crisi.

Un dolore su cui Katarìna stende una coltre spessa di silenzio, soffrendone e chiudendosi in se stessa.

Andando avanti nella narrazione, quella che inizialmente può sembrare una voce narrante/protagonista fredda e chiusa dal punto di vista emozionale ed empatico, si rivela, piuttosto, come una giovane donna che è cresciuta in un contesto famigliare in cui i problemi e i dissidi venivano affrontati a suon di urla ed insulti da parte della madre, e a questo modo di fare ella ha imparato ad opporre silenzi impenetrabili ed atteggiamenti di chiusura per fronteggiare il vuoto attorno a sé:

"Sentiva un peso che le premeva sul petto. Lei non viveva i dolori in quel modo, li seppelliva, non sapeva come fare altrimenti."

"Il buio che si portava dentro era solo buio, sotto scorreva la vita, per tutti, anche per lei."

Oppressa e irritata dai musi della madre e dai suoi rimbrotti, la ragazza finisce per trascorrere il capodanno con l’amica Viera (con cui ha condiviso gli anni del liceo e la passione per l’Italia) a Bologna, dove questa si è trasferita grazie a una borsa di studio.
Le due amiche hanno modo di riavvicinarsi e di raccontarsi esperienze e ferite, e mentre  Katarína le parla di Eugen e del suo abbandono di due mesi prima con un biglietto sul tavolo della cucina, l'altra le racconta della liaison con Barbara, che era stata la loro insegnante di italiano.

Subito dopo Katarìna ed Eugen si rivedono in una circostanza molto triste. 

Questo incontro inaspettato ricucirà il loro rapporto in crisi o ne decreterà la fine in modo definitivo?

Il matrimonio (e la conseguente separazione) della slovacca Katarina con il ceco Eugen è un po' una raffigurazione (in piccolo) del rapporto tra due paesi e quindi tra due culture, due popoli, due lingue.

Jana Karšaiová intreccia le vicende della protagonista Katarìna con quelle del paese in cui è nata, la Slovacchia, e attraverso la voce asciutta e il racconto essenziale della protagonista, racconta com’è stato crescere sotto l’oppressione del regime comunista, la censura, subire la divisione del proprio paese, l’abolizione delle festività cattoliche, le code per la carne e per qualsiasi cosa; un elemento importante è l'amore per l’italiano, il cui studio diventa un modo per conquistare uno spazio personale, tutto per sé, dove potersi reinventare fuori da ogni condizionamento, ricrearsi attraverso l'uso di una lingua nuova.

"Divorzio di velluto" è un romanzo che affronta il tema della perdita delle proprie radici e della necessità di ricostruire sé stessi quando il mondo a cui si era abituati va praticamente in frantumi e ne viene fuori una realtà nuova (e vecchia insieme).

Quella di Katarìna è una storia di assenze e silenzi che pesano, di tradimenti, di desideri che si ha timore anche solo a pronunciare, di squarci che, per essere ricuciti, richiedono nuove risorse e la volontà di rinascere come un'araba fenice, superando la sensazione di sradicamento e di vivere come orfani di un passato chiuso per sempre.

Un romanzo che mi ha colpita positivamente per la scrittura profonda, che va dritta al punto senza risultare distaccata emotivamente; l'ascolto, poi, è stato oltremodo piacevole, considerato che a leggere il libro è la stessa autrice, Jana Karšaiová.

Un esordio letterario che merita attenzione.



sabato 21 maggio 2022

RECENSIONE: ✔ NOVA di Fabio Bacà ✔


Davide è un uomo abituato ad avere, nei confronti della vita, un approccio razionale, un occhio scientifico che cerca una spiegazione sensata a tutto. Fino a quando nelle sue giornate tranquille - cadenzate essenzialmente dal lavoro in ospedale e dalle relazioni famigliari - irrompono elementi imprevedibili, che lo mettono di fronte agli istinti più pericolosi e ingestibili che risiedono nella psiche di ogni uomo. Compreso se stesso.


NOVA
di Fabio Bacà



Ed. Adelphi
279 pp

"Questa è la sostanza di cui siamo fatti: sangue, furore e detriti di sogni al confine tra sonno e veglia. Dominare la violenza o esserne dominati."

Davide Ricci, appena sveglio, pensa alla morte.

È la prima informazione che il lettore apprende sul protagonista, un giovane uomo che lavora come neurochirurgo all'ospedale (siamo a Lucca), sposato con la bella Barbara - logopedista e super vegana - e padre del quattordicenne Tommaso.
Non è un tipo pessimista né ha particolari problemi, fatta eccezione per il rapporto poco sereno con il suo diretto superiore (il primario, dottor Martinelli) e con un vicino di casa, tale Massimo Lenci, che cova astio nei suoi confronti in quanto poco tempo prima Davide è riuscito a far chiudere il locale di cui l'uomo era proprietario perché durante la notte creava un gran baccano.

Per il resto, la vita di Davide procede fin troppo tranquilla, fino a quando non cominciano a verificarsi dei piccoli episodi che lo mettono in crisi.

Uno di questi  ha a che fare sempre col vicino arrabbiato e risentito, Lenci: un giorno, questi ferma Davide e gli parla..., gli parla con un tono apparentemente calmo ma il dottore "vede" nei suoi occhi, negli atteggiamenti, nel tono di voce, che l'altro vuol mandargli un messaggio ben preciso, presumibilmente per spaventarlo, altrimenti perché fargli sapere che in passato è arrivato a fare a botte con uno sconosciuto, a beccarsi una bottigliata in testa e a reagire in modo violento, tanto da beccarsi una denuncia?
Davide ascolta Lenci mentre gli fa questi discorsi strani e leggermente minacciosi, e resta sbigottito, un po' impaurito e soprattutto immobile, paralizzato. Non sa come reagire.

Questa reazione di immobilità non è isolata.
Una sera raggiunge moglie e figlio al ristorante, dove essi già sono lì ad attenderlo, e si ritrova davanti ad una scena bizzarra, incomprensibile, davanti alla quale egli resta paralizzato: un uomo che non conosce si è avvicinato al tavolo di Barbara e Tommaso e ha messo una mano sul braccio della donna, con fare prepotente. 
Chi è e cosa vuole da lei? Barbara lo conosce? 
Mentre mille domande gli affollano la mente, la situazione precipita: un altro individuo - anch'egli uno sconosciuto - interviene per "salvare" Barbara dalle avances insistenti e sgradevoli dell'altro, e lo fa con molta decisione, minacciando il "molestatore" con un coltello e intimandogli con fermezza di comportarsi bene.
Tutto questo sotto gli occhi scioccati di Barbara e Tommaso; quest'ultimo, poi, incrocia per qualche secondo lo sguardo del padre, che non interviene in soccorso di moglie e figlio ma lascia che le cose si "risolvano da sé".

Questi episodi cominciano a innescare una serie di domande, pensieri, dubbi su sé stesso: Davide Ricci, il neurochirurgo che salva vite umane e "cura i cervelli", è forse un vigliacco?
Sì, certo, lui odia ogni forma di violenza e mai gli verrebbe in mente di risolvere una qualsivoglia questione con le botte, ma addirittura restare impassibili e fermi davanti a un tizio che dà fastidio alla tua consorte è troppo pure per un pacifista come lui!

E Davide sarà pure uno che esita ad agire, ma a pensare e ripensare è bravissimo, per cui comincia a viaggiare con i ricordi e la mente gli porta a galla altri momenti del passato in cui, davanti a gesti - anche velati e non proprio espliciti - di prepotenza e/o aggressività, lui ha reagito con mollezza, come se volesse nascondersi o scappare, tutto pur di non affrontare a viso aperto il prepotente di turno.

Cosa indicano di lui episodi come questi? Che è un vile, un fifone senza attributi?

Quando vede suo figlio fare amicizia con il figlio di Massimo Lenci, vorrebbe poter intervenire perché quel ragazzo strano di nome Giovanni - che pare abbia trascorso gli ultimi quattro anni lontano dal padre, in Australia - lasci in pace suo figlio, ma in realtà non fa nulla.

La svolta arriva attraverso un uomo di nome Diego, il quale altri non è che il ragazzo che aveva aiutato Barbara e Tommaso al ristorante.
Diego e Davide diventano amici e il primo dà al secondo altri occhi con cui guardare dentro sé stesso: non più quelli pacati e razionali del medico che si accosta al cervello come ad una macchina perfetta e che egli ha imparato a conoscere tramite la propria carriera accademica e professionale.
Ciò che Diego fa, essenzialmente, è spingere Davide a porsi delle domande importanti su quei meccanismi del cervello più oscuri, latenti, da cui derivano impulsi che da sempre si preferisce soffocare perché ritenuti anticonvenzionali, non conformi alle norme del vivere civile.

Diego, a sua volta, gli parla con molta franchezza di sé, della propria infanzia, dei lutti subiti, delle esperienze fatte e di ciò che è adesso, del percorso che ha fatto per arrivare alle consapevolezze odierne e che lo rendono, agli occhi ammirati di Davide, una sorta di maestro, di mentore.

"La società moderna reprime gli istinti che non comprende o che non le fanno comodo. Inibisce l’aggressività individuale perché ritiene che confligga con l’idea di civiltà. "

"...la violenza è un potere ambiguo, che ha bisogno di essere controllato: se non lo domini, dominerà te. E non puoi controllare qualcosa che neghi a priori. Non puoi gestire una parte di te che rifiuti persino di concepire. Per convivere con il Potere devi nutrirlo e addomesticarlo."

«Fidati di me, dottore. Impara a cavalcare il tuo Potere, o te ne pentirai. Impara a domarlo, e ti porterà più lontano di quanto immagini».

Diego acquisisce una sicurezza di sé che non aveva mai posseduto e questo lo porta a cambiare negli atteggiamenti e nei discorsi, tanto che pure Barbara se ne accorge e non vede di buon occhio l'amicizia con quel Diego, che lei trova enigmatico, inquietante e con una cattiva influenza sul marito.

Ma le nuove certezze del dottor Ricci sull'uso della violenza, sulla necessità di riconoscere i propri istinti più meschini e aggressivi, dovranno fare i conti con l'imprevedibilità che si cela dietro le vite e i cervelli altrui.
Lui, un medico che ha fatto della conoscenza del cervello il perno della propria vita, si scontrerà in modo drammatico e oltremodo impetuoso con le conseguenze di una carica di violenza ingestibile, feroce, frutto di problematiche mentali molto serie e dagli effetti dolorosi.

In poco tempo l'esistenza di Davide Ricci viene letteralmente sconvolta da gesti intrisi di follia umana, dalla paura che ai propri cari possa esser fatto del male, ma a stravolgerlo dentro ed irreversibilmente sarà la contezza di come anch'egli - benché sia e abbia sempre vissuto come una persona gentile, perbene, dal carattere docile - custodisca in sé stesso i germi dell'aggressività e della violenza.
Non solo, ma realizza che, per quanto la violenza sia ripugnante, inconcepibile, vile, disumana, essa sia al contempo inevitabile, efficace, capace di farlo sentire vivo e dunque "profondamente, indissolubilmente umana."

Che bella scoperta questo libro di Bacà, davvero sorprendente, per trama, registro linguistico, psicologia dei personaggi!
Ho trovato la scrittura molto matura, estremamente affascinante, in particolare perché si avvale di un linguaggio elaborato, ricco, specifico (appartenente all'ambito medico per lo più), chirurgicoraffinato che però ha il grandissimo pregio di risultare molto scorrevole e piacevole, mai pesante né tantomeno artificioso; la lettura fila fluida e accattivante dal primo rigo, l'Autore sa creare la giusta tensione emotiva nei momenti clou, affronta un tema interessante e attuale qual è quello della violenza, sia legata ad es. ai problemi di tipo psichiatrico, sia in quanto conseguenza di istinti presenti nella natura umana, e che non tutte le persone imparano a gestire nel medesimo modo e/o nel modo giusto.

Insomma, io ho amato questo libro, che per quanto mi riguarda - ad oggi - è tra quelli che preferisco tra i candidati allo Strega letti (ahimè, non tutti), insieme a "E poi saremo salvi".

Assolutamente consigliato!!

lunedì 16 maggio 2022

RECENSIONE: ** RANDAGI di Marco Amerighi **



Riservato, poco socievole e con mille paure addosso, Pietro Benati - figlio, nipote e fratello minore di uomini decisamente più in gamba di lui -, si sente inetto, inadeguato, fuori posto in mezzo alla gente e ovunque.
La tentazione di restarsene da solo e chiuso in casa è forte, eppure anche per uno come lui arriva il momento di lasciarsi alle spalle la tranquillità sonnacchiosa e apatica di casa, per imboccare nuove strade e trovare il proprio posticino nel mondo.


RANDAGI
di Marco Amerighi


Ed. Bollati Boringhieri
400 pp
Sarà vero che sulla nostra famiglia pende una maledizione?, si chiede il giovane Pietro.
Sua madre Tiziana così gli ha sempre detto:

"...tutti i maschi della sua famiglia, prima o poi, tagliavano la corda; solo che lui non riusciva a farsene una ragione. Possibile che nel loro sangue si tramandasse un gene che li obbligava a dileguarsi? E perché una volta tornati a casa (se avevano fortuna), non spiegavano dov’erano stati in quella parentesi di un mese o un anno? Dove avevano dormito? Con chi? Non gli erano mancati i loro cari – non gli era mancato lui?"

Accadde a nonno Furio, il il 25 aprile del 1936, quando combatteva in Etiopia, che però poi a casa ci è tornato comunque.
E, come da maledetta tradizione, a quasi cinquant’anni di distanza dalla prima sparizione, nel febbraio del 1988 succede pure al papà di Pietro, lo scommettitore incallito Berto, che dopo un mese di assenza da casa ritorna con il mignolo destro mozzato (da qui il soprannome, che gli resterà a vita: "il Mutilo").

Ma se né il nonno soldato ed eroe di guerra né quel padre sì scaltro e carismatico ma anche imbroglione ed invischiato in affari truffaldini, possono essere assurti come esempi di vita, ad essere il faro del giovane Benati è il suo fratello maggiore: Tommaso, detto T.

".... E forse era proprio quel qualcosa che negli anni dell’adolescenza si era sfogato su Pietro e l’aveva infiacchito in una postura intimidita e riservata, le mani in tasca e gli occhi bassi, come se andasse per il mondo gravato da chissà quale colpa imperdonabile. L’unica àncora della sua vita era T."

Tommaso è ciò che lui non sarà mai: è perfetto (bello, affascinante, simpatico, intelligente, spiritoso), tutti i talenti possibili ce li ha lui ed eccelle in tutto - lo sport, lo studio, le ragazze.
Però non se la tira ed è un bravo fratello, ed è anche colui che lo sprona costantemente ad uscire dal proprio guscio, a coltivare un interesse, a darsi da fare e a non mettere radici in cameretta giocando ai videogames.

E mentre dalla sua casa a Pisa, affacciata sulla Torre pendente, si chiede se capiterà anche a lui di scomparire nonostante sia un giovanotto privo di qualità, Pietro prova ad inseguire un sogno: ama suonare la chitarra e vorrebbe sfondare nel mondo della musica; per tale ragione, si è affidato ad un manager che, nonostante lo accusi di avere tratti da capra autistica, dice di credere nelle sue capacità di bravo chitarrista e di lavorare per trovargli buoni contratti.
Cosa che, però, non accade e infatti il disincantato Pietro dovrà darsi una mossa;  quando uno scandalo travolge la famiglia (a causa di affari illegali commessi dal Mutilo, che viene arrestato) e Tommaso lascia l'Italia per andare negli States, Pietro si convince che il suo turno sia ormai giunto.

Incoraggiato da T. e grazie all'Erasmus, si trasferisce a Madrid ma, benché ci metta tanto impegno, gli sembra sempre di essere fermo, in un'eterna situazione di stallo, di immobilità.

"...rifiutare l’elaborazione, restare uguali a se stessi, chiudersi a riccio in una bolla incorruttibile. Magari era quello il suo vero talento, lo scopo della sua esistenza. Piantare i piedi."

La sua maledizione non era sparire ma essere nato difettoso ("un difetto sottopelle e invisibile che, invece di aiutarlo a distinguersi, lo avrebbe condannato a una vita di mortificazioni"), come se dentro di lui si nascondesse qualcosa che non girava nel verso giusto.

Una volta fuori dal nido famigliare, lontano da quel padre truffatore e da una madre ansiosa ed apprensiva al limite dell'ipocondria, Pietro prova a dare una direzione alla sua vita, che però sembra proseguire come un incomprensibile avvicendarsi di fallimenti e delusioni. 

Fino a quando nelle sue giornate prive di scossoni irrompono due coetanei che sono caratterialmente il suo opposto: Laurent, un giovane francese più indeciso di lui su tutto e che diventa anche il suo coinquilino, e la complicata e sarcastica Dora, appassionata di film horror, della quale s’innamora. 

La sua vita a Madrid prosegue ma il legame che lo unisce all'adorato fratello resta integro e i due si tengono in contatto tramite email, in cui Tommaso gli racconta le proprie mille (dis)avventure, gli amori, e anche se non mancano i battibecchi a distanza, il rapporto fraterno resterà sempre un porto sicuro.

I due amici di Pietro sono creature randagie, raminghe e confuse come, se non più, di lui: Laurent è un bisessuale che non osa confessarlo ai suoi e che, invece di studiare all'Università (come racconta, mentendo, ai genitori), fa il gigolò, accompagnandosi a signore stagionate e "rallegrando" le nottate con alcol e droghe sintetiche. Però si rivelerà un amico fedele e presente per Pietro, quando questi ne avrà bisogno.

Dal canto suo, Dora è incasinata, imprevedibile, con una vita disordinata, un rapporto conflittuale con la madre, il dolore, mai superato, per quel padre morto suicida quando lei era una bambina, le relazioni sentimentali sbagliate. Ma malgrado sembri una squinternata sempre sull'orlo di un crollo emotivo, Dora osserva con attenzione il giovane Benati e sembra capirlo come forse solo T. è in grado di fare:

"Pietro, il bravo ragazzo che non dice mai nulla di sconveniente... come potresti? Non sei sincero, non ti fidi di nessuno, deleghi agli altri qualunque decisione sulla tua vita. Non c’è niente che ti tenga sveglio a parte le tue paure. Esiste solo quello che devi fare perché è quello che gli altri si aspettano che tu faccia"

...gli dice con schiettezza la ragazza, dandone un ritratto forse poco lusinghiero ma, ahilui, reale.

In compagnia di questi amici strampalati e un po' matti, senza freni e regole cui sottostare, finalmente Pietro si accende e qualcosa in lui comincia a cambiare, ad evolvere.

Dopotutto, proveniva pur sempre da una famiglia molto singolare, abituata a perdere pezzi sotto le mille tempeste della vita: eppure c'era in questi maschi Benati un che di prodigioso, di meravigliosamente ostinato che impediva loro di sgretolarsi e perdersi definitivamente.

I tre amici appartengono ad una generazione di randagi, di spaesati, privati di punti di riferimento, che si fiutano come i cani, si riconoscono e capiscono di non essere soli ma che, anzi, insieme possono unire le forze perché il comune unico punto ferma diventa il loro legame d'amicizia.

A ricordarci come la Storia stessa, nel suo svolgersi, inevitabilmente contribuisca a scombinare le esistenze dei singoli (oltre che delle collettività), ci pensano tre episodi emblematici (il G8 di Genova, gli attentati terroristici a Madrid del 2004 e  la rivoluzione studentesca del 2007/2008, nota come "onda universitaria"), che si inseriscono nella storia personale di Pietro e fanno da spartiacque non solo nella sua vita ma, in generale, in quelle dei ragazzi di quella generazione, con le loro illusioni infrante e la necessità di lottare per delle cause importanti.

A un certo punto, nel suo percorso esistenziale già di per sé sempre in salita, Pietro prenderà una bella botta, che lo butterà giù, inducendolo a pensare che l'unica cosa che gli resti sia gettare la spugna, ancorarsi al suo dolore e scomparire nel mare profondo della solitudine, lasciandosi trascinare dalla corrente.

Il protagonista è un po' l'emblema di tanti ragazzi che, per varie ragioni, si vedono quasi costretti a lasciare il proprio paese e la famiglia, per iniziare un cammino di crescita personale, per poi, non di rado, tornare da dove sono partiti.

"Randagi" è un romanzo di formazione, generazionale, che affronta temi a noi contemporanei e che ha al centro questa gioventù fragile, tradita, delusa, sradicata dal mondo, ma anche coraggiosa e per nulla disposta a dirsi sconfitta.

Nel complesso, fatta eccezione per alcuni passaggi che ho trovato meno coinvolgenti e in cui il mio livello di attenzione è un po' calato, di questo romanzo ho apprezzato la ricchezza, tanto della trama  in sé quanto dei personaggi.
Questi ultimi sono vivaci e particolari, sopra le righe, pieni di fragilità e problemi (il che fa sì che il lettore provi per essi molta simpatia) e agiscono all'interno di una struttura narrativa elaborata, dalle molte sfumature -  drammatica e comica, ironica e surreale - e che ci restituisce tutta la complessità di un'intera generazione.

Un candidato Strega interessante.


martedì 26 aprile 2022

// RECENSIONE \\ MORDI E FUGGI di Alessandro Bertante



Quando pensiamo agli "anni di piombo" è inevitabile che ci passino davanti agli occhi immagini di attentati terroristici, bombe, sequestri..., che hanno contraddistinto gli anni Settanta, quando gruppi eversivi di destra e sinistra hanno messo in atto attentati, stragi e uccisioni per attaccare lo Stato e le sue istituzioni.
Un periodo in cui molti ragazzi hanno scelto di partecipare alla lotta armata d'ispirazione comunista, infatuati dalla convinzione di produrre un cambiamento e di sollevare le masse oppresse dal capitalismo.


MORDI E FUGGI 
di Alessandro Bertante


Ed. Baldini+Castoldi
208 pp
Alberto Boscolo è un giovanotto di vent'anni che studia all'università (alla Statale, Milano); la sua è una famiglia come tante, né troppo ricca né troppo povera.
Ma la carriera universitaria non è il suo destino, perché il suo sogno è di tipo politico e sociale, e il periodo in cui sta crescendo è quello "ideale" per far maturare certi ideali politici.
La "bufera del Sessantotto" aveva reso gli studenti finalmente pronti ad appoggiare le lotte operaie: se gli operai volevano più potere e contare politicamente nelle scelte dello Stato, allora bisognava organizzarsi per marciare con loro, uniti nella stessa battaglia.

È il 1969. Le università vengono occupate da gruppi studenteschi, le strade da cortei e nelle fabbriche scoppiano tensioni. 

"Gli anni Sessanta ci avevano raccontato che potevamo avere tutto, che il mondo stava cambiando e che saremmo stati proprio noi la generazione motore del cambiamento. A quella promessa ci credevamo, eravamo certi che stesse accadendo qualcosa, era nell’aria ed era ovunque ti girassi, potevi sentirla sulla pelle. Dovevamo essere pronti a coglierla, dovevamo stare in strada, la strada sporca e puzzolente, la strada assassina. Cercavamo l’ideale ma cercavamo anche l’avventura e la strada era l’unico luogo dove potessimo trovarla."

Il 12 dicembre accade qualcosa che gli italiani non dimenticheranno più: la strage di piazza Fontana; quelle bombe erano un atto di guerra e non c'è guerra che non preveda l'uso delle armi.

Intanto, deluso dall'inconcludenza del Movimento Studentesco al quale si era unito, l'irrequieto Alberto si avvicina a un altro gruppo che, poco tempo dopo, prenderà contorni sempre più definiti, divenendo a poco a poco il nucleo delle Brigate Rosse. 

Allontanandosi dalla famiglia, dai vecchi compagni e da Anita, la ragazza con cui ha una non meglio definita relazione (di sesso, mista a sentimenti non dichiarati), Alberto partecipa sempre più spesso alle azioni dimostrative, alle rapine a banche e portavalori (a scopo di autofinanziare la propria "rivoluzione") e anche al primo attentato incendiario.

Eppure, l'irrequietezza e l'insoddisfazione non lo mollano: manca qualcosa alla loro lotta. 

La rivoluzione sociale alla quale vuol partecipare in prima linea non deve ridursi a qualcosa di astratto, di idealizzato, ma deve farsi sentire e forte, provocare cambiamenti, e questi non arrivano attraverso manifestazioni e lotte pacifiche, e soprattutto non senza affrontare le resistenze da parte del "nemico".

In particolare, dopo l’assassinio di Pino Pinelli, emerge con più chiarezza come ogni azione rivoluzionaria avrebbe dovuto vedersela con questo nemico, vale a dire con servitori dello Stato implacabili, in grado di condizionare ogni decisione - politica, giudiziaria - anche attraverso mezzi poco trasparenti. Anche lo Stato borghese sa ammazzare, se non con le bombe, dentro gli uffici della questura. E la morte di Pinelli era una dimostrazione di come lo Stato potesse commettere delitti e restare impunito. 
Non ci si può far uccidere senza combattere.

"Io per primo non sarei rimasto a guardare. Se ti ammazzano in questo modo salta ogni codice di comportamento, ogni legge non scritta che regola i rapporti fra gli uomini. Se ti ammazzano in questo modo l’unica risposta è l’odio. Ma l’odio da solo non serve a cambiare le cose, bisogna anche saperlo incanalare nella giusta direzione. "

Alberto sta cambiando dentro, giorno dopo giorno; si rende conto di essersi "incattivito" e che gli eventuali dubbi ed incertezze, che fino a quel momento lo avevano frenato, stavano sparendo.

Se lo Stato è violento, allora lui e i compagni avrebbero risposto nella medesima maniera, con violenza:

"colpire i padroni, i suoi servi fascisti, la borghesia e i suoi aguzzini in uniforme. Io, uno studentame qualsiasi, un aspirante intellettuale piccolo borghese, grazie all’enormità della loro violenza ero diventato un combattente pronto alla lotta. Il campo di battaglia sarebbe stata la metropoli."

Così il gruppo organizza il sequestro lampo di Idalgo Macchiarini, un dirigente della Sit-Siemens, e lo sottopone al primo processo proletario. 
Si firmano con il loro simbolo (stella a cinque punta inserita in un cerchio) e il nome "Brigate Rosse" comincia a comparire sulle testate giornalistiche e in bocca alla gente, agli operai.

Ecco, gli operai, i lavoratori: era importante che essi sentissero le BR come loro alleate; era fondamentale che ciò che esse teorizzavano nei comunicati poi fosse applicabile nella pratica e che ogni promessa venisse mantenuta. E questo dovevano capirlo anche i padroni, i dirigenti, i capitalisti.

Le Brigate Rosse erano l’avanguardia della rivoluzione in Italia; il loro motto era una celebre massima attribuita a Mao Zedong: 

"Mordi e fuggi.
Niente resterà impunito.
Colpirne uno per educarne cento.
Tutto il potere al popolo."



Volevano aggredire il presente, proporsi come alternativa concreta e reale alla politica rinunciataria dei sindacati.
E per farlo l'unica via era la scelta armata.

Il lettore segue Alberto nella sua vita movimentata, che lo fa crescere in fretta e che lo rende arrabbiato, pieno di rancore, con una tensione emotiva che va crescendo e che lo rende quasi estraneo agli occhi di chi l'ha conosciuto quando era uno studente.

Alberto ha un fuoco dentro, un'urgenza - di essere qualcuno e di agire spinto da ideali - che lo spinge a far qualcosa di forte pur di lasciare un segno per quelli che verranno dopo.

Non si rende conto - o forse non vuole, perché una volta imboccate certe strade, tornare indietro è molto difficile - che il rischio è, come gli dice un amico (che evidentemente ha un pensiero diverso dal suo) che il passo per diventare "peggio dei fascisti" è breve.
Ma Alberto è accecato ed è irriconoscibile.

Far parte delle BR lo cambia: non c'è più posto per lo studente stralunato e gentile che i suoi amici di un tempo avevano accolto a braccia aperte: ora è un'altra persona, come se una forza tanto misteriosa quanto pericolosa si fosse impossessata di lui.

Aveva imboccato la strada della violenza, della rivoluzione armata e, una volta dentro quel percorso, Alberto scopre di non avere nessuno scrupolo morale, nessun "retropensiero borghese"  che potesse frenarlo e indurlo a non commettere un'azione criminale.
Del resto, "quando punti una pistola, sai che prima o poi dovrai sparare."

Cosa riserverà il futuro al giovane Alberto, che a ventidue anni sembra avere sulle spalle molti più anni?
A un certo punto sarà costretto a nascondersi e a interrogarsi sulle proprie scelte.

"Mi chiedevo se potesse esistere una vita senza sogno e senza avventura. Senza un pensiero dominante che costringesse le persone almeno per una volta a fare delle scelte inopportune, a imboccare una strada diversa."

Tra queste pagine Alessandro Bertante ci racconta una vicenda umana che è sì individuale (attraverso il punto di vista del protagonista) ma anche sociale, propria di un periodo storico ben preciso, quella stagione drammatica tristemente nota come "anni di piombo".

La storia narrata è un mix di finzione narrativa e cronaca; personalmente il contesto di riferimento lo trovo interessante e senza dubbio gli eventi in cui il protagonista, Alberto, si ritrova coinvolto in prima linea sono movimentati, avvincenti, avventurosi e in lui c'è una sincera passione politica, una convinta adesione a un'ideologia per lui giusta, grazie alla quale egli vuol lasciare un'impronta nella società.
Seguiamo, quindi, la sua evoluzione, il suo cambiamento, questo passare dall'essere un ragazzo di buona famiglia ad un membro delle BR, pronto a lanciarsi in atti terroristici.
Rimpianti? Pentimenti? Tornerà indietro deluso o impaurito dall'idea di essere individuato e incriminato?

Ho ascoltato la narrazione con sufficiente attenzione, grazie a uno stile di scrittura asciutto, lineare, diretto; forse ciò che mi è mancato è stato il giusto grado di coinvolgimento - a livello empatico - con il giovane protagonista, del quale però emerge tutta l'inquietudine, la fame di cambiare il mondo, di far sì che la classe proletaria di quegli anni si rendesse conto della necessità di insorgere contro i capitalisti e lo Stato - che non va incontro alle esigenze delle gente comune -, e queste sue convinzioni hanno un che di genuino (nonostante tutto la discutibilità delle sue scelte e azionied incosciente insieme.
Alberto sembra davvero convinto di ciò che fa e delle idee in cui crede, ma è pur sempre un ragazzo, e da giovani è facile buttarsi anima e corpo in un progetto rivoluzionario che sarà pure entusiasmante, ma che è altresì molto complesso, pieno di contraddizioni e di certo più grande di quanto lui sia effettivamente in grado di gestire.

Questo romanzo sulle Brigate Rosse non si pone l'obiettivo di dare risposte o giudizi morali ma è comunque in grado di stimolare riflessioni e domande su uno dei periodi più drammatici della recente storia italiana.

Non posso dire che mi abbia travolta (per la ragione suddetta), ma lo consiglio a chi cerca storie inserite in periodi/contesti reali e che narrano fatti di cronaca.

giovedì 21 aprile 2022

[[ RECENSIONE ]] ★★ QUEL MALEDETTO VRONSKIJ di Claudio Piersanti ★★

 

Giovanni viene lasciato da sua moglie di punto in bianco ma, al di là dei dubbi, dei sospetti e delle mille domande che lo tormentano notte e giorno sui perché di questo abbandono, egli resta teneramente testardo e profondamente innamorato, e l'amore forte e sincero per la sua compagna di vita conquista il lettore per la tenacia, la dolcezza e l'autenticità.


QUEL MALEDETTO VRONSKIJ 
di Claudio Piersanti



Rizzoli
240 pp
"La felicità è leggerezza, è una cosa sottile, che se la chiami con il suo nome scompare. Dev’essere inconsapevole e senza sforzo. I suoi pensieri erano aggrappati a un concetto semplice e chiaro: che vita felice era stata la sua. Più bella di quella di un re."

Giovanni e Giulia sono una coppia affiatata e ancora molto innamorata dopo ventisei anni di matrimonio e una figlia (Lisa, che vive all'estero e che i genitori chiamano affettuosamente "la Piccola").

Lui, dopo essere stato licenziato come caporeparto in una storica azienda editoriale, si è rimesso in gioco come tipografo.
Lo conoscono tutti come un uomo gentile, sempre col sorriso stampato in faccia, che - Giovanni né è consapevole - spesso è più "di circostanza" che sincero.
Ma tant'è, e Giovanni è lontano dall'essere perfetto, nonostante sia un abitudinario amante dell'ordine e abbia in antipatia la sciatteria di ogni genere, compresa quella di chi scrive senza avvedersi degli errori che fa e, quindi, senza correggerli.
A memoria di questo suo "odio"verso gli errori c'è una scritta in tipografia, in bella vista: UN'ASINO, che fa da promemoria per ricordare che no, non è detto che gli errori arricchiscano, tutt'altro.

"gli errori dicono sempre la verità, dichiarano la tua ignoranza ma anche la tua disperazione."

Ma Giovanni è sereno e felice: ormai, dopo cinque anni dal licenziamento immotivato, è soddisfatto del proprio lavoro, ha una moglie meravigliosa accanto e pochi ma sinceri amici, come il caro e loquace Gino (sempre pronto a raccontargli dei quotidiani litigi con la bella moglie Nina) e Bruna, montanara spilungona e di poche parole (però quando parla, va dritta al sodo),sempre presente per Giovanni, che poi è suo cugino.

Certo, l'ombra della malattia e la paura della morte incupiscono spesso l'umore di Giulia, che tempo prima ha affrontato operazioni e cure per un brutto male, ma la coppia vive ogni giorno come un dono ed è felice per ogni piccolo gesto quotidiano: fare colazione insieme e senza fretta, scambiarsi un bacio volante prima di andare al lavoro e un altro più lungo la sera, quando lui torna dalla tipografia con le dita sporche d’inchiostro; stare abbracciati in giardino, tra i fiori che lei cura e innaffia con tanto amore e costanza. 

Si conoscono troppo bene, ormai, e ognuno scorge nel volto o nei silenzi dell'altro anche i più piccoli segnali di preoccupazione.
Eppure, nonostante sia un tipo precisino e metodico, l'errore scappa anche al buon Giovanni.
Semplicemente e senza che lui potesse prevederlo, accade che in un giorno come gli altri Giulia esca di casa con la valigia per andarsene e non farvi ritorno.
Dove, Giovanni non lo sa.
Perché? 

“Perdonami, sono tanto stanca. Non mi cercare.” 

Queste le uniche parole di Giulia, prima di scomparire nel nulla e scritte su una busta. 
Il marito Giovanni è interdetto, smarrito e, nella loro casa improvvisamente vuota, si sente un naufrago lontano dal porto sicuro e ormai in balia delle onde.

Cosa è successo? Si è spezzato quel dolce incantesimo che li teneva uniti? Perché? Quali sono le sue colpe?

Le domande che affollano la mente di uno sgomento e perplesso Giovanni sono tante, ma lui si sforza di condurre la vita di prima, senza interrompere le attività di sempre, che poi convergono tutte nella tipografia.
Continua a stampare, impacchettare, rilegare, accogliere clienti e commissioni; mangia poco, pian piano comincia a tornare a casa sempre meno (solo per fare la lavatrice) e preferisce fare della tipografia il proprio piccolo ma comodo rifugio.

"Gli piaceva starsene in silenzio in completa solitudine e anche in quel momento avrebbe preferito essere nella sua tana, ma gli umani devono parlare ogni tanto, scambiare qualche sorriso."

Il sorriso gentile è sempre sul suo viso, quando occorre, ma parla ancora meno di prima e preferisce starsene per conto suo; del resto, alle domande preoccupate e curiose di Gino e Bruna cosa dovrebbe mai rispondere? Che ne sa, lui, dei motivi che hanno spinto Giulia a lasciarlo senza dirgli neppure ba?

Confuso, triste, non privo di sensi di colpa, Giovanni si lascia un po' andare e il giardino della moglie, lasciato incolto e inaridito, ben rappresenta quello che c'è nel suo cuore e, ormai, nelle sue giornate.

"Con Giulia aveva tutto un suo senso, andata via lei niente lo aveva più."


Era colpa sua se il suo mondo stava svanendo? Cos'era stata la sua vita fino a quel momento: una lunga serie di piccoli miracoli salvifici? Un grande fallimento?

"Il suo mondo stava morendo nell’indifferenza generale, e questo era normale: era iniziata l’epoca degli errori. Un’asino con l’apostrofo aveva vinto."

Forse Giulia si era stancata di lui, del suo essere così... comune, noioso, banale, di una gentilezza stucchevole, privo di ambizioni?
Era fuggita da una vita senza stimoli? Dalla mediocrità della loro esistenza piccolo borghese?

Giovanni è in cerca di risposte e per caso, spulciando tra i libri della moglie, tra le mani gli capita un classico: Anna Karenina
Comincia a leggere; la mole non lo spaventa (tanto, chi gli corre dietro?) e, nell'apprendere le vicende amorose della protagonista con il suo bel Vronskij, si convince che tra quelle pagine si celi un segreto.
Anzi, il segreto, quello di sua moglie.
E se Giulia se ne fosse andata perché aveva un amante?
Può essere, no? Un amante focoso, arrogante e sicuro di sé come quel maledetto Vronskij, che ha ammaliato la sua Giulia e gliel'ha portata via.

Geloso e amareggiato, si chiude in tipografia e prende una decisione bizzarra ma, a modo suo, catartica, terapeutica quasi: copiare al computer tutto il romanzo di Tolstoj e farne una copia unica, scritta su carta pregiata, rilegata in pelle.

È la sua dichiarazione d'amore per Giulia, con la speranza che un giorno torni da lui e possa rallegrarsi per quel dono singolare e speciale, unico nel suo genere.
Il suo amore per lei non retrocede di un millimetro nel suo cuore, e Giovanni spera che in qualche modo sia così anche "per la sua regina".

La vita, caro Giovanni, è fatta così, ha i suoi alti e bassi, procede per strappi lievi e imprevedibili, ti regala giorni di sole ed altri grigi e ventosi.

Quando finalmente il cielo sembra tornare azzurro e sgombro di nuvole, e il mistero della scomparsa si svela, Giovanni sente e capisce che c’è (e forse ci sarà sempre) qualcosa che gli sfugge, che "la felicità viaggia a corrente alternata e non è priva di insidie e timori, primo tra tutti quello di perdere i suoi favori" e che tutto ciò che possiamo fare è guardare in faccia le nostre paure, accettandole.

E quando ci si ritrova l'uno accanto all'altro, non servono neanche troppe domande con relative spiegazioni: basta restare così, vicini, con la dolce consapevolezza di essere finalmente a casa, perché quando sei tra le braccia di chi ami, sei già a casa e non hai bisogno di altro.


Con una penna leggera, delicata e sincera, Piersanti ci racconta cosa accade quando in una coppia qualcosa si rompe e uno dei due si prende una pausa per staccare, per ritrovarsi, perché a volte va così: per non perdersi nel labirinto di pensieri spaventosi, per non lasciarsi soffocare dal laccio infido della paura di non farcela e di dover soccombere a qualcosa di più grande e al quale non basta la volontà per sottrarsi, forse è necessario andar via, prendere le distanze.

Ritorna a casa solo chi è partito.

Con molta sensibilità e profondità, l'Autore ci lascia entrare negli angoli meno illuminati della vita di un uomo come tanti e ci sembra di provare, insieme a lui, il suo medesimo smarrimento, la paura, i dubbi, i sospetti logoranti, il senso di vuoto davanti alla disgregazione del suo mondo, di ogni certezza, della sua piccola famiglia:

"La sua famiglia era svanita nel nulla, non esisteva più. La famiglia è una cosa transitoria, come il lavoro, del resto come l’esistenza stessa. Tutto è provvisorio ma quando lo vivi ogni momento sembra eterno."

Lo vediamo mentre cerca di sopravvivere dignitosamente aspettando il ritorno di lei, e ci fa tenerezza, perché lui ci prova a smetterla con le sue ossessioni e a tenere a bada "quei bagliori di infelicità che ogni tanto gli esplodevano in petto e lo inondavano dappertutto."

Si narra d'amore, tra queste pagine, di quello maturo e solido che però non è esente da bufere e crepe; di malattia, di come essa porti timori, insicurezza, angoscia, paura di soffrire (e far soffrire i propri cari) e di morire; di amici (pochi ma buoni) che non ti mollano neanche quando ti chiudi a riccio; di sospetti e gelosie, di sensi di colpa e dubbi, di una discreta e sommessa ricerca della felicità, che si racchiude in un giardino fiorito, in abbracci che rinfrancano, in una passeggiata in montagna.

E c'è lui, «quel maledetto Vronskij!».
Eh sì, perché lui c'è davvero, in un modo o nell'altro. Se non è "l'altro uomo", è qualcos'altro, ora sfuggente ora più evidente, ma comunque presente con la sua impronta malefica, carica di ansia e paura.
C'è un maledetto Vronskij nella vita di ciascuno di noi e, credo, tutti prima o poi ce ne rendiamo conto e lo individuiamo, proprio come succede a Giovanni.

Davvero un romanzo bello, tenero e forte come l'amore di Giovanni per Giulia, un amore che fa da filo conduttore in tutto il libro e che, lungi dall'essere sdolcinato e artificioso, è puro ed autentico.
Consigliato.


ALCUNE CITAZIONI

"Forse la gelosia consiste proprio nel non sapere, forse è soltanto un sospetto, un dubbio."

"Lei era andata in luoghi inaccessibili, estremi, aveva guardato la morte in faccia, e quell’incontro si era prolungato per mesi, forse per anni, senza che lui notasse niente. La morte non si vede, la vedi solo se muori."

"Immaginava la felicità come un castello di carte, bellissimo ma instabile e provvisorio. Niente dura per sempre, tanto meno una condizione così fragile come la felicità, che per lui significava non desiderare nient’altro."

"ci si dà alla fuga quando non c’è altro da fare. Ti inseguono cani feroci e tu scappi, non importa dove."



lunedì 11 aprile 2022

[[ RECENSIONE ]] ** E POI SAREMO SALVI di Alessandra Carati **

 

Sincero e commovente, il romanzo di Alessandra Carati narra la tragedia di un popolo, di una famiglia e dei suoi singoli membri, e lo fa attraverso gli occhi - smarriti, sgomenti, speranzosi, a volte arrabbiati altre impauriti, e troppo spesso pieni di sofferenza - di una bambina di sei anni, costretta a lasciare la propria casa, la propria gente, il proprio villaggio, per evitare la morte (e, prima di essa, tutto il carico disumano di torture e soprusi da parte del nemico) e per cercare di mettersi in salvo in un paese straniero, dove provare a ricominciare daccapo.
Ma anche se è possibile lasciarsi alle spalle macerie e catastrofi, certe rovine te le porti dietro per sempre, ti segnano, creano voragini, divisioni, silenzi, risentimenti, fratture non facilmente sanabili, strappi che, per essere ricuciti, spesso richiedono un prezzo alto: altro dolore e altre lacrime.



E POI SAREMO SALVI
di Alessandra Carati

Mondadori
276 pp
La piccola Aida vive con la propria famiglia (papà e mamma, che è incinta) in un piccolo villaggio bosniaco; una vita semplice, una casa modesta non lontana dal bosco, da dove si vedono distese di frutteti che si arrampicano sulla montagna. 
Oltre quei confini non c’era nessun altro mondo dove avrebbe potuto e desiderato vivere.

Ma un triste presagio spezza la tranquillità della vita al villaggio:
"«Ci sarà la guerra e ce ne andremo tutti». 
Non sapevamo che cosa fosse la guerra, per noi era una parola sussurrata che aveva il potere di rendere gli adulti insicuri e cattivi."

Aida non ci crede e si affida alle parole, seppur poco convincenti, di sua madre, che le dice che no, non arriverà mai la guerra da loro.

Ma gli adulti possono sbagliarsi e Aida farà i conti con questa verità infinite volte, da quel momento in poi.

È l'aprile del 1992 e non è più possibile restare in Bosnia, bisogna scappare prima che arrivino i soldati, portando il terrore, gli spari, la morte.

Suo padre Damir provvede alla fuga della moglie Fatima e della piccola Aida; dopo giorni e notti difficili e di paura, arrivano a Milano e là per loro inizia un nuovo capitolo dell'esistenza. 

Nella casa in cui vengono fatti alloggiare ci sono altre famiglie che, come loro, son fuggite dalla guerra prima che fosse troppo tardi; ci sono pure zio Tarik, zia Mejra e il cugino Samir.

Integrarsi non è facile, non solo perché ci si trova in una città straniera, dove si parla una lingua sconosciuta e dove la vita ha ritmi e abitudini differenti, ma ancor più perché la guerra, con tutte le sue atrocità, continua e nel villaggio ci sono ancora parenti (come i nonni, che non vogliono lasciare la propria casa) ed amici, le notizie che arrivano per telefono sono drammatiche, preoccupano babo e mamma, il cui pensiero è sempre là, dove hanno lasciato gli affetti e dove continuano a desiderare di tornare, a guerra finita.

Intanto, nasce il fratellino, Ibro, ma neppure il suo arrivo riesce a rimettere in ordine le cose: il padre è sempre sfuggente, irritato, silenzioso, non accetta che gli si risponda e ci si ribelli ai suoi ordini; la madre è chiusa in sé stessa, è depressa, infelice, nervosa. 
Da loro Aida raramente riesce ad avere un gesto affettuoso, una parola rassicurante, un abbraccio consolante; mentre pian piano quel fratellino diventa amatissimo e, con la sua vivacità incontenibile, conquista tutti, la ragazzina cresce, matura, e se è vero che diventare grandi è difficile per chiunque e ovunque, per una bambina sradicata bruscamente dal proprio contesto e inserita in un altro - in cui si sente un'estranea, sola, smarrita - lo è ancora di più.

A dare una notevole mano (sotto diversi punti di vista, anche economico) alla famiglia di Aida è una coppia di coniugi senza figli, Emilia e Franco, i quali si affezionano da subito a Fatima e ai bambini, in particolare ad Aida; Emilia, infatti, è molto materna nei suoi confronti, la invita a casa sua, cerca di riempirla di attenzioni ed è felice di occuparsi di lei, di aiutarla nei compiti, di regalarle ciò di cui ha bisogno.
Questo genera inevitabilmente malumori e gelosia nei genitori della bambina, che vedono queste cure amorevoli come un subdolo tentativo di "prendersi" Aida, allontanandola da loro.
La ragazzina percepisce questi sentimenti e lei stessa si sente confusa: da una parte desidera che Emilia le dia quelle attenzioni e quell'affetto che sua madre è, per carattere, restia ad elargire e dimostrare - una freddezza, questa, che l'ha sempre fatta soffrire, facendole provare emozioni contrastanti verso la mamma: amore e desiderio viscerale di essere amata e considerata, ma anche risentimento nel constatare come questo non avvenisse -, dall'altra una sorta di diffidenza (Emilia le vuol bene perché è lei  o semplicemente perché vede in Aida la figlia che non ha mai avuto?) mista alla paura di dare un dispiacere ai genitori, che potrebbero sentirsi messi da parte e rimpiazzati da questi due italiani forse un tantino invadenti, che in cambio dell'aiuto poi vogliono prendersi la figlia.

Diventa un'adolescente, Aida, si invaghisce di un compagno, e intanto studia, a scuola è brava e si applica con impegno; ogni tanto i suoi sentono l'urgenza di ritornare nel loro piccolo paese in Bosnia, ma ogni volta che torna a Milano, Aida riprende con slancio la vita alla quale ormai si è abituata; a volte riprende ad andare con più frequenza a casa di Emilia (Mimì), allontanandosi da mamma e papà, e anche un po' dall'amato Ibro.

"Sentivo di essere separata e la separazione scavava piano, in silenzio, una cavità e in quella cavità cresceva un’altra me, piccola, cieca, senza pelle. Ma crescere era doloroso, separarsi era doloroso." 
Il racconto in prima persona di Aida travolge il lettore e lo fa sentire parte delle vicende narrate, facendogli percepire in modo intenso le emozioni della giovane protagonista: le sue paure nello scappare con la madre in stato avanzato di gravidanza; il senso di spaesamento una volta giunta in Italia; i sentimenti contraddittori verso quel villaggio in cui è nata e ha vissuto per sei anni, a cui appartiene per famiglia, cultura, tradizioni, per la presenza dei parenti (tanto i vivi quanto i morti), ma dal quale, allo stesso tempo, prende le distanze perché la vita va avanti e lei ha bisogno di ricostruirne una nuova lontano dalle macerie della vecchia.

" Mi sono chiesta come si possa sopravvivere alla propria vita."
"Tutta la nostra vita era divisa tra un prima e un dopo, a dispetto dell’età che potevamo avere, vent’anni, quindici o ottanta. La vita prima della guerra era una dimensione parallela, a volte mi domandavo se fosse davvero esistita."

Eppure, se Aida riesce a guardare avanti a sé e a porsi degli obiettivi, per i suoi cari non è così; è come se i suoi genitori non riuscissero ad integrarsi, anzi... non lo vogliono davvero, perché convinti di essere solo di passaggio in Italia: la loro casa nel paesino da cui vengono ancora li aspetta e il sogno di tornarvi non li abbandona, perché le loro radici sono lì, in quella loro terra così profonda e difficile da decifrare.

E Ibro?
Lui è sempre il solito ragazzo pieno di energie, di vitalità..., ma è quel tipo di vitalità eccessiva, quasi anomala; verso di lui Aida prova molti sensi di colpa, soprattutto quando si rende conto di stare vivendo la propria vita lontana dal fratello, che sicuramente sente la sua mancanza e forse ce l'ha anche un po' su con la sorella per questo.

Il caro, inafferrabile e tormentato Ibro - «kuća moja mila»  mia casa adorata,  «Oči moji mili» occhi miei adorati: a un certo punto, quando ormai è un giovanotto, qualcosa in lui comincia a non andare, a rompersi sotto gli occhi sgomenti e impreparati dei genitori, stanchi e confusi, e anche per Aida, che continua a studiare per diventare medico anestesista.

Il ragazzo manifesta comportamenti strani, bizzarri, sregolati; in special modo ad eccedere sono la sua irrequietezza, il senso opprimente di dover fare qualcosa - qualunque cosa! - per dare un senso alle proprie giornate (non lavora, non studia, ciondola per casa senza uno scopo o un interesse in cui investire sogni e capacità), e poi la sua aggressività, che si riversa su chi gli è vicino (babo e mamma), sia a livello verbale che fisico: cosa vogliono dire questi modi di fare? Sono forse segnali di un malessere specifico e che va assolutamente curato?

La malattia, che irrompe con violenza nei loro già (e da sempre) fragili rapporti famigliari, scardina tutto, ogni piccola certezza, mette in luce crepe, divisioni, rancori, cose non dette, un'infelicità che è sempre stata lì, sulle loro spalle, come un fardello di cui è diventato troppo difficile liberarsi.

I problemi di Ibro finiscono necessariamente per dividere e, a un tempo, riunire, come spesso succede quando in famiglia sopraggiungono problemi gravi: "Il suo disturbo era la faglia delle nostre vite divise tra un qui e un là."

Aida è presente per amore del fratello minore, che ha bisogno di lei, ma anche per quei genitori, da sempre irraggiungibili, incapaci di comunicare pure tra loro, amati con rabbia, una rabbia così pura da provocarle dolore.

Sullo sfondo di una guerra da cui ci si allontana per sopravvivere, Alessandra Carati ci racconta la storia di una ragazza e della sua famiglia lacerata dentro e fuori dalla paura delle atrocità che avrebbero potuto subire (e di cui sentono parlare da chi le ha viste da vicino) nel loro paese, che continuano ad amare e il cui pensiero resta fisso nel cuore e nella mente, accompagnato dalla malinconia di chi non si arrende a vivere e morire in terra straniera.
È la storia di come la guerra renda orfani, se non necessariamente in senso materiale, sicuramente in quello "spirituale", morale: non se ne esce indenni, mai, e l'incertezza del proprio futuro segue passo passo, come un segugio fedele, chi fugge.

È la storia di un padre che non sa esprimere il proprio amore per i figli in maniera adeguata, ma che per loro darebbe la vita; di una madre che dentro soffre, si strugge e fuori è dura e inarrivabile come una fortezza inespugnabile ma, se riuscisse a parlare senza freni, confesserebbe le proprie paure, le lacrime e i sospiri di chi è disposto a sacrificarsi per coloro che ama, con la segreta speranza di salvarlo da quel dolore che tormenta lei.

È la storia di una bambina che, diventando donna, non smette di essere costantemente alla ricerca di un po' di pace, di un posto in cui sentirsi a casa e in cui ritrovare l'amore dei propri cari, quell'amore in cui è custodito il dolce segreto della sua infanzia e che forse, per emergere in tutta la sua bellezza e purezza, ha bisogno di un'esplosione, di una supernova da cui nascano altre stelle.

Un romanzo di formazione davvero molto bello, struggente, che tocca profondamente il lettore sia per la sua giovanissima protagonista - che vediamo crescere tenera e forte insieme, pur tra le tante difficoltà e i conflitti famigliari -, sia per la storia intensa, drammatica, terribilmente attuale in questo periodo. 

martedì 5 aprile 2022

[[ RECENSIONE ]] SPATRIATI di Mario Desiati



Francesco e Claudia: acqua e fuoco, pioggia e fulmini, freddo e caldo. Due personalità che più differenti non potrebbero essere, eppure, al contempo, sono intimamente affini e, soprattutto, entrambi vengono additati come due spatriètə, due irrisolti, inclassificabili, balordi, vagabondi... e, nel loro caso, dei liberati.


SPATRIATI 
di Mario Desiati



Einaudi Ed.
288 pp
"Mi chiamo Francesco Veleno, sono il figlio unico di Elisa Fortuna e Vincenzo Veleno, due ex atleti dilettanti, che si sono innamorati durante una puntata di Giochi senza frontiere e per tutta la mia infanzia mi hanno cresciuto con l’idea che li avrei riscattati dal misterioso incidente di avermi messo al mondo"


Non è il massimo per nessuno, quindi neppure per Francesco, pensare di essere nientemeno che un "incidente di percorso" nell'esistenza dei propri genitori.

Insicuro, con la sensazione di fare e dire le cose sbagliate nel posto sbagliato e al momento sbagliato, convinto che la realtà sia quella che gli viene raccontata e non quella che vede, Francesco - che la madre chiama affettuosamente "Uva Nera" per il suo incarnato scuro - resta folgorato il giorno in cui, nel cortile della scuola, la sua attenzione viene catturata fatalmente da una ragazza dai capelli rossi, la pelle di luna, il naso importante e quel suo vestire come un maschio, con i vestiti del padre.
Lei è Claudia Fanelli.

"Quando un fronte d’aria fredda incontra a terra una massa d’aria calda, quest’ultima si alza al cielo. Nascono i temporali. Pioggia e fulmini, acqua e fuoco. Non ho mai capito chi tra i due fosse il caldo e chi il freddo, ma mi ritengo fortunato di aver incontrato il mio fronte opposto in Claudia Fanelli, la spatriata, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o forse, nel caso che ci riguarda, i liberati"

Stravagante e vivace, solitaria e sicura di sé, indifferente ai giudizi, agli scherni e ai mormorii dei pettegoli di paese che, a Martina Franca come nelle piccole realtà di provincia, non mancano mai.

Francesco oppone alle frasi taglienti e provocatorie dell'amica - di cui si sente innamorato, pur provando altre e indefinibili sensazioni fisiche verso coetanei del proprio sesso - la propria fede religiosa, che egli vorrebbe fosse più solida di quella che è in realtà.
Ma ogni certezza vacilla quando la ragazza gli svela che, per un bizzarro scherzo del destino, essi sono quasi fratellastri.
Eh già, perché la madre di Francesco, Elisa, è l'amante di Enrico, il padre di Claudia.

Il ragazzo non sapeva questo segreto e scoprirlo lo turba per tante ragioni, tra cui quella di voler essere libero di amare la sua Claudia e di non essere costretto a vederla in un modo differente a causa delle stramberie dei loro genitori.
I due amici diventano praticamente inseparabili ma la ragazza non riesce a farsi andar bene la vita di paese ("Voglio stare dove succedono le cose, e qui non succede niente, non imparo niente"). così decide di andarsene, lasciando solo il povero Veleno con i suoi dubbi, la sua confusione emotiva e sessuale, i suoi risentimenti verso il padre e quelli misti ad amore e tenerezza verso la madre.

Londra, poi Milano e infine Berlino, la capitale europea della trasgressione; ad ogni tappa, la voce squillante di Claudia invita l'amico ad abbandonare la Puglia, la famiglia e tutta quella zavorra che è la ristretta mentalità di paese,  e a prendere in mano la propria vita, facendo scelte autonome e libere, assecondando i propri desideri.

Francesco resta e resiste, pur soffrendo la mancanza dell'amica ed essendone geloso - di lei, del suo essere così... "fluida", priva di inibizioni: "dentro di me il fuoco era spento. Mi piaceva restare a Martina perché tenevo a bada l’ansia, la quotidianità era sopportabile".

E intanto scava dentro di sé, restando turbato dalla consapevolezza di certi brividi, pensieri, sensazioni provate abbracciando un amico in oratorio o truccandosi la notte, di nascosto dal mondo, ma non da sua madre, che vede e capisce senza che lui se ne accorga.

Arriverà però il momento anche per Francesco di seguire Claudia, raggiungendola a Berlino e là avrà modo di vivere nuove esperienze e conoscere persone che lo porteranno a capire meglio se stesso, a crescere, e anche se non resterà nella città tedesca per sempre, qualcosa  in lui cambierà.

Si vedrà per come gli altri lo vedono da fuori, "Una vittima del patriarcato fascista, che non sapeva nemmeno riconoscerlo." 

E Claudia? Lei è un po' mamma, un po' sorella, un po' amica del cuore, inafferrabile e senza freni, anima libera ma bisognosa di dare e ricevere amore, di legami che rappresentino una casa a cui tornare:

"...il cuore di Claudia era troppo grande, sprecato per contenerne uno solo, c’era spazio per una famiglia intera, per un’amicizia, per un figlio, per l’umanità."

Claudia e Francesco: "solitudini perfette. Due monadi", "nozionisti e idealisti e guardavamo al futuro pieni di paura e possibilità (io), speranza e determinazione (lei)", con l'attitudine a vivere in altri mondi, a immaginare storie impossibili; seppur distanti chilometri, diventano adulti insieme, e anche quando sembrano allontanarsi, finiscono sempre per ritrovarsi. 

Attraverso questi due personaggi così all'opposto ma inseparabili, che si capiscono con uno sguardo, con i silenzi, con i non detti prima ancora che con le parole, Mario Desiati dà voce alle inquietudini, ai turbamenti, agli eccessi e alle inibizioni di una generazione cresciuta in un paese piccolo e che ha voglia di spiccare il volo lontano da casa, alla quale si sente sì legata ma, allo stesso tempo, da essa vuol prendere le distanze, non sempre riuscendoci.

"Le nostre origini ci rimangono addosso come una voglia gigante sulla pelle, che puoi coprire con tutti i vestiti che vuoi, ma resta sotto e quando ti spogli la vedi.
Eravamo usciti dalle nostre famiglie riportando ferite profonde, ma le nostre famiglie non erano uscite da noi."

Il protagonista è un ragazzo timido, schivo, insicuro e trova nella spavalda e irrequieta Claudia il modo per conoscersi ed accettarsi, dando sfogo a istinti e curiosità relative al sesso e al volerlo vivere in libertà, senza schemi, preconcetti e limiti stabiliti da altri, dalla società.

Francesco è un figlio che non vede nei genitori un punto di riferimento, un modello di vita, e se tende a snobbare un po' il padre, a prenderlo poco sul serio, è dalla madre che vorrebbe attenzioni e di lei, in certi frangenti, si sente geloso:  geloso di quell'amore segreto con il papà di Claudia; geloso del rapporto d'amicizia e complicità tutta al femminile - fatta di sorrisi eloquenti, di chiacchierate a bassa voce in cucina di notte, come se fossero mamma e figlia - tra la propria madre (che si rende conto di conoscere poco) e la sua Claudia.

È un amico che si preoccuperà sempre di quella rossa che vestiva da uomo e di cui non riesce a non essere innamorato; desidera sentirla spesso quando lei è fuori, vuole che gli racconti tutto di sé, della gente che incontra , degli uomini e delle donne con cui ha relazioni, che siano di sesso o d'amore.

Il lettore vede Francesco (voce narrante) cambiare negli anni, fare esperienze, e tutta la sua complessa personalità emerge, insieme ai suoi pensieri, i dubbi, le paure, le contraddizioni, la confusione in merito alle sue preferenze sessuali, il rapporto con Claudia e ciò che esso significa per lui.
La scrittura di Desiati è schietta e decisamente disinvolta ed esplicita quando si sofferma su giovani corpi vogliosi di toccarsi, fondersi, trarre piacere da questi incontri trasgressivi, in cui ognuno si sente libero di vivere il desiderio nei modi che vuole.
Ma è anche romantica e poetica quando ci parla del legame profondo che unisce Claudia e Francesco, del bisogno d'amore e di cura, della solitudine, del senso di inadeguatezza, del desiderio di felicità di questi spatriati, raminghi e senza meta, o forse solo semplicemente giovani alla ricerca del proprio posto nel mondo.

Mi è piaciuta la scelta di intitolare ogni capitolo con delle parole-chiave in dialetto martinese e in tedesco.
Un romanzo di formazione con personaggi interessanti, con una scrittura sincera, aperta, e anche se non posso dire che mi abbia coinvolta totalmente e in modo costante durante tutta la lettura, trovo comunque che lo stile sia scorrevole, il che rende il libro nel complesso piacevole; ho apprezzato la delicatezza e la sfumatura malinconica di molti passaggi, alcuni dei quali potete leggerli di seguito. 




Alcune citazioni:

"Nelle famiglie non esistono segreti, ma solo dei patti dolorosi, a volte miserabili, a volte irrinunciabili, dei «non detti». E nei non detti ci sono le verità profonde, le crisi, la lotta tra bene e male, l’origine delle relazioni e di tutti i traumi. Col tempo avrei capito che Claudia stava condividendo con me qualcosa di simile a un biglietto vincente della lotteria. Il non detto era lí, esposto alla nostra innocenza."

"– A volte vivo certe emozioni solo perché ho una persona come te a cui raccontarle, – mi diceva appena tornava da me.
– Non risparmiarmi nessun dettaglio, – le chiedevo, e sapevo che solo cosí avrei provato piacere nel mio dolore."

"... non tutti reggono il dolore delle persone che pensano di amare.
– Cosa vuoi dire? – Ero spaventato, mi mettevano a disagio quelle confessioni.
– Che devi farti forte e reggere il dolore della persona che ami. Per esempio, non essere mai se stessi per tutta la vita è un dolore."

"...il cuore è una casa con due camere da letto: una è quella del dolore, l’altra quella della gioia. Non si può ridere troppo fragorosamente, altrimenti il dolore si risveglia. Purtroppo, non può accadere il contrario, perché la gioia è sorda. "


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