martedì 14 dicembre 2021

Recensione: IL PRIMO FIORE DI ZAFFERANO di Laila Ibrahim



Lisbeth è una bambina bianca, figlia di una ricca famiglia della Virginia di metà Ottocento; Mattie, la sua balia, è nera e schiava. Tra le due nasce un rapporto di affetto molto profondo, che resisterà alle discriminazioni, al tempo, alla lontananza, alla sofferenza, alle conseguenze delle proprie scelte. Un legame che, con il passare degli anni, aiuterà Lisbeth a cambiare il proprio modo di pensare, diventando un'adulta consapevole del valore di ogni uomo e che nessuno nasce per essere schiavo di un altro.
Il primo fiore di zafferano è la storia di queste due donne che sfidano le convinzioni sbagliate del proprio tempo e lottano per la conquista della propria libertà e della dignità.




IL PRIMO FIORE DI ZAFFERANO
di Laila Ibrahim



Amazon Crossing
trad. R. Maresca
254 pp
"...tu avrai sempre il mio amore nel tuo cuore a guidarti. Sei intelligente e forte, e hai un cuore buono, Lisbeth.".

È il 1837 quando viene al mondo la piccola Elizabeth Wainwright; a farle da balia viene scelta la schiava di colore Mattie, che ha partorito da pochi mesi il proprio figlioletto Samuel.
La giovane è costretta, quindi, a separarsi dal figlio per prendersi cura della primogenita della ricca famiglia di cui è schiava; le si affeziona in fretta, nonostante la piccola le ricordi la lontananza forzata da Samuel, e col passare delle settimane, dei mesi, degli anni..., tra le due si instaura un rapporto di grande affetto e complicità, che permette alla bambina di crescere amata e coccolata, di ricevere quell’amore che i genitori non sono in grado di darle.

Il padre, infatti, Mr. Wainwright è un uomo gretto, insensibile e un convinto schiavista; sua moglie, Mrs. Ann, è una madre fredda e attenta solo alle convenzioni sociali. 

Non c'è posto in casa per carezze, abbracci, coccole, tenerezze di alcun tipo: se non fosse per la presenza rassicurante ed amorevole di Mattie, Lisbeth crescerebbe in una casa arida di amore e gesti affettuosi.
Ma grazie alla sua amata balia e agli altri schiavi, l'infanzia della piccola Lisbeth è piena di quelle premure e attenzioni di cui ogni bambino ha bisogno per crescere sereno e amato; inoltre, con la sua saggezza e dolcezza, Mattie imprime nell'animo della sua padroncina il vero valore delle cose e delle persone.
Il più grande insegnamento di Mattie è che l'amore non ha colore, non è limitato dai ceppi e dalla prigionia, è libero nonostante la malvagia e l'egoismo degli uomini.

I genitori non possono non notare che la loro bimba è fin troppo affezionata alla schiava e che passa molto tempo con lei e con suo figlio; Lisbeth, a sua volta, cerca di nascondere tutto l'amore che prova per Mattie - che è per lei più di una madre - per non causarle problemi; inoltre, crescendo, prova a creare un canale di comunicazione con la gelida madre, la quale però è unicamente concentrata sull'educazione della figlia, destinata a diventare una signorina educata, interessante, che sa stare in società, che rispetta l'etichetta e che, più di tutto, sviluppi tutti i requisiti per divenire una giovane debuttante ammirata e corteggiata.
Lo scopo è arrivare ad un buon matrimonio con un ragazzo benestante, di ottima famiglia, con un'eredità allettante ad attenderlo, con una buona reputazione e con numerosi schiavi al seguito (più schiavi ha, più merita onore e considerazione).

A un certo punto, per una serie di circostanze drammatiche e difficili, Mattie deve prendere una decisione tanto complessa quanto pericolosa: fuggire dalla piantagione dei Wainwright, per mettere in salvo se stessa e la propria secondogenita e provare a ricongiungersi al marito, lontano da lei e che l'aspetta in un altro Stato, dove non vige lo stesso sistema schiavista presente in Virginia.

Mattie riesce a scappare e di lei Lisbeth non avrà notizie certe per anni; amareggiata, ferita, con la sensazione di essere stata abbandonata a se stessa dall'unica figura materna che l'abbia mai amata davvero e fatta sentire importante, la ragazza cresce cercando di adeguarsi alla realtà attorno a sè, senza mai però perdere di vista quei principi di rispetto per l'altro (schiavo compreso), che aveva appreso frequentando la sua Mattie.

Non è facile perché tutti, attorno a lei, hanno una visione del mondo, della vita, del matrimonio, dei rapporti con gli altri, completamente dominata dalle apparenze, dal rispetto per le etichette e le convenzioni del loro tempo; maschi e femmine devono adottare quei comportamenti da gentiluomini e gentildonne che ci si aspetta dai figli di persone importanti, altolocate; non sono ammesse condotte o parole sconvenienti che possono mettere a rischio la reputazione di una signorina in età da marito!
Lisbeth è preoccupata di deludere la madre, che ripone in lei tutte le speranze di un matrimonio vantaggioso, dal punto di vista economico e sociale.

La ragazza - che diventa una signorina molto bella, raffinata, intelligente - è corteggiata ed oggetto di interesse da parte di più di un giovanotto.
Il suo cuore la conduce verso il buon Matthew, bello ma soprattutto bravo, educato, umile, con cui parlare di argomenti stimolanti (ad es. di libri, visto che a Lisbeth piace leggere).
Matthew sembra rispecchiare il tipo di marito che, come diceva Mattie, una donna dovrebbe desiderare: "un brav’uomo ti rende la vita meno amara. Uno che ti abbraccia e ti ama, uno che condivide i suoi sogni con te, un uomo gentile e premuroso."

Ma i suoi genitori hanno già scelto il futuro marito per la figlia, e si aspettano che quest'ultima li assecondi e si arrenda ad un matrimonio conveniente; poco importa se quest'altro giovanotto è soltanto ricco e bello ma privo di valori: a contare è il patrimonio e la rispettabilità agli occhi della società.

Lisbeth si adeguerà alle regole del mondo in cui è cresciuta e al quale appartiene? O quell'anelito di libertà, che ha allontanato Mattie da lei, è presente anche nel suo cuore, tanto da spingerla ad andare controcorrente pur di essere padrona di se stessa e del proprio destino?

Questo romanzo - che copre un arco di tempo che va dal 1837 al 1859 -  è ambientato in un periodo in cui l'ingiustizia fa da padrone, in cui si ritiene normale - anzi, doveroso! - avere degli schiavi e considerarli oggetti di scarso valore, beni da possedere e di cui disporre a proprio piacimento, ignorando di proposito la verità secondo cui i neri sono esseri umani al pari dei bianchi, che soffrono, gioiscono, desiderano, odiano... esattamente come i bianchi, e al pari loro hanno dei diritti.

Nella mente di Lisbeth - grazie alla benefica e dolce presenza di Mattie durante l'infanzia - vengono gettati i semi di un modo di pensare più nobile di quello dei genitori, diverso da quello della società in cui vive, che non ha il minimo rispetto per le persone di colore. La giovane protagonista si ritroverà davanti a un bivio determinante, che costituirà uno spartiacque nella sua esistenza: scegliere se stessa, il proprio diritto di essere felice e di sposare un uomo che la rispetti e la ami, o assecondare il volere dei genitori, avere il loro consenso ma... a che prezzo?

Mattie è una donna forte, una roccia, una moglie devota, una madre pronta a sacrificarsi per i figli; ha una fede incrollabile in Dio, prega con fervore e si affida a Lui in ogni decisione che prende.

Inevitabilmente provoca molta rabbia leggere le ingiustizie, le umiliazioni, le percosse subite dagli schiavi, gli stupri nei confronti delle schiave (anche giovanissime) per mano dei loro abietti padroni, il cui pensiero è invaso da un'ideologia profondamente razzista, che è vergognosamente convinta che ci siano esseri umani inferiori, equiparabili ad oggetti, e quindi vendibili e acquistabili.

I momenti in cui la vita metterà sulla stessa strada, nuovamente, Lisbeth e Mattie, regalano tenerezza e commozione e per le due donne arriverà la loro personale primavera, fatta di una vita nuova e all'insegna della giustizia.

Un libro dalla prosa fluida, scorrevolissima, dal linguaggio semplice e dai dialoghi vivaci e abbondanti; bello il contesto storico di riferimento, convincenti le protagoniste e i personaggi attorno ad esse; leggerlo è stato davvero molto piacevole. Consigliato!!

domenica 12 dicembre 2021

Recensione: I RAGAZZI DELLA NICKEL di Colson Whitehead

 

Attraverso una storia dolorosa, fatta di discriminazione razziale, ingiustizie e violenze fisiche e psicologiche di ogni tipo, l'Autore - vincitore del Pulitzer nel 2020 con "La ferrovia sotterranea" - ha scritto un romanzo dal messaggio potente, che getta luce su un angolo drammatico e buio della storia americana del secolo scorso.


I RAGAZZI DELLA NICKEL 
di Colson Whitehead



Ed. Mondadori
trad. S. Pareschi
213 pp
Elwood Curtis è un ragazzino che vive nel quartiere nero di Frenchtown (Tallahassee, Florida); abbandonato dai genitori, a crescerlo è stata la nonna... ma non solo lei: importante per la formazione e del suo pensiero e della sua personalità è stato il pastore battista Martin Luther King, con i suoi insegnamenti, il suo esempio di cristiano impegnato nel movimento per i diritti civili.

Sono gli Anni Sessanta e tale movimento sta prendendo sempre più piede.

Il giovane protagonista è un bravo ragazzo: studia e lavora (per portare qualche spicciolo a casa), legge moltissimo e promette bene, infatti
viene anche scelto per frequentare le lezioni del college.
E' di sani principi, il buon Elwood, ha talento, è curioso, intelligente e coscienzioso; sogna un futuro in cui non ci saranno più le umilianti differenze e discriminazioni tra bianchi e neri, e in cui ogni uomo potrà essere libero ed essere rispettato per ciò che è e per il valore che ha in quanto essere umano.

"Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza." (M.L.King)


Ma la vita non sempre è giusta con i buoni e il povero Elwood deve fare i conti ben presto con il peggio dell'umanità.
A causa di un errore giudiziario, frutto dei pregiudizi razziali del suo tempo, il ragazzo fa il suo ingresso nella Nickel Academy (la Dozier School for boys), un riformatorio gestito dallo stato della Florida in cui vengono ospitati ragazzini, alcuni semplicemente in quanto orfani, altri perchè hanno commesso dei reati; la mission dell'istituto è "raddrizzarli", rieducarli, così che tornino nella società come dei bravi cittadini.

Purtroppo, la rieducazione non è contemplata alla Nickel, i cui ragazzi vanno incontro ogni giorno a soprusi ed ingiustizie di vario genere e gravità.

Attraverso Elwood entriamo tra le mura di questa maledetta scuola e ne conosciamo l'anima nera, violenta, brutale: altro che rieducazione fisica, intellettuale e morale così che il piccolo delinquente possa diventare un uomo onesto! Nella Nickel Academy accadono cose irripetibili, è un vero e proprio labirinto degli orrori... e purtroppo il nostro giovane protagonista li conoscerà molto bene sulla propria pelle.

All'interno della scuola la vita è tutt'altro che semplice, già a partire, tra le altre cose, dagli evidenti pregiudizi verso le persone nere; ma le brutture non si fermano qui; oltre a ricevere pasti per nulla adeguati, i ragazzi devono stare attenti a ciò che dicono e fanno perché la minima azione o parola considerate scorrette e irrispettose, fanno sì che gli "educatori" - o chi per loro - rapiscano di notte il malcapitato dalla sua branda e lo portino nella cosiddetta "casa bianca" (ce ne sono due, ad esser precisi: una per bianchi e una per neri), una sorta di stanza delle punizioni, o meglio delle torture, dove i presunti indisciplinati subiscono percosse, cinghiate e altre sevizie, come minimo per una notte intera.

Si dicono cose orribili su ciò che il personale della Nickel commette verso gli sfortunati che vengono presi e pestati; e se chi ha la "fortuna" di uscirne vivo (capiterà anche al povero Elwood), sa che razza di esperienza sia e può raccontarlo (sì, ma a chi? Guai a far uscir fuori ciò che avviene tra quelle mura), i non pochi che invece ne escono morti, non potranno farlo.
E di ospiti spariti all'improvviso senza che nessuno ne sapesse nulla, ce ne sono eccome, purtroppo.

Elwood è indignato e sconvolto da questa realtà terribile.
E come potrebbe essere diverso per un tipo come lui, abituato - per quanto  possibile - a combattere l'ingiustizia, a non voltare la testa dall'altra parte perchè "per lui non intervenire significava compromettere la propria dignità."?
Per lui che è cresciuto a "pane e Dottor King", consumando, a furia di ascoltarlo a ripetizione, il disco che conteneva il discorso del predicatore al Zion Hill (1962), che si ribellava alle discriminazioni e alla violenza pur ricevendo solo silenzio o scherno, che era mosso da "fini imperativi morali" e da "finissime idee sulla capacità di miglioramento degli esseri umani. Sulla capacità del mondo di correggersi", è inaccettabile che in un riformatorio gestito dallo stato e in cui gli ospiti dovrebbero essere protetti e aiutati a divenire uomini migliori, avvenga l'esatto contrario e, a furia di ricevere botte e di subire i peggio soprusi, i ragazzi (chi sopravvive, ovviamente) rischino di uscire da lì peggio di quanto siano entrati.

"I ragazzi arrivavano alla Nickel già guastati in vari modi, e subivano altri danni mentre erano lì. Spesso li attendevano passi falsi più gravi e istituti più spietati. I ragazzi della Nickel erano fottuti prima, durante e dopo il periodo che trascorrevano alla scuola, se si voleva descriverne la traiettoria generale.
(...) Ecco cosa ti faceva la scuola. Non si fermava quando uscivi. Ti storceva in tutti i modi finché non eri più capace di rigare dritto, e quando te ne andavi eri ormai completamente deformato."

Elwood Curtis subisce, sì, ma accetterà anche di restare in silenzio? Non è forse più giusto che "là fuori" sappiano quali orrori sono costretti a subire dentro la Nickel? 

Lascio a voi la curiosità di scoprire quale sarà il destino del coraggioso protagonista, sempre consapevoli però che il ricordo di ciò che è stata l'esperienza in quella macabra scuola non abbandonerà mai chi è stato suo ospite:

"La Nickel lo avrebbe perseguitato fino all’ultimo istante – un vaso sanguigno che gli esplodeva nel cervello o il cuore che gli collassava nel petto – e poi anche oltre. Forse la Nickel era l’aldilà che lo attendeva, con una Casa Bianca in fondo alla discesa e un’eternità di porridge e l’infinita fratellanza di ragazzi rovinati."

Questo romanzo rientra tra quelli che si possono etichettare come "un pugno nello stomaco".
Già leggere di discriminazioni a causa del colore della pelle indigna, fa innervosire..., ma qui non c'è solo questo: c'è proprio il calpestare la dignità delle persone, di questi ragazzi che avrebbero avuto bisogno di aiuto, di punti di riferimento positivi, di adulti che insegnassero loro dei valori, un lavoro, che ne valorizzassero le capacità, che donassero loro una speranza per il futuro..., ed invece hanno trovato umiliazioni, percosse, sevizie, cinghiate..., morte.

E' una lettura che a me ha provocato un turbinio di emozioni, dalla rabbia all'indignazione, da un inevitabile senso di impotenza ad una profonda tristezza.
Ma perché?, ci si chiede. Cosa spinge alcune persone a provocare tanto dolore a degli innocenti? Sapere di avere tra le mani la vita, il corpo di un altro essere umano, e di poterne disporre a proprio piacimento, dona forse un eccitante senso di onnipotenza che induce poi a sfogare gli istinti più bassi, animali e criminali su chi non può difendersi?
 
Si resta sbigottiti e amareggiati nel conoscere certe realtà, perché se è vero che Elwood è un personaggio fittizio, non lo è la realtà di riferimento.

Sì, perchè il libro è ispirato alla storia della Dozier School for Boys (di proprietà dello stato della Florida, aperta dal gennaio 1900 a giugno 2011) e prende il via - come è detto nel prologo - dal ritrovamento, da parte di un gruppo di studenti di archeologia della University of South Florida,  di un cimitero segreto nel campus della scuola, che nascondeva le tombe di decine e decine di ospiti; non solo, ma furono rinvenute ossa umane di altri poveri ragazzi, del cui infame destino le famiglie non hanno mai saputo nulla.
La verità è emersa in tutta la sua crudeltà, benchè le voci di cosa accadesse nell'istituto non fossero recenti; a raccontare gli orrori che avevano luogo sono stati soprattutto i ragazzi che hanno "assaggiato" la ferocia della "casa bianca": essi hanno fondato l'associazione "White House Boys", con lo scopo di dar voce ai testimoni delle vergognose violenze e degli stupri subiti negli anni del riformatorio.

La scrittura di Whitehead è semplice, essenziale, chiara, e l'uso dei flashback mette il lettore in condizione di appassionarsi ancora di più alle vicende narrate, a farsene coinvolgere emotivamente; il finale è spiazzante.
E' una lettura che non lascia indifferenti e sono contenta di aver avuto modo di conoscere questo libro perchè non conoscevo la Dozier School e i suoi orrori; se anche voi non sapete nulla di questo tragico capitolo della storia americana, leggete il romanzo di Whitehead e, una volta giunti alla fine, credo che anche voi - come me - avrete voglia di saperne di più e di fare le vostre personali ricerche sull'argomento.

mercoledì 8 dicembre 2021

Recensione: LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA di Ilan Pappe



Il 1948 è stato per gli ebrei l'anno della vittoria, in cui finalmente si è realizzato il sogno sionista della fondazione dello Stato d'Israele, ma per qualcun altro esso è diventato l'anno in cui ha avuto luogo la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la cacciata di circa 250.000 palestinesi dalla loro terra.
Pappe, ricercatore e storico israeliano, basandosi sulla documentazione esistente (compresi gli archivi militari israeliani desecretati nel 1988), giunge a una versione decisamente in contrasto con quella tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership sionista del futuro Stato d’Israele aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina. 
E se è vero - e lo è - che la pulizia etnica è un crimine contro l’umanità, allora ammettere che è questo che Israele ha fatto ai palestinesi, è forse il punto di partenza imprescindibile per avviare quel famigerato "processo di pace" che finora è rimasto confinato alle buone intenzioni senza mai essere concretizzato.  


LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA
di Ilan Pappe




Fazi Ed.
trad. L.Corbetta - A. Tradardi
364 pp
"In questo libro voglio esplorare sia il meccanismo della pulizia etnica del 1948, sia il sistema cognitivo che ha permesso al mondo di dimenticare e dato ai responsabili la possibilità di negare il crimine commesso dal movimento sionista contro il popolo palestinese nel 1948. In altre parole voglio sostenere la fondatezza del paradigma della pulizia etnica e utilizzare per sostituire il paradigma della guerra come base per la ricerca accademica e per il dibattito pubblico sul 1948."

Alla base di questo lavoro c'è la volontà di sostenere come nei confronti del popolo palestinese sia stato perpetrato un vero e proprio crimine di guerra e come l'espropriazione delle sue terre da parte di Israele nel 1948 sia stata da subito e da allora sistematicamente negata, non riconosciuta come un fatto storico.

La storiografia israeliana ha sempre narrato che in quell’anno, allo scadere del mandato britannico in Palestina, le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due Stati: il movimento sionista era d’accordo, il mondo arabo no e, non solo entrò in guerra con Israele, ma convinse i palestinesi ad abbandonare i territori – nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di facilitare l’ingresso delle truppe arabe. 
La Nakba, in pratica, non sarebbe direttamente imputabile a Israele. 

Ma è andata davvero così?
L'esodo in massa di migliaia di palestinesi che avevano deciso di abbandonare temporaneamente case e villaggi è stato davvero un «trasferimento volontario»?

Gli storici revisionisti hanno, al contrario, trovato conferma dei molti casi di espulsioni di massa da villaggi e città, e di come essi siano stati accompagnati da un gran numero di atrocità e massacri da parte delle forze ebraiche, che già prima del 15 maggio erano riuscite a espellere forzatamente circa 250.000 palestinesi.

"La politica sionista iniziò come rappresaglia contro gli attacchi palestinesi nel febbraio del 1947 e si trasformò in seguito in un'iniziativa di pulizia etnica dell'intero paese nel marzo del 1948. Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti." 

L'Autore ripercorre la nascita del movimento sionista, emerso verso la fine del 1880 nell'Europa centrale e orientale come movimento di risveglio nazionale, e reso urgente dal fatto che gli ebrei che vivevano in quelle regioni avrebbero dovuto assimilarsi totalmente, pena il rischio di una continua persecuzione.

Perché il progetto sionista potesse realizzarsi, bisognava creare in Palestina "uno stato ebraico, sia come un rifugio sicuro per gli ebrei dalla persecuzione sia come una culla per un nuovo nazionalismo ebraico."
Ovviamente, questo Stato nascente non poteva che essere squisitamente ebraico, tanto nella sua struttura sociopolitica, quanto a livello etnico; del resto, l'obiettivo di dearabizzare la Palestina era uno dei pilastri fondamentali del pensiero sionista, sin dalla sua genesi e così come l'aveva pensato Theodor Herzl.

Poiché alla fine del mandato britannico, nel 1948, la comunità ebraica possedeva all'incirca il 5,8 per cento della terra in Palestina (quasi tutta la terra coltivata era di proprietà della popolazione nativa), era necessario ottenerne di più, per cui i primi coloni sionisti si impegnarono ad acquistare appezzamenti di terra così da entrare nel circuito del lavoro locale e creare reti sociali e comunitarie.

In che modo si poteva dar vita a un nuovo Stato? Con la forza dell'esercito, aspettando il momento giusto per poter trattare “militarmente” la realtà demografica del territorio, che era per lo più non ebraica.

Nel novembre del 1947 l'ONU aveva adottato la Risoluzione 181, che dava agli ebrei le terre più fertili, quasi tutti gli spazi rurali e urbani ebraici della Palestina ed includeva anche 400 (su oltre 1000) villaggi palestinesi entro i confini dello Stato ebraico.

La suddetta risoluzione non fu accolta bene dai palestinesi, le cui accese proteste - che ebbero luogo nei giorni successivi alla sua adozione - provocarono, come rappresaglia, una serie di attacchi da parte degli ebrei ai quartieri e ai villaggi.

Erano i primi giorni di dicembre del 1947 e la pulizia etnica della Palestina era iniziata.

Tutto era stato organizzato in modo preciso: "documenti israeliani rilasciati dagli archivi IDF alla fine degli anni Novanta indicano chiaramente che, contrariamente a quanto hanno affermato storici come Morris, il Piano Dalet fu inviato ai comandanti delle brigate non come generiche linee guida da eseguire, ma come precisi ordini operativi".
Ad es., venivano segnati in modo dettagliato la collocazione di ogni villaggio, le vie di accesso, il tipo di terreno, la presenza di sorgenti d'acqua, le principali fonti di reddito, la composizione sociopolitica, le affiliazioni religiose, l'età degli uomini e molti altri dettagli.

A metà febbraio '48 le truppe ebraiche in un sol giorno evacuarono cinque villaggi; con l'inizio (da marzo) del Piano Dalet. - che organizzava le missioni delle diverse strutture armate dell'Haganà *, e preparava l'offensiva con l'obiettivo di assumere il controllo delle zone dello Stato ebraico e difenderne le frontiere - numerosi furono i massacri, tra cui quello di Deir Yassin, un villaggio pastorale e amico che aveva sottoscritto un patto di non aggressione con l’Haganà a Gerusalemme, ma che fu condannato a essere distrutto; i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccisero molti abitanti (tra cui 30 neonati) e i sopravvissuti furono poi radunati in un posto e comunque ammazzati a sangue freddo, i loro corpi seviziati, e molte donne vennero violentate e poi uccise.

La strage di Deir Yassin è stata una sorta di avvertimento per tutti i palestinesi: se vi rifiutate di abbandonare le case e fuggire, questo è ciò che vi accadrà.

Anche il villaggio di Tantura ebbe un destino triste: tanta gente fu uccisa a sangue freddo sulla spiaggia e in particolare ci fu una sistematica esecuzione di palestinesi giovani e forti.

A Lydd ci fu una vera e propria orgia di uccisioni e saccheggi: 426 uomini, donne e bambini furono uccisi, 50.000 persone vennero costrette a mettersi in marcia verso la Cisgiordania; stessa cosa accadde alla popolazione di Ramla, costretta a marciare, senza cibo e acqua, sempre verso la Cisgiordania; tanti morirono di sete e di fame lungo la via.
Anche nel  villaggio di Sa’sa le truppe ebraiche perpetrarono un massacro in cui furono uccisi anche dei bambini; a Dawaymeh i soldati circondarono il villaggio su tre fianchi lasciando aperto il lato est perché  gli abitanti potessero andarsene in un'ora di tempo, e poiché non ci riuscirono, le truppe cominciarono a sparare alla cieca.

"...i soldati ebrei che presero parte al massacro riferirono scene raccapriccianti: neonati col cranio spaccato, donne violentate o bruciate vive dentro casa, uomini uccisi a coltellate".

Tanti, troppi sono stati i palestinesi brutalmente ammazzati e nessuno dei militari israeliani colpevoli fu mai processato per crimini di guerra, nonostante le prove; le fonti palestinesi, utilizzando sia gli archivi militari israeliani sia le storie orali, elencano almeno trentuno massacri certi.

Anche quando la pulizia etnica giunse al termine, le sofferenze non finirono: circa 8000 persone trascorsero il 1949 in campi di prigionia, altre subirono violenze  e vessazioni nelle città sotto il governo
militare imposto da Israele; le case continuarono ad essere saccheggiate, i campi confiscati e furono costantemente violati diritti fondamentali.

Nella Nakba furono distrutti campi, case, moschee... e un'intera comunità con tutte le sue peculiarità, la sua storia; la geografia umana della Palestina nel suo insieme fu costretta a subire mutamenti, ogni carattere arabo delle città fu cancellato grazie alla distruzione di grandi quartieri, e questo con lo scopo di spazzare via la storia e la cultura di un popolo per far posto a luoghi ebraici “antichi” o per soli ebrei.

Il punto nevralgico, sottolineato con forza da Pappe, è la responsabilità morale, giuridica, politica che Israele ha verso i palestinesi: parlare di pulizia etnica per indicare quello che Israele fece nel ’48, equivale ad accusare lo Stato d’Israele, nel linguaggio giuridico internazionale, di un crimine contro l’umanità. 

Come dicevo all'inizio, se per un popolo il 1948 è stato un anno di gioia e rinascita, per un altro (i palestinesi) esso è il cuore del problema, è la chiave per pensare ad una possibile e concreta soluzione del "conflitto"; da troppi anni, ormai, ai palestinesi non sono riconosciuti i loro diritti legali, in particolare il diritto al ritorno, tra l'altro garantito dalle Nazioni Unite.

Per gli israeliani, riconoscere che i palestinesi siano (state) vittime delle azioni di Israele è fonte di profondo turbamento in quanto questo getterebbe un'ombra sui fondamenti dello Stato stesso, e metterebbe in evidenza i problemi etici - con implicazioni annesse - legati  al riconoscimento di queste ingiustizie perpetrate ai danni dei nativi.

Ogni tentativo di risolvere la questione israelo-palestinese non potrà che fallire fino a quando non sarà correttamente identificata l’ideologia che tuttora guida la politica israeliana nei confronti dei palestinesi. 

"Il problema di Israele non è mai stato il giudaismo: il giudaismo presenta svariate facce e molte di queste forniscono una solida base per la pace e la coabitazione; il problema è la natura etnica del sionismo. Il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i palestinesi."


Ritengo questo saggio davvero di grande interesse, ho apprezzato molto la ricca bibliografia alla fine di ogni capitolo che va a corroborare un'analisi dei fatti lucida e minuziosa; il linguaggio è chiaro e, a mio avviso, fruibile ai più (per lo meno a quanti abbiano un minimo di dimestichezza con i libri che trattano argomenti di carattere storico-politico); spiega davvero bene quel che è accaduto nei mesi che hanno preceduto e che son seguiti alla nascita dello Stato d'Israele, il ruolo di Ben Gurion, l'indifferenza degli inglesi davanti alle atrocità commesse ecc..., e di certo stimola il lettore ad interessarsi alla questione in maniera più approfondita e mettendo da parte preconcetti o convinzioni errate/imprecise/parziali.
Leggere cosa hanno dovuto affrontare e subire tanti innocenti, di quante vite siano state selvaggiamente spezzate e sconvolte, di come questo martirio non sia ancora terminato per i palestinesi, se da una parte è stato duro e difficile, dall'altra è stato necessario.

Leggetelo.



* Principale organizzazione militare sionista in Palestina durante il mandato britannico.

domenica 5 dicembre 2021

Recensione: IL KILLER DEL LOTO di Marco De Fazi



A Minneapolis viene rinvenuta una testa umana, recisa di netto, nei pressi del fiume; nella bocca della povera vittima c'è un fiore di loto e alla base del collo il numero quattro tatuato.
Cosa vogliono dire questi indizi? C'è un pericoloso serial killer a cui dare la caccia e il detective Clay Stone si mette subito sulle sue tracce, rendendosi presto conto di essere entrato in un macabro meccanismo ad orologeria che dovrà superare per riuscire a stanare il killer del loto.



IL KILLER DEL LOTO
di Marco De Fazi



Porto Seguro Ed.
246 pp
Il giovane detective Clay Stone viene chiamato a indagare sull'identità del cadavere che giace presso il fiume, assieme a Thomas Rabbit, un giovane esperto forense della Polizia Scientifica: a chi appartiene il cadavere mutilato e, soprattutto, di chi è la mano assassina?

A metter fretta alla polizia affinché trovi al più presto il colpevole, è il ritrovamento, il giorno seguente, di una seconda testa, sempre con un fiore di loto inserito in bocca e un tatuaggio con il numero tre sul collo.

Forse il fiore di loto è una sorta di macabra "firma" con cui l'omicida desidera essere identificato? 
E i tatuaggi (in numero decrescente) cosa possono voler dire? Il killer ha dato probabilmente il via ad un terribile e sanguinoso countdown?
Se così fosse, è presumibile che a breve ci saranno (almeno) altri due cadaveri!
Per averne conferma, Clay sa di dover indagare sulle vite delle vittime, così da capire cosa le legava, perché l'assassino ha scelto proprio loro e perché le ha uccise in quella maniera.
Una cosa è certa: non sono di fronte ad omicidi commessi in un impeto di rabbia, tutt'altro: ogni particolare è stato ponderato, non c'è improvvisazione e sulla scena del crimine non è stata riscontrata la minima traccia dell'assassino, il quale è evidentemente molto preparato ed organizzato, minuzioso nell'organizzazione di tutto ciò che anticipa e segue gli omicidi.

Determinato a risolvere il complicato caso, Clay scopre che in effetti le vittime - cui si aggiunge, purtroppo, la terza - hanno una cosa in comune, accaduta nella notte di Natale del 1983, che le ha viste  coinvolte (assieme ad una quarta persona, che rischia anch'essa di finire nelle mani del killer del loto) in quanto tutte presenti in una specifica situazione, che ha stravolto la vita di un uomo e della sua famiglia.

E se le morti di oggi fossero collegate a ciò che accadde in passato, nel corso di quella sventurata notte?

Clay riesce ad arrivare finanche al nome del possibile assassino, ma ciò che non riesce a mettere totalmente a fuoco è la risposta ad una fondamentale domanda: dopo più di venti anni, come ha fatto il killer del loto a far sì che i quattro uomini (ciascuno con la propria vita, il proprio lavoro, la famiglia, gli impegni...), i quali non sono da moltissimi anni in contatto e vivono anche in differenti città, potessero ritrovarsi tutti a Minneapolis a distanza di pochi giorni?

Il dubbio si insinua nella mente del detective: e se ci fosse un informatore, una talpa all'interno del suo distretto? Ma chi potrebbe mai essere in combutta con un criminale?
Certo non Rabbit, amico e collega impeccabile ed intelligente, il cui contributo all'indagine è preziosa; forse quella mezza matta di Dana, una poliziotta dalla testa calda e dal grilletto facile? Dopotutto, tutti sanno in polizia che ha perso non poca lucidità da quando le è accaduta una disgrazia famigliare da cui non si è più ripresa!

Come se non bastasse, a mettergli pressione si aggiungono le preoccupanti minacce da parte dell'assassino nei confronti dello stesso detective e della compagna, Amanda.

Ma Clay Stone non si fa scoraggiare, è intenzionato ad andare fino in fondo e solo ponendo la giusta attenzione a tanti dettagli e facendosi le opportune domande, potrà avvicinarsi sempre più alla soluzione del caso.

Il detective Stone è un protagonista che attira da subito le simpatie del lettore perché è giovane, intelligente, sveglio, determinato e scrupoloso; il lettore non ha da arrovellarsi il cervello nella scoperta dell'identità dell'assassino (facilmente ipotizzabile abbastanza presto rispetto allo sviluppo della storia), né sulla ragione dei delitti né sul perché della scelta delle vittime, ma ciò che su cui si sofferma l'attenzione è altro, come ad es. la presenza di una possibile talpa in polizia o su come è nato e formato nella mente dell'assassino il suo piano criminale, progettato con meticolosità e tanta pazienza.

A tal proposito, l'Autore ha scelto di "dividere" la narrazione in due parti, una in cui seguiamo lo svolgersi delle indagini guidate da Clay Stone, e l'altra in cui, appunto, entriamo nella vita e nelle scelte dell'assassino.

Grazie al linguaggio immediato, al ritmo spedito e all'abbondanza di dialoghi, il thriller di Marco De Fazi risulta un'interessante e piacevole lettura. 

sabato 4 dicembre 2021

Occhio ai libri (narrativa - paranormal romance) - SEGNALAZIONE

 

Buon sabato, lettori!

Oggi voglio porre alla vostra attenzione un paio di pubblicazioni che spero possano catturare il vostro interesse.

Partiamo da un libro che è un misto di autobiografia, storia d'amore (in realtà solo allegorica) e narrativa spirituale; una lettura impegnativa ma che si preannuncia ricca di spunti di riflessione importanti.



"Le sette porte. Storia di un amore" 
di Giovanni Boschetti

BastogiLibri
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Riduttivo parlare di un solo protagonista in questa narrazione, che segue passaggi a prima vista non ben definiti, ma che nel loro insieme hanno una logica. L’unica forse che dovrebbe accompagnare l’Uomo, la logica dell’Amore.
Siamo abituati a collocare questo sentimento in un quadro familiare/affettivo ben definito. Non è questa la storia.
Scrivere dell’amore in un contesto di figure retoriche non è facile, eppure l’autore, immerge il lettore in una sequenza di immagini che fanno da cornice all’arte Sacra delle Icone Russe, alle quali si ispira come estimatore e studioso e non per ultimo come uomo di Fede.

Questa è la sua storia? Inizia come autobiografia, ma non segue i canoni di lettura ai quali siamo abituati. 
Ora fanciullo, poi adolescente ed infine adulto, racconta di un mondo condito da un alone di mistero, pregno di entità che lo accompagnano verso il viaggio dell’Uomo. 
È in quel momento che l’amore verso Dio e quelle figure che tanto ha amato e dalle quali si è sentito amato, si allontanano, lasciandogli un vuoto che sembra incolmabile. Ma sono loro che l’hanno abbandonato o è lui che li ha esclusi in un momento dove l’Amore si fa carne e la presenza di un palpabile Angelo confonde la mente, le immagini e i sentimenti?

La storia si snoda in una forma singolare, soprattutto per come è presentata. Non ci sono riferimenti storici precisi e tantomeno non è collocata in una determinata epoca.

Non è un libro per tutti e non è facile identificare il lettore ideale. Potrebbe essere un amante del sovrannaturale o dei concetti filosofici come quelli di Pavel Florenskij spesso menzionati e, allo stesso tempo, essere un matematico. In fondo, l’autore è fermamente convinto che il Tutto ruoti intorno alla scienza perfetta della matematica e che questa governi il Cosmo.
Non mancano passaggi di vita vera, dove anche il piacere della carne viene raccontata con minuziosi particolari, anche se strettamente legati alla visione dell’amore, inteso come sentimento puro e inviolabile, tanto che porta uno dei protagonisti, il principale, a scegliere la morte come dono d’Amore.

Sacrificare sé stessi per un fine Superiore. Attraversare le sette porte, viaggiare in quelle dimensioni, che non sono altro che finestre sul mondo degli umani, per ripercorrere la storia dell’Uomo, di tutti gli uomini, dove poter purificare lo spirito e avere il privilegio di far parte del Tutto. Una ricerca di quell’Amore assoluto e agognato fin da piccolo, come se la morte fosse l’aspettativa per una vita migliore.

Un testo arricchito da ipotesi, avvalorate da studiosi, su cosa saremo oltre la vita.
Non per ultimo, gli studi sull’Arte Sacra delle Icone, hanno dato una visione delle immagini che vanno oltre alle stesse immagini.

Breve Biografia di Giovanni Boschetti
Nasce a Montichiari, in provincia di Brescia, nel primo dopoguerra, durante la rinascita economica.
Le vicissitudini della vita lo hanno portato a vivere più esperienze in ambiti diversi.
Da sempre appassionato di oggetti antichi, ha avuto la fortuna di incontrare, ancor giovane, l’Arte delle Antiche Icone Russe, diventando, in seguito, un appassionato e un esperto.
È stato uno fra i primi studiosi italiani di questa importante Arte Sacra, interessandosi, parallelamente, anche all’ arte delle Avanguardie Russe.
Ha scritto diversi libri su queste due forme d’arte e, con orgoglio personale, ha composto,  autopubblicandosi, una storia per bambini, per far conoscere le Icone e la loro storia anche ai più piccoli, attualmente tradotta e pubblicata in Russia. Ha curato decine di mostre sull’arte russa in ogni parte d’Italia, collaborando, a livello internazionale, con alcuni esperti russi sulla divulgazione di quest’arte. Ha sempre avuto un desiderio latente di scrivere.
In questa opera, rievoca momenti di vita vera, esperienze vissute, contornate da un alone di mistero che solleticano la fantasia, ma senza alcuna presunzione, tanto che a tratti sembra quasi voler negare a se stesso ciò che lo ha spinto a scrivere, ma soprattutto, questo testo è arricchito da ipotesi, avvalorate da studiosi, su cosa saremo oltre la vita.



********************


Il secondo libro è una lettura leggera e che può conquistare chi è alla ricerca di romanticismo e passione in un'atmosfera paranormal.

La Mia Tempesta fa parte della serie Dáimōn Series - Vol II ed è un volume autoconclusivo, anche se si consiglia la lettura del precedente volume (IL MIO DEMONE - recensione) per avere una migliore comprensione delle vicende narrate nella storia.


"LA MIA TEMPESTA" 
di MONICA B

335 pp
2.99 euro (ebook)
14.55 euro (cart.)
disponibile su Kindle Unlimited

Trama 

LUI
La mia esistenza è una bugia che affronto con leggerezza e noncuranza. Sono un demone burlone di cui nessuno conosce la vera natura. Ero perso nel buio finchè non sei diventata la mia luce.

LEI 
Mi hanno definita sbagliata, un prodotto spregevole della vita. Lotto per una normalità che non riesco ad afferrare mentre nascondo al mondo l’oscurità che mi sommerge. Sei l’imprevisto che mi fa sentire giusta. 

Mentre la lotta negli Inferi continua e vecchi nemici tramano nell’ombra, c’è chi combatte una battaglia completamente diversa. 
L’incontro tra Dantalion e Liberty è imprevisto. Un demone a cui manca il Paradiso e una mortale che, invece, ce l’ha nel sangue. 
Nulla possono contro l’attrazione che provano. Nulla possono contro il destino che si ostina a spingerli l’uno tra le braccia dell’altro. 
Due creature che si legano mentre il mondo attorno a loro brucia. L’unica possibilità per sopravvivere è credere in loro stessi. 
Dantalion e Liberty non potrebbero essere più diversi: che succederà quando fuoco e ghiaccio si incontreranno?




giovedì 2 dicembre 2021

Le mie letture di novembre 2021

 

Ed eccomi alla mia penultima monthly recap del 2021.

,

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA di Ilan Pappè: lo storiografo israeliano fa un'analisi lucida di ciò che ha portato alla nascita dello Stato d'Israele e di come quest'ultimo sia stato fondato a scapito della popolazione palestinese, vittima di un vero e proprio piano di pulizia etnica (5/5). A BREVE LA RECENSIONE
CON IL VENTO NEI CAPELLI di Salwa Salem: una palestinese racconta la propria vita, a partire dalla tragedia dell'espropriazione della propria casa ad opera dei sionisti e le successive esperienze da emigrata (5/5).
PER MIA COLPA di Piergiorgio Pulixi: una donna dalla vita piatta scompare all'improvviso; una poliziotta è alla sua ricerca un anno dopo (5/5).
TERRA LEGGERA di Costanzo Gianfranco Sarlo: una storia d'amore nata nei tormentati anni Settanta (4/5).
L'ISOLA SOTTO IL MARE di Isabel Allende: la protagonista è una donna di colore, schiava, che non smette di sperare di essere un giorno libera (4/5).
OTELLO E LA MALEDIZIONE DEGLI HOTEL di Pablo Ayo: le divertenti peripezie di un giovane e sfortunato informatico su cui pende una bizzarra maledizione (5/5). 
IL MIO DEMONE di Monica B.: un demone pericoloso e bellissimo si innamora di un'umana. Come andrà a finire? (3,5/5).
DONNE CHE PARLANO di Miriam Toews: un gruppo di donne subisce violenze da alcuni uomini della comunità mennonita cui appartengono: cosa decideranno di fare per preservare se stesse e i figli?(3,5/5)
L'IMPRONTA DEL MALE di Manuel Ríos San Martín: una serie di oscuri ed inquietanti omicidi avvengono seguendo rituali primitivi. (3,5/5).

Tra le letture più belle di novembre ci sono state il saggio storico di Pappè (DA LEGGERE) e il giallo di Pulixi; ma in generale devo dire che tutte le letture novembrine mi hanno piacevolmente intrattenuta e "diversamente arricchita".

Proseguo con la serie tv OUTLANDER, che trovo sempre più appassionante.


CITAZIONE DEL MESE

"Voglio un autunno rosso come l’amore, giallo come il sole ancora caldo nel cielo, arancione come i tramonti accesi al finire del giorno, porpora come i granelli d’uva da sgranocchiare. Voglio un autunno da scoprire, vivere, assaggiare." 
Stephen Littleword







CANZONE DEL MESE




Difendimi per sempre in questo mondo in tempesta
In cui l'amore è il solo grido di protesta di noi uomini
Riesco a non arrendermi
Se ci sei tu a difendermi

lunedì 29 novembre 2021

Recensione: CON IL VENTO NEI CAPELLI di Salwa Salem



La storia della palestinese Salwa Salem e della sua famiglia permette al lettore di avvicinarsi anche alla storia di un pezzo di Palestina dagli anni Trenta ai Novanta.
Da questo racconto autobiografico emerge non soltanto l'accusa di una donna colta, fiera, libera ed intelligente contro il dominio economico, sociale e religioso maschile, ma al contempo il desiderio che i soprusi subiti dal proprio popolo non siano dimenticati e che sia ancora possibile costruire una strada verso la mediazione e il rispetto reciproco.


CON IL VENTO NEI CAPELLI 
di Salwa Salem



Giunti Ed.
L. Maritano (a cura di)
192 pp
"Ho ancora voglia di partecipare, di dare, di lavorare, di vedere la Palestina libera, di vedere i miei figli crescere, proteggerli ancora e dar loro altro amore. (...) tutto viene dimenticato e io sono una persona qualunque. Per questo desidero tanto raccontare la mia storia, farne un libro. (...) Chiudo gli occhi, ripenso alla mia vita, alla strada che ho fatto prima di ritrovarmi qui, alle mie radici. Rivedo le luci della mia terra, i riflessi d'argento delle distese di ulivi, riesco a sentire il profumo dei fiori d'arancio, l'aria fresca e il sole finalmente tagliente delle prime giornate di primavera."

Salwa è nata nel 1940 in una terra da troppo tempo teatro di aspri e sanguinosi conflitti e dalla quale è stata, negli anni, costretta a un lungo esilio, alla ricerca costante di un posto in cui poter indossare ali di libertà, per spiccare il volo come donna libera, indipendente,  capace di costruirsi il proprio futuro.
Senza mai dimenticare le proprie radici palestinesi.

Ha solamente otto anni Salwa quando con la sua famiglia viene sradicata dal suo villaggio (Yafa, vale a dire Giaffa), dalla sua terra, e con loro tre quarti della popolazione palestinese, in seguito alla fondazione dello Stato di Israele.

Si trasferisce a Nablus, dove trascorre l'infanzia e l'adolescenza, mostrando sin da piccola un carattere risoluto, grande curiosità e vivacità intellettuali, che la spingono ad osservare l'ambiente (famigliare e oltre) con quello spirito critico che non perderà mai, ma che anzi si affinerà sempre più.
Il suo modello è il fratello maggiore, impegnato nella lotta politica, alla quale si avvicina anche lei, e a soli 15 anni Salwa entra nel partito Ba'ath, fa volantinaggio per la causa palestinese, discute con le compagne sui diritti delle donne, contravvenendo ai voleri dei genitori, che la vorrebbero sottomessa, tranquilla, obbediente, lontana da velleità di ragazzina ribelle e recalcitrante verso i dettami della propria religione e tradizione. Insomma, preferirebbero poter organizzare il suo fidanzamento con un buon ragazzo piuttosto che vederla per le strade a manifestare.

Da noi esiste un'espressione particolare per indicare le ragazze troppo libere: ala hall shàriha che significa “con i capelli sciolti”. Ho sempre trovato molto singolare che un'immagine così bella, l'immagine di una ragazza con i capelli al vento, fosse un'espressione offensiva


Crescendo, il vento non lascia i suoi capelli, anzi; negli anni successivi lotta per poter studiare, lavora come insegnante in Kuwait - acquisendo la tanto agognata libertà e l'indipendenza economica - e riesce a iscriversi all'università di Damasco. 

Si sposa per amore, e col marito si trasferisce a Vienna e poi in Italia.
Nella prima delle città europee non si sentirà mai a proprio agio a causa del razzismo nei confronti degli arabi, mentre in Italia (a Parma, dove vivrà fino alla fine sei suoi giorni) si sentirà accolta e proseguirà la sua battaglia per dar voce alle donne palestinesi.

La storia di Salwa è anzitutto quella della sua vita e di tutti quei fattori storici ed economici che hanno influito su di essa, delle sue convinzioni politiche, delle non facili né scontate scelte effettuate, divise fra emancipazione e tradizione, fra desiderio di pace e necessità di lotta.

È la storia di una donna dalla grande e definita personalità, che ha sempre avuto puntato ad essere ed esprimere se stessa e la propria voglia di emancipazione, autorealizzazione personale, senza con questo venir meno alle proprie responsabilità di figlia, sorella, madre, moglie.
Salwa è sempre stata avida di cultura, si è formata leggendo i libri passateli dal fratello - non solo politici ma anche filosofici e i classici -, amava Kafka e Simone de Beauvoir insieme alla letteratura araba.

Pur essendo sempre la stessa - in quanto a temperamento combattivo, a voglia di vivere, acculturarsi, migliorarsi, relazionarsi agli altri - la vediamo comunque evolvere e maturare negli anni: se a Nablus è un'adolescente con dei sogni, delle speranze che cozzavano contro un tipo di società e di educazione che alimentavano il suo spirito ribelle e i suoi tentativi di portare avanti le proprie idee a dispetto dei poveri genitori, in Kuwàit la ritroviamo più pacata (anche il ritmo narrativo lo è, rispetto al periodo di vita precedente, più frenetico e vivace), più adulta, desiderosa di mantenere la propria autonomia economica e raggiungere una realizzazione personale, sia attraverso il lavoro che costruendosi una famiglia.

L'Autrice si sofferma su diverse tematiche significative, come la condizione delle donne arabe, le difficoltà di integrazione per chi emigra e come e quanto questa esperienza influisca sul singolo e sulle famiglie a livello personale, sociale, culturale.

Attraverso una storia che è in prima linea personale e anche famigliare (interessanti i ritratti dei genitori, della madre in primis, una donna forte come lei), inevitabilmente veniamo avvicinati a quella di un popolo, alla sua società e alla sua identità.
Ma soprattutto, al suo diritto di esistere, di non essere dimenticato, cancellato, ignorato, sminuito.

Salwa mette di continuo enfasi sulle ragioni dei palestinesi tanto trascurate dall’informazione occidentale; ci racconta del difficile rapporto col regime giordano, dei contrasti con la società kuwaitiana e saudita, delle difficoltà vissute da chi è stato costretto a lasciare la propria casa negli anni '40, dell'impossibilità di non poterci tornare, della brutta esperienza che è stata, ad es, attraversare la frontiera giordana-israeliana, e di come si sia sentita ferita, umiliata.

"Vogliono negarci un diritto elementare. Ma nessuna forza al mondo, nessuna politica al mondo potrà mai convincermi che quella non è casa mia, la terra dove sono cresciuta, dove vivono i miei genitori e le mie sorelle."

Commovente l'episodio del padre che torna nella loro vecchia casa di Yafa (vi torna diciannove anni dopo averla dovuta lasciare, in un drammatico ed indimenticabile fuggi fuggi), con le chiavi di allora... ma la trova occupata (ovviamente, purtroppo), e di come questo lo abbia avvilito profondamente.

"L’idea di ritornare non si abbandona mai quando ti costringono a lasciare la tua terra in un modo così tragico. C’è sempre la nostalgia e la voglia di rimettere le cose come erano. Fu terribile sentirsi all’improvviso estranei, esclusi..."

Avvertiamo forte il dolore, la nostalgia, il senso di profonda ingiustizia provate a causa della tragedia vissuta dal proprio popolo, cacciato dalla terra in cui era stabilmente insediato, in cui aveva case, terreni, attività..., una terra alla quale appartiene, per far posto a un nuovo ordine di cose. 

"Era troppo difficile accettare che in un attimo tutto fosse andato perduto, che sulla nostra terra ora esisteva un nuovo stato, con persone nuove che non avevano mai visto la Palestina, che non ne conoscevano le tradizioni, la lingua, la terra, i profumi. Era una tragedia troppo grande. Io vivevo nel rimpianto del tempo felice di Yafa."

Salwa descrive la propria amata gente come condannata a non conoscere l’allegria, il divertimento, perché non ha avuto tempo di divertirsi per colpa della Nakba (il "disastro") e di tutto ciò che essa ha significato e a cui ha fatto seguito, perché le famiglie sono state divise e hanno dovuto vivere lontane dalle loro case, subendo un’oppressione psicologica e fisica che ha allontanato ogni felicità e spensieratezza: "E questo accomuna tutta la popolazione palestinese in esilio: noi non sappiamo divertirci."

Se negli anni in cui ha vissuto in Kuwàit, a Vienna e (per breve tempo) in Arabia Saudita, Salwa si è meno attivamente mossa per tenere i riflettori accesi sulle condizioni di vita dei palestinesi nei Territori Occupati, questo impegno civile si ridesta nel "periodo italiano", a partire dagli anni Ottanta, e la porta a partecipare e far sentire la propria voce in occasione di 
manifestazioni, riunioni politiche ecc..., dando così il proprio concreto contributo alla causa palestinese, raccontandone la storia, rimasta a lungo poco e mal conosciuta.

La vita di Salwa Salem ci scorre come un romanzo e personalmente la ritengo non solo una narrazione piacevole ma altresì interessante ed utile per chi voglia accostarsi alla tematica principale (ciò che ha vissuto e vive ancora il popolo di Palestina a motivo dell'occupazione israeliana) in modo non complesso o eccessivamente impegnativo.




Ho voluto pubblicare la recensione in questo giorno non a caso, ma perché oggi si celebra la Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese, istituita nel 1977 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. L'anno scorso ho segnalato alcune scrittrici palestinesi in QUESTO POST dedicato.

sabato 27 novembre 2021

Libri in lettura (novembre 2021)



Cari lettori, cosa state leggendo di bello in questi giorni di fine novembre?

Io ho in lettura IL KILLER DEL LOTO (M. De Fazi), che ho presentato in QUESTO POST e altri due romanzi.

Uno appartiene al genere western ed è per me una sorta di "coccola letteraria autunnale"; non chiedetemi perché, è una cosa che dico andando "a sentimento" :-D 


IL GRANDE CIELO di Alfred Bertram Guthrie (Ed. Mattioli, trad. N. Manuppelli, 452 pp)


Boone è un ragazzo che vive nel Kentucky con la famiglia in un momento in cui tutti si stanno 
dirigendo a ovest per trovare fortuna. 
Vittima, con la madre e il fratello, delle violenze del padre, una sera reagisce e colpisce il padre alla testa. 
Consapevole di averlo ferito e forse ucciso, decide di scappare per raggiungere lo zio cacciatore. 
Lungo la strada verso St. Louis incontra Jim Deakins e insieme iniziano un lungo viaggio-odissea, alla ricerca della nuova frontiera ma anche del significato stesso di libertà. 

Il romanzo esce in libreria nella primavera del 1947. 
È il primo di una saga di sei volumi.




I RAGAZZI DELLA NICKEL di Colson Whitehead (Mondadori, trad. S. Pareschi, 216 pp).


Il movimento per i diritti civili sta prendendo piede anche nell’enclave nera di Frenchtown (Tallahassee) ed Elwood Curtis, un ragazzino abbandonato dai genitori e cresciuto dalla nonna, assimila tutte le massime e gli insegnamenti di Martin Luther King. 
Pieno di talento e molto coscienzioso, sta per iniziare a frequentare il college del posto, quando incautamente accetta un passaggio in auto. Ma per un ragazzo nero dei primi anni Sessanta, anche l’errore più innocente può rivelarsi fatale. Elwood viene spedito in un riformatorio chiamato Nickel Academy, la cui missione è provvedere a un’educazione fisica, intellettuale e morale così che il piccolo delinquente possa diventare un uomo onesto e rispettabile. Questo sulla carta. 
Perché nei fatti la Nickel Academy è un vero e proprio labirinto degli orrori. 

venerdì 26 novembre 2021

Recensione: PER MIA COLPA di Piergiorgio Pulixi



Virginia Piras scompare dall'oggi al domani, senza che di lei si sappia più nulla, lasciando nel dolore marito e figlia. Cosa l'è successo? È andata via di sua spontanea volontà o qualcuno le ha fatto del male?
Ad indagare sulla scomparsa di una donna dall'esistenza quieta e anonima ci pensa Giulia Riva, vice-commissaria a Cagliari, alle prese con la verità che ognuno di noi indossa delle maschere per preservare le proprie emozioni, quelle più travolgenti, che vorremmo sopprimere per continuare a vivere serenamente, ma che a volte hanno il sopravvento e ci facciamo da esse travolgere pur di sentirci vivi, anche a costo di pagarne amare conseguenze.


 PER MIA COLPA 
di Piergiorgio Pulixi




Mondadori
248 pp

Nulla accade per caso e questo vale per la vita in generale, lavoro compreso.

E quando Giulia Riva - vicecommissaria a Cagliari - si imbatte in un caso di omicidio commesso da una donna e moglie stanca dei continui tradimenti del marito e delle perfide umiliazioni da parte dell'amante di lui, capisce che, se vuole salvarsi dal commettere un'azione scellerata e irrazionale di cui potrebbe pentirsi, deve dare un taglio netto ad una relazione tossica.

Giulia, infatti, ha una relazione clandestina con il suo diretto superiore Roberto; da quattro anni, ormai, vanno avanti con incontri fugaci pieni di passione e complicità ma che alla fine non lasciano nulla di più a Giulia, la quale è stanca di tutto questo, consapevole che lui non lascerà mai la famiglia per lei,  che resta l'unica a rimetterci in questa storia che la vede legata ad un uomo con cui non ci sono prospettive di una relazione completa e appagante.

Dopotutto, quando torna a casa è sempre e soltanto lei quella che si ritrova sola in una casa le cui stanze risuonano di solitudine, a cercare di prender sonno in un letto troppo grande e con un posto vuoto accanto che Roberto non potrà mai riempire.
Se fosse per lui, continuerebbero così chissà per quanto, ma Giulia non ne può più: lo deve a se stessa e a quella dignità che nessuno deve permettersi di calpestare.

E allora, con un atto di coraggio, decide di prendere un'altra strada, di andarsene chiedendo un trasferimento; certo, le dispiace l'idea di lasciare Cagliari e l'amico e collega Flavio Caruso, ma è più forte la consapevolezza di stare sprecando tempo e sentimenti e, con essa, l'urgenza e la voglia di ricominciare da zero da un'altra parte.

C'è solo un problema, un ostacolo che si frappone improvvisamente tra la decisione presa e la possibilità ci metterla in atto concretamente e immediatamente: una mattina in commissario si presenta una bambina di 9 anni, che vuol parlare col commissario.
Sembra piccola e fragile, ma al di là del comprensibile nervosismo, Giulia nota negli occhi della bimba un fuoco, una tenacia e una forza che la impressionano.
Elisa non è andata a scuola e si è presentata in commissariato per pretendere l'attenzione della polizia; non è la prima volta che lo fa e non sarà neppure l'ultima se continuerà a non vedere risultati: sua mamma è sparita da un anno e sembra che ormai tutti l'abbiano dimenticata.
Cosa sta facendo di reale la polizia per ritrovarla?
La bimba è stanca di aspettarla invano; è convinta che sua mamma - Virginia Piras - sia viva e vuole che la polizia la trovi e la riporti a casa. 

Giulia è turbata e dispiaciuta per questa ragazzina che chissà quanto sta soffrendo perché sua madre se n'è andata e non ha fatto più ritorno, ma sa pure che non sta a lei (che tra l'altro non si è occupata personalmente del caso, il quale era di competenza di Flavio) fare promesse che potrebbe non essere in grado di mantenere.
Eppure, davanti a quello sguardo risoluto e supplichevole insieme, non riesce a non dire ad Elisa: "Vedrai, ritroveremo tua madre. È una promessa".

Tenere fede a queste parole, pronunciate con troppa fretta e sull'onda delle emozioni e dell'empatia, sarà molto complicato per la vicecommissaria, che però non si tira indietro e comincia subito a rivedere il fascicolo su Virginia per capire quali strade investigative sono state prese e a che punto sono arrivate le indagini.

Giulia non si fa illusioni: è passato un anno da quando la Piras è sparita - come si dice - senza lasciare tracce, come "svanita nel nulla", e ciò vuol dire che potrebbe essere morta.
Ma se così fosse, ci sarà pure un cadavere da qualche parte...: possibile che non si riesca a trovarlo?

E in che modo eventualmente è morta: si è tolta la vita (perché avrebbe dovuto?) o c'era qualcuno che poteva avere interesse a far fuori una donna che tutti descrivono come mite, una moglie devota e una madre serena? 

Il marito - che in questi casi è sempre in cima nella lista dei sospettati - pare avere un buon alibi e soprattutto ha sempre collaborato con la giustizia senza reticenze; anche adesso, risponde alle domande di Giulia e offre tutta la propria disponibilità, per cui, a meno che non sia un attore da Oscar o un killer professionista, sembra sinceramente estraneo alla scomparsa della moglie, che dice di amare.

Concentrandosi totalmente sulle indagini, Giulia si accorge che quello che sembrava un buon lavoro investigativo da parte dei colleghi, nasconde invece delle falle..., delle mancanze tutt'altro che irrilevanti e che potrebbero aver allontanato la polizia dalla ricerca della verità.

Questo rattrista molto Giulia perché sa che a occuparsene è stato il suo amico, l'ispettore Caruso, suo partner e mentore, che s'è fatto sfuggire troppe cose importanti, troppe domande che sarebbero potute diventare possibili piste.

Come mai? Eppure, Caruso è da sempre un ottimo poliziotto, capace, acuto, professionale.
O meglio, lo è stato, fino a prima di un evento che lo ha messo profondamente in crisi, un "incidente" sul lavoro che lo ha reso l'ombra di se stesso.
Il poliziotto non è più quello scrupoloso e attento di un tempo: ora è un mezzo ubriacone, che sparisce per ore, riducendosi a uno straccio per aver trangugiato troppe birre, lasciando nella preoccupazione chi gli vuol bene, tra cui la moglie e Giulia stessa.

Nel caso di Virginia sono stati commessi errori fatali e, per cercare di recuperare, la donna si fa assegnare il caso nella speranza di risolverlo ed evitare gravi conseguenze al suo amico. 

Più si addentra tra le pieghe della vita di Virginia, più avverte che ci sono particolari stonati che, lungi dall'essere dettagli insignificanti, si mettono in un angolino della sua mente e basta un'intuizione - apparentemente casuale - a far emergere in tutto il loro significato e in tutta la loro portata.

Virginia è dipinta da tutti come una persona tranquilla, senza grilli per la testa, così buona e mansueta da rasentare la passività: affidabile sul lavoro, madre attenta e premurosa (Elisa è figlia unica), moglie fedele e devota, donna fragile, insicura e depressa per il suo psicologo, figlia debole e remissiva a detta della madre, una donna glaciale e anaffettiva che non esita a descrivere la figlia con scarsa sensibilità e molta poca stima.

Ma se c'è una cosa che non va dimenticata o ignorata è che ciascuno di noi è capace di vivere anni (se non tutta la vita) indossando maschere, mostrando di sé una facciata che non ci rappresenta al 100%, nascondendo pensieri, desideri, pulsioni che nessuno conosce ma che non aspettano altro che il momento giusto per venir fuori.

Il dubbio si insinua nella mente di Giulia: e se Virginia avesse (avuto) una "vita parallela" a quella a tutti nota? Magari c'era un amante o comunque una persona importante per lei, e forse è questa che va cercata per capire che ne sia stato della mamma della piccola Elisa, i cui occhi chiedono a Giulia: "Ritrova la mia mamma e portala da me"?

Il racconto del presente (delle vicende personali e giudiziarie che vedono protagonista Giulia Riva) si alterna a quello del passato in cui leggiamo cosa e come stava vivendo Virginia Piras un anno prima della scomparsa, quando nella sua esistenza, fino a quel momento "consegnata a un solo binario", si è introdotta una presenza che ha portato una ventata di aria fresca, un fiume di sensazioni nuove, sconosciute, che le hanno provocato dei brividi: brividi di passione, di desiderio di piacere e di sentirsi viva, bella e desiderabile agli occhi di un uomo affascinante e che la fissa in un modo tale da smuoverle qualcosa dentro, fin nel profondo.
Un uomo incontrato per caso e dal cui sguardo magnetico non basta disancorarsi per dimenticarlo, perché s'è già impresso nella mente e nell'anima senza che lei abbia avuto il tempo di fuggire.
I brevi capitoli relativi a Virginia ci danno il ritratto di una donna sì fragile emotivamente, molto insicura e con poca autostima, ma anche quello di una donna passionale, che ha un fuoco dentro che finora è stato spento ma, che una volta riacceso, non può che esplodere in un incendio.

Come sempre, la penna di Piergiorgio Pulixi è così consapevole, sicura e fluida da far sì che il lettore "beva" i capitoli (mai lunghi, cosa che apprezzo sempre perché contribuiscono a dare un ritmo più serrato e una maggiore snellezza alla narrazione) con voracità, curiosità e coinvolgimento, con la voglia di sapere dove l'autore ci condurrà nella ricerca della verità, districando un nodo alla volta e senza mai perdere di vista l'aspetto empatico, lo sguardo sensibile e profondamente umano che avvolge il caso in oggetto.

Se c'è una cosa, su tutte, che ho amato di Giulia Riva, è stata la sua personalità e, in particolare, il suo approccio professionale: Giulia non è la poliziotta "dall'animo nero", dal passato oscuro, dal carattere difficile, un po' ombroso e asociale che spesso incontriamo nei noir/polizieschi con protagoniste femminili.
No, lei è adorabilmente e fieramente empatica, è emotivamente generosa, anche "fisica" nel suo rapporto con le persone coinvolte nei casi ai quali lavora.
A costo di eccedere e di arrivare ad atteggiamenti che non ci si aspetterebbe da un vicecommissario (il famoso e necessario "distacco professionale"), se ha voglia di abbracciare, dare una pacca sulla spalla, offrire la sigaretta o il proprio cappotto a un interrogato/sospettato, Giulia lo fa, e non solo, o non tanto, per conquistare la fiducia dell'altro e indurlo a sciogliergli la lingua perché confessi qualcosa, ma proprio perché non può fare a meno di entrare in contatto con l'altro.

"Ogni investigatore ha un proprio metodo d'indagine. Il mio va contro tutto quello che insegnano alla Scuola Ispettori, dove ti mettono in guardia dal coinvolgimento emotivo durante le inchieste. Molti riescono a rimanere impassibili e distaccati. Io no. Quando affronto un caso, che si tratti di omicidio, rapimento o stupro, divento la persona su cui sto indagando. Entro nella sua pelle, nei suoi pensieri, nella sua anima. Solo creando una connessione viscerale posso capire chi ha potuto farle del male. Spesso, soltanto guardando attraverso gli occhi della vittima riesci a farti un'idea del suo aggressore e delle motivazioni che l'hanno mosso."

Ecco, tra tutte le belle qualità di scrittore che Pulixi possiede, non smetto di dire ogni volta che quella da me maggiormente amata è la profonda delicatezza e sensibilità con cui sa far parlare le donne: le "sue" donne sono realistiche, lontane da qualsiasi eroismo avulso dalla realtà, ma anzi molto vicine a noi, nelle loro incoerenze, nei lati oscuri e in quelli luminosi, nei desideri espressi e in quelli che non riescono a confessare neppure a loro stesse; le persone che abitano le storie dello scrittore cagliaritano sono sempre così umanamente imperfette e fragile che in ogni caso, anche quando si arriva a fine libro e si scopre il colpevole, qualcosa dentro di noi ci suggerisce di andare oltre la semplice condanna, ma di cercare (senza giustificare) di capire e realizzare che non c'è essere umano che non abbia dentro di sè una parte oscura, più debole, e che a volte certe circostanze fanno sì che esca venga pericolosamente fuori.

Non mi resta che consigliare "Per mia colpa", un giallo poliziesco che vi catturerà ad ogni pagina, e per il misterioso caso in sé da risolvere e per la galleria di personaggi coinvolti e nelle cui esistenze l'Autore ci lascia entrare. 

lunedì 22 novembre 2021

Recensione: TERRA LEGGERA di Costanzo Gianfranco Sarlo

 

Terra leggera è un romanzo ambientato in un contesto storico complesso: quello delle contestazioni del Movimento del '77, precisamente siamo tra 1975 e il 1977. All'interno delle acque mosse di questo periodo nasce una storia d'amore anch'essa movimentata e attraversata da una certa irrequietezza, che ben riflette le contraddizioni e i fermenti di quegli anni.



TERRA LEGGERA
di Costanzo Gianfranco Sarlo


182 pp
(in pdf)
Il calabrese Francesco e la romana Arianna si conoscono da piccoli, hanno passato le vacanze insieme tra Montepaone e Caminia durante l'infanzia ma crescendo si sono allontanati.
Anche se negli anni dell'adolescenza son cresciuti in contesti differenti, facendo esperienze che li hanno formati in modo decisamente diverso, a un certo punto le loro strade tornano ad incrociarsi in un rapporto che non sarà solo amicizia ma neppure potrà mai definirsi una storia d'amore convenzionale.

Perchè ad essere non convenzionale e fuori dagli schemi è proprio lei, Arianna.

Quando un Francesco ormai adulto ritorna in Calabria, nei posti della sua gioventù, non ha altra scelta che rivivere, dopo quarant’anni, la storia e il periodo che più lo hanno segnato. 

È la storia che ha vissuto tra la fine del liceo e i primi anni di università con Arianna, una forza della natura da cui si sentiva irresistibilmente attratto.

Lei, sicura di sé, convinta delle sue idee, maturata dalle esperienze vissute negli ambienti femministi e della sinistra, partecipa attivamente allo spirito contestatario di quegli anni; lui timido e insicuro, si tiene al sicuro all'ombra della mentalità piccolo-borghese della sua famiglia.

I due hanno personalità completamente agli antipodi, ma si sa: al cuor non si comanda e Francesco è innamorato di lei, di quell'Arianna che non è sicuro di conoscere più tanto bene e che ha acquisito, rispetto a lui, uno stile di vita più libero e disinvolto. 

Forse è proprio questo ad attrarlo di lei, con cui inizia una sorta di “amicizia sessualizzata”, che però non resta finalizzata al rapporto fisico in sè, ma viene quotidianamente arricchita da una frequentazione sempre stimolante e basata sulla sincerità, sul rispetto e sulla comprensione reciproca.

È nell'estate del 1976 che i due ragazzi si avvicinano sempre di più. 
Il tranquillo Francesco prova una certa ammirazione per Arianna e la sostiene nelle sue idee "rivoluzionarie", difendendola con gli amici e davanti al padre di lei, deluso all'idea di questa figlia ribelle che ha deciso - nientemeno! - di iscriversi al Dams a Bologna.

Ma a sua volta Arianna è uno stimolo per Francesco affinché diventi protagonista della propria vita.

Quando lei va a Bologna e lui si iscrive a Perugia a Scienze Politiche, continuano comunque a sentirsi e Arianna lo invita a fare un salto da lei a Bologna.

Qui Francesco viene in contatto con le idee, l’ambiente e le atmosfere del nascente Movimento del ’77. Piazza Verdi, il teatro di strada, le osterie, Radio Alice, le Jacquerie, le “case aperte”: il giovanotto conosce una realtà cui non è abituato, si apre a nuove esperienze che lo portano a mettere in
discussione i riferimenti e gli schemi in cui è finora vissuto. 

Intanto le facoltà vengono occupate, il movimento del '77 prende sempre più forza e gli eventi si succedono in modo frenetico, fino ad arrivare a un fatto che fa precipitare la situazione: un carabiniere, durante una delle solite manifestazioni, uccide Francesco Lorusso. 
In risposta, i  ragazzi del Movimento reagiscono con rabbia, devastando Bologna e reagendo con violenza alle forza di polizia. È l’inizio del declino del Movimento del ’77. 

Delusa e amareggiata, Arianna cerca conforto in Francesco ma l'inquietudine che la divora non le dà pace e la porta a fare determinate scelte che l'allontaneranno dall'amico, fino a portarla anche fuori dall'Italia, pur di cercare un po' di pace.

Ho trovato molto interessante l'ambientazione scelta dall'Autore, e a mio avviso essa è ben "fotografata", nelle sue caratteristiche principali, nei fermenti, nelle ideologie di pensiero, nei gesti, nelle proteste che hanno travolto molte città in quegli anni, e che tanti movimenti giovanili hanno portato convintamente avanti.

Arianna è una protagonista femminile particolare: è un vulcano di progetti, sogni, desideri; è sempre in movimento, ha la lingua sciolta e una bella dialettica; ha le idee piuttosto chiare su quelle che sono le tematiche calde dei "collettivi" e dei gruppi di protesta di quegli anni roventi; è uno spirito libero, indipendente, ribelle, è pronta a buttarsi nella mischia senza paura pur di difendere i propri ideali, pur di sostenerli contro ogni repressione da parte di partiti ed istituti politici.
È "moderna", femminista, ha una grande consapevolezza del proprio corpo e di come esso appartenga solo a lei; non sopporta i legami, i "lacci", e se l'amicizia ricopre un ruolo importante nella sua vita, l'amore ne ha uno decisamente diverso, nel senso che anch'esso, se e quando c'è, deve avere contorni sfumati, niente costrizioni o impegni per la vita, giuramenti d'amore eterno, ma sempre e solo la libertà: di amarsi, di condividere momenti di intimità, di parlarsi con franchezza, di non vedersi per settimane e anche mesi ma avvertendo sempre che quel filo di sentimento e rispetto, che unisce due persone che stanno bene insieme, non si spezza facilmente.

Ma attenzione: Arianna non è un'eroina né una superdonna. Ha le proprie fragilità, contraddizioni, i momenti di silenzio, di solitudine; non lo fa spesso, ma quando piange è perché il cuore le si è gonfiato così tanto che il dolore, la confusione, lo smarrimento, i dubbi, le paure... devono poter rompere gli argini e uscir fuori.

Una "personcina" così complicata e difficile da "domare" perché sempre "in bilico sui cavalli della vita", con una tale gioia di vivere da non poter essere contenuta..., che ci fa nel cuore e nei pensieri di Francesco?
Francesco: buono, calmo, razionale, con una visione della vita diametralmente opposta e di certo più placida, senza grosse pretese: casa, studio, università, poi verrà il lavoro..., insomma un aspirante borghese che vuol solo vivere senza troppi problemi.
Si dice che "gli opposti si attraggono", e nel caso di Francesco ed Arianna magari è così: lei ha quella euforia, quella fame di vita, di creatività, di cambiare il mondo, che lui ha sicuramente da  qualche parte dentro di sè, ma che fino a prima di essere investito dall' "uragano Arianna" è stato sempre sepolto dalla monotonia; e a lui piace questa sua amica inafferrabile, indomabile, che va e viene come e quando vuole, con lui che è sempre pronto ad accoglierla.

Dal canto suo, anche Arianna è attratta da ciò che è diversissimo da lei, forse perché Francesco costituisce un porto sicuro, un punto di riferimento inamovibile, al quale tornare per ritrovare un po' di pace tra un tumulto e l'altro.

In questo libro la politica si intreccia con il fervore dei sentimenti giovanili dando vita a percorsi di vita particolari, che segneranno la crescita e l'evoluzione emotiva e psicologica dei personaggi coinvolti; la musica ha un ruolo importante nella storia, come l'ha avuta in generale tra gli anni '60 e '70, quando ha esercitato un'influenza profonda nello sviluppo dei movimenti giovanili di contestazione, prima fuori dall'Italia e poi anche qui.

Ho apprezzato lo stile dell'Autore, coerente con i personaggi e lo sfondo storico-sociale-culturale di riferimento; in particolare, da notare l'uso di parole separate da barre (slash) o parentesi, in linea con il clima dell’epoca e con gli ambienti creativi della “controcultura”, che si servivano di questi segni e di un certo modo di scrivere e comunicare per deformare e destrutturare il linguaggio, per scardinare stereotipi mentali e comportamentali.
Non solo, ma questa scelta linguistica ha lo scopo di porre l'enfasi sui significati delle frasi e di offrire al lettore stesso l'opportunità di scegliere l'espressione che ritiene più opportuna. 

Un romanzo di formazione che merita attenzione per i temi e il periodo storico affrontati, come anche per l'interessante tratteggio psicologico dei personaggi.

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