Il 1948 è stato per gli ebrei l'anno della vittoria, in cui finalmente si è realizzato il sogno sionista della fondazione dello Stato d'Israele, ma per qualcun altro esso è diventato l'anno in cui ha avuto luogo la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la cacciata di circa 250.000 palestinesi dalla loro terra.
Pappe, ricercatore e storico israeliano, basandosi sulla documentazione esistente (compresi gli archivi militari israeliani desecretati nel 1988), giunge a una versione decisamente in contrasto con quella tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership sionista del futuro Stato d’Israele aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina.
E se è vero - e lo è - che la pulizia etnica è un crimine contro l’umanità, allora ammettere che è questo che Israele ha fatto ai palestinesi, è forse il punto di partenza imprescindibile per avviare quel famigerato "processo di pace" che finora è rimasto confinato alle buone intenzioni senza mai essere concretizzato.
"In questo libro voglio esplorare sia il meccanismo della pulizia etnica del 1948, sia il sistema cognitivo che ha permesso al mondo di dimenticare e dato ai responsabili la possibilità di negare il crimine commesso dal movimento sionista contro il popolo palestinese nel 1948. In altre parole voglio sostenere la fondatezza del paradigma della pulizia etnica e utilizzare per sostituire il paradigma della guerra come base per la ricerca accademica e per il dibattito pubblico sul 1948."
Alla base di questo lavoro c'è la volontà di sostenere come nei confronti del popolo palestinese sia stato perpetrato un vero e proprio crimine di guerra e come l'espropriazione delle sue terre da parte di Israele nel 1948 sia stata da subito e da allora sistematicamente negata, non riconosciuta come un fatto storico.
La storiografia israeliana ha sempre narrato che in quell’anno, allo scadere del mandato britannico in Palestina, le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due Stati: il movimento sionista era d’accordo, il mondo arabo no e, non solo entrò in guerra con Israele, ma convinse i palestinesi ad abbandonare i territori – nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di facilitare l’ingresso delle truppe arabe.
La Nakba, in pratica, non sarebbe direttamente imputabile a Israele.
Ma è andata davvero così?
L'esodo in massa di migliaia di palestinesi che avevano deciso di abbandonare temporaneamente case e villaggi è stato davvero un «trasferimento volontario»?
Gli storici revisionisti hanno, al contrario, trovato conferma dei molti casi di espulsioni di massa da villaggi e città, e di come essi siano stati accompagnati da un gran numero di atrocità e massacri da parte delle forze ebraiche, che già prima del 15 maggio erano riuscite a espellere forzatamente circa 250.000 palestinesi.
"La politica sionista iniziò come rappresaglia contro gli attacchi palestinesi nel febbraio del 1947 e si trasformò in seguito in un'iniziativa di pulizia etnica dell'intero paese nel marzo del 1948. Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti."
L'Autore ripercorre la nascita del movimento sionista, emerso verso la fine del 1880 nell'Europa centrale e orientale come movimento di risveglio nazionale, e reso urgente dal fatto che gli ebrei che vivevano in quelle regioni avrebbero dovuto assimilarsi totalmente, pena il rischio di una continua persecuzione.
Perché il progetto sionista potesse realizzarsi, bisognava creare in Palestina "uno stato ebraico, sia come un rifugio sicuro per gli ebrei dalla persecuzione sia come una culla per un nuovo nazionalismo ebraico."
Ovviamente, questo Stato nascente non poteva che essere squisitamente ebraico, tanto nella sua struttura sociopolitica, quanto a livello etnico; del resto, l'obiettivo di dearabizzare la Palestina era uno dei pilastri fondamentali del pensiero sionista, sin dalla sua genesi e così come l'aveva pensato Theodor Herzl.
Poiché alla fine del mandato britannico, nel 1948, la comunità ebraica possedeva all'incirca il 5,8 per cento della terra in Palestina (quasi tutta la terra coltivata era di proprietà della popolazione nativa), era necessario ottenerne di più, per cui i primi coloni sionisti si impegnarono ad acquistare appezzamenti di terra così da entrare nel circuito del lavoro locale e creare reti sociali e comunitarie.
In che modo si poteva dar vita a un nuovo Stato? Con la forza dell'esercito, aspettando il momento giusto per poter trattare “militarmente” la realtà demografica del territorio, che era per lo più non ebraica.
Nel novembre del 1947 l'ONU aveva adottato la Risoluzione 181, che dava agli ebrei le terre più fertili, quasi tutti gli spazi rurali e urbani ebraici della Palestina ed includeva anche 400 (su oltre 1000) villaggi palestinesi entro i confini dello Stato ebraico.
La suddetta risoluzione non fu accolta bene dai palestinesi, le cui accese proteste - che ebbero luogo nei giorni successivi alla sua adozione - provocarono, come rappresaglia, una serie di attacchi da parte degli ebrei ai quartieri e ai villaggi.
Erano i primi giorni di dicembre del 1947 e la pulizia etnica della Palestina era iniziata.
Tutto era stato organizzato in modo preciso: "documenti israeliani rilasciati dagli archivi IDF alla fine degli anni Novanta indicano chiaramente che, contrariamente a quanto hanno affermato storici come Morris, il Piano Dalet fu inviato ai comandanti delle brigate non come generiche linee guida da eseguire, ma come precisi ordini operativi".
Ad es., venivano segnati in modo dettagliato la collocazione di ogni villaggio, le vie di accesso, il tipo di terreno, la presenza di sorgenti d'acqua, le principali fonti di reddito, la composizione sociopolitica, le affiliazioni religiose, l'età degli uomini e molti altri dettagli.
A metà febbraio '48 le truppe ebraiche in un sol giorno evacuarono cinque villaggi; con l'inizio (da marzo) del Piano Dalet. - che organizzava le missioni delle diverse strutture armate dell'Haganà *, e preparava l'offensiva con l'obiettivo di assumere il controllo delle zone dello Stato ebraico e difenderne le frontiere - numerosi furono i massacri, tra cui quello di Deir Yassin, un villaggio pastorale e amico che aveva sottoscritto un patto di non aggressione con l’Haganà a Gerusalemme, ma che fu condannato a essere distrutto; i soldati ebrei crivellarono le case con le mitragliatrici, uccisero molti abitanti (tra cui 30 neonati) e i sopravvissuti furono poi radunati in un posto e comunque ammazzati a sangue freddo, i loro corpi seviziati, e molte donne vennero violentate e poi uccise.
La strage di Deir Yassin è stata una sorta di avvertimento per tutti i palestinesi: se vi rifiutate di abbandonare le case e fuggire, questo è ciò che vi accadrà.
Anche il villaggio di Tantura ebbe un destino triste: tanta gente fu uccisa a sangue freddo sulla spiaggia e in particolare ci fu una sistematica esecuzione di palestinesi giovani e forti.
A Lydd ci fu una vera e propria orgia di uccisioni e saccheggi: 426 uomini, donne e bambini furono uccisi, 50.000 persone vennero costrette a mettersi in marcia verso la Cisgiordania; stessa cosa accadde alla popolazione di Ramla, costretta a marciare, senza cibo e acqua, sempre verso la Cisgiordania; tanti morirono di sete e di fame lungo la via.
Anche nel villaggio di Sa’sa le truppe ebraiche perpetrarono un massacro in cui furono uccisi anche dei bambini; a Dawaymeh i soldati circondarono il villaggio su tre fianchi lasciando aperto il lato est perché gli abitanti potessero andarsene in un'ora di tempo, e poiché non ci riuscirono, le truppe cominciarono a sparare alla cieca.
"...i soldati ebrei che presero parte al massacro riferirono scene raccapriccianti: neonati col cranio spaccato, donne violentate o bruciate vive dentro casa, uomini uccisi a coltellate".
Tanti, troppi sono stati i palestinesi brutalmente ammazzati e nessuno dei militari israeliani colpevoli fu mai processato per crimini di guerra, nonostante le prove; le fonti palestinesi, utilizzando sia gli archivi militari israeliani sia le storie orali, elencano almeno trentuno massacri certi.
Anche quando la pulizia etnica giunse al termine, le sofferenze non finirono: circa 8000 persone trascorsero il 1949 in campi di prigionia, altre subirono violenze e vessazioni nelle città sotto il governo
militare imposto da Israele; le case continuarono ad essere saccheggiate, i campi confiscati e furono costantemente violati diritti fondamentali.
Nella Nakba furono distrutti campi, case, moschee... e un'intera comunità con tutte le sue peculiarità, la sua storia; la geografia umana della Palestina nel suo insieme fu costretta a subire mutamenti, ogni carattere arabo delle città fu cancellato grazie alla distruzione di grandi quartieri, e questo con lo scopo di spazzare via la storia e la cultura di un popolo per far posto a luoghi ebraici “antichi” o per soli ebrei.
Il punto nevralgico, sottolineato con forza da Pappe, è la responsabilità morale, giuridica, politica che Israele ha verso i palestinesi: parlare di pulizia etnica per indicare quello che Israele fece nel ’48, equivale ad accusare lo Stato d’Israele, nel linguaggio giuridico internazionale, di un crimine contro l’umanità.
Come dicevo all'inizio, se per un popolo il 1948 è stato un anno di gioia e rinascita, per un altro (i palestinesi) esso è il cuore del problema, è la chiave per pensare ad una possibile e concreta soluzione del "conflitto"; da troppi anni, ormai, ai palestinesi non sono riconosciuti i loro diritti legali, in particolare il diritto al ritorno, tra l'altro garantito dalle Nazioni Unite.
Per gli israeliani, riconoscere che i palestinesi siano (state) vittime delle azioni di Israele è fonte di profondo turbamento in quanto questo getterebbe un'ombra sui fondamenti dello Stato stesso, e metterebbe in evidenza i problemi etici - con implicazioni annesse - legati al riconoscimento di queste ingiustizie perpetrate ai danni dei nativi.
Ogni tentativo di risolvere la questione israelo-palestinese non potrà che fallire fino a quando non sarà correttamente identificata l’ideologia che tuttora guida la politica israeliana nei confronti dei palestinesi.
"Il problema di Israele non è mai stato il giudaismo: il giudaismo presenta svariate facce e molte di queste forniscono una solida base per la pace e la coabitazione; il problema è la natura etnica del sionismo. Il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i palestinesi."
Ritengo questo saggio davvero di grande interesse, ho apprezzato molto la ricca bibliografia alla fine di ogni capitolo che va a corroborare un'analisi dei fatti lucida e minuziosa; il linguaggio è chiaro e, a mio avviso, fruibile ai più (per lo meno a quanti abbiano un minimo di dimestichezza con i libri che trattano argomenti di carattere storico-politico); spiega davvero bene quel che è accaduto nei mesi che hanno preceduto e che son seguiti alla nascita dello Stato d'Israele, il ruolo di Ben Gurion, l'indifferenza degli inglesi davanti alle atrocità commesse ecc..., e di certo stimola il lettore ad interessarsi alla questione in maniera più approfondita e mettendo da parte preconcetti o convinzioni errate/imprecise/parziali.
Leggere cosa hanno dovuto affrontare e subire tanti innocenti, di quante vite siano state selvaggiamente spezzate e sconvolte, di come questo martirio non sia ancora terminato per i palestinesi, se da una parte è stato duro e difficile, dall'altra è stato necessario.
Leggetelo.
* Principale organizzazione militare sionista in Palestina durante il mandato britannico.
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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz