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giovedì 24 marzo 2022

[[ RECENSIONE ]] ★★ OLIVA DENARO di Viola Ardone ★★



Oliva è una bambina che corre con i capelli spettinati dal vento, col viso in faccia al sole, con gli zoccoletti ai piedi, che cammina per strada ripetendo la prima declinazione di rosa rosae.
Oliva è una ragazzina che si vede bruttina, insipida e invisibile; sa che la vita è tutta un susseguirsi di regole e sa che i maschi non vanno né guardati troppo né tanto meno provocati, perché la femmina  - dice mamma Amalia - è una brocca... e poi chi la rompe, se la piglia.
Oliva è una donna sostantivo femminile singolare -  che ha subìto un'ingiustizia, la quale dopo vent'anni è ancora sale che brucia su una ferita aperta. 
Oliva è una persona determinata a conquistare e conservare la propria libertà di scegliere e decidere di sé stessa, del proprio corpo, senza costrizioni provenienti dalla società e, soprattutto, da una mentalità (purtroppo supportata, negli anni in cui è ambientato il romanzo, dalla legge) ottusa e limitata, che rende la donna schiava di pregiudizi maschilisti.


OLIVA DENARO 
di Viola Ardone


Ed. Einaudi
312 pp
Negli anni '60 Oliva Denaro è un'adolescente di quindici anni, abita in un paesino della Sicilia ed è nata in una famiglia semplice, di umili origini, in cui la figura forte è mamma Amalia, una calabrese dal carattere deciso, convinta che la vita sia fatta di una serie di rigide regole, da seguire attentamente se non si vuole finire nei guai.
La donna, in particolare - che già è una brocca per il solo fatto di essere femmina -, deve seguirle se non vuole rischiare di diventare una "brocca rotta", i cui cocci se li prende colui che la rompe.

Oliva ha una sorella maggiore, Fortunata, che però s'è messa in un guaio e non sta tenendo fede al proprio nome: è tutt'altro che fortunata, infatti, avendo sposato un tipo borioso, prepotente, manesco, che non l'ama e non la rispetta, e anzi, a furia di botte, l'ha fatta pure abortire. Insomma, la sfortunata è costretta a tenersi questo strazio di marito, che la tiene segregata in casa, e ad accettare con rassegnazione il suo triste destino.

Oliva ha anche un gemello, Cosimino, il "cocco" di mamma; lei, invece, sembra invisibile e trascurabile agli occhi di questa madre dura, sempre incline a rimproverare, a brontolare, a lamentarsi del marito, Salvo, un contadino taciturno, bravo ad incassare le spalle e a non mostrare risolutezza davanti ad eventi e persone che invece meriterebbero, a detta della moglie, reazioni "da uomo vero", che protegge e difende la famiglia contro tutto e tutti.

Là dove lui si zittisce, la madre "parla parla, e sempre mi elenca tutte le regole, e in questo modo è facile disobbedirle. Mio padre invece fa spesso il silenzio, perciò non riesco mai a capire che cosa devo fare per essere amata."

Anche quando esprime un dissenso, Salvo lo fa con quel suo modo di essere e parlare sempre pacato - "Preferisco di no" è la frase che ripete spesso - e sua figlia Oliva, in questo, sembra più simile a lui (anche fisicamente).

Scura, con gli occhi neri come olive e i capelli sempre un po' in disordine, le ginocchia sbucciate e l’espressione imbronciata, la riflessiva Oliva pensa che "...ero più felice se nascevo maschio", ma purtroppo è "nata al femminile e il femminile singolare non esiste".

La donna trova la sua ragion d'essere in quanto legata ed associata a qualcun altro, all'uomo soprattutto; una donna sola non vale granché ("il valore della femmina (...) dipende dal maschio che la chiede"), si attira più facilmente critiche, maldicenze, occhiate di sbieco, è sottoposta a tentazioni e può perdere l'onore con niente.
Osa addirittura dirlo alla sua amata (rivoluzionaria e femminista) maestra Rosaria, quasi correggendola: «La donna singolare non esiste. Se è in casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali, e anche lí si trova assieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci deve stare un maschio che la accompagna (...) Io una donna femminile singolare non l’ho vista mai».

Oliva ama studiare, è brava a scuola, le piace molto imparare parole difficili, ma anche correre «a scattafiato», copiare di nascosto su un quaderno i volti dei divi del cinema - di nascosto da sua madre, però, che sarebbe pronta a sgridarla e a ricordare che certe cose futili e sciocche le farebbero venire i grilli per la testa, e non è una cosa buona per usa signorina perbene - ed è pronta a difendere, a colpi di pietre, il suo amico Saro (affetto da una evidente zoppìa) dai ragazzacci che lo prendono in giro.

In fondo, è libera e felice, la piccola Oliva, e ogni suo comportamento, parola, sguardo, viene letto per come è: innocente.
Fino a quando non arriva a farle visita «il marchese», al quale non è per niente favorevole: da quel momento sì che inizia una nuova e pericolosa fase della vita! Già, perché il sangue mensile la rende donna e quindi oggetto di sguardi e commenti maliziosi da parte dei maschi. dai quali deve stare lontana se non vuole trovarsi come la sorella, con un bambino in pancia prima del matrimonio (che disonore e che vergogna per la famiglia, in quel caso!).

E allora, per non perdere l'onore, forse è il caso che siano i genitori a provvedere un fidanzato di buona famiglia per Oliva, che sta crescendo e ha pure un pretendente insistente a girarle pericolosamente attorno.

Sono anni in cui a un uomo è concesso adottare dei "metodi" decisamente poco ortodossi (che oggi, solitamente, verrebbero condannati con decisione, socialmente e penalmente), non rispettosi della volontà della donna su cui hanno messo gli occhi, e che vedono quest'ultima un soggetto passivo, che deve subire le attenzioni maschili anche se non le gradisce; e se il maschio si prende libertà che non dovrebbe (commettendo azioni discutibili, se non addirittura deplorevoli), ad essere giudicata male (non solo dalle malelingue ma, peggio, dalla legge) è sempre e comunque la donna, che sicuramente prima ha ammiccato e poi ha detto no, giusto per "tirarsi la calzetta" e farsi desiderare.

Questa tristissima concezione di ciò che è concesso o meno alla donna, se e come può dire sì o no a un corteggiamento, coinvolge come un uragano l'impreparata Oliva.
L'abuso che dovrà subire - con tutto il carico di sofferenza che si porterà dietro, tanto nel corpo quanto nell'anima, nonché rispetto alla gente, con i suoi giudizi superficiali e ottusi - la vedrà sì fragile, ferita ("la frattura è dentro. Sono una brocca rotta"), ma altresì coraggiosa, pronta a non soccombere ad una mentalità che la vuole non solo offesa ma anche muta: Oliva si ribella e oppone il proprio diritto di scelta, pagando il prezzo di un suo legittimo no.

Oliva non sarà sola nella sua piccola battaglia: avrà la famiglia accanto, la cara amica Liliana (comunista e femminista convinta) e una donna, Maddalena, che la incoraggerà a far sentire la propria voce e a non abbassare lo sguardo, perché non è lei ad aver commesso un'azione vergognosa, ma al contrario, l'ha subita ed ha il diritto di difendersi e pretendere giustizia.

Giustizia: riuscirà ad ottenerla, Oliva Denaro, e non solo per sé stessa ma per tutte le donne costrette a sottomettersi a una mentalità maschilista e ignorante?

Oliva è un bellissimo personaggio femminile, che il lettore vede crescere e maturare di capitolo in capitolo; leggendo, viviamo insieme a lei i conflitti all'interno della famiglia, il rapporto con i fratelli, quello difficile con la madre, le cui attenzioni Oliva ha sempre anelato ("Se mia madre mi vedeva, mi vedeva il mondo. Avevo attraversato la soglia dell’invisibilità. Ero una donna, come lei"), quello sereno, fatto più di silenzi che di parole, con il padre, che a dispetto del suo sembrare sempre in seconda fila, dietro le spalle di quella moglie nervosa, imbronciata e chiacchierona, mostrerà una delicatezza d'animo, una sensibilità e solidità che conquisterà noi lettori.

Ci si innervosisce nel sentire le malelingue delle comari che passano il tempo sparlando e intanto sgranano il rosario; ci si indigna nel leggere di come fosse considerato normale che le donne dovessero subire, ubbidire e accettare senza fiatare decisioni prese da altri su di loro, corteggiatori invadenti e soprusi, perché mica tutti gli uomini capiscono che "le femmine sono nuvole, questo mi ha detto, che è necessario osservare la forma che prendono e non cercare di metterle in uno stampo."

Vediamo Oliva mentre diviene consapevole di cosa e chi le fa battere il cuore, smuovendole qualcosa di indefinito ma piacevole "nel ventre";  ci fa tenerezza quel suo avvertire il desiderio di piacere ed esserne al contempo spaventata, vivendolo come una colpa.

La vediamo e l'ammiriamo mentre prova a tirare fuori un coraggio che non sapeva neppure di avere, stringendo i denti davanti a mortificazioni, umiliazioni, delusioni, ingiustizia, mormorii, o mentre la udiamo ribellarsi a una concezione della donna sbagliata e dannosa:

"Ma perché devono essere sempre declinate al plurale per ricevere considerazione? Agli uomini basta essere uno per valere qualcosa, con nome e cognome. Noi invece dobbiamo metterci in riga a formare una schiera, come fossimo una specie a parte."

Il racconto delle vicende di Oliva - che non sono soltanto private, ma che hanno una risonanza sociale e civile, e del resto, attraverso la sua incantevole protagonista, l'Autrice scandaglia la violenza dei ruoli sociali, che riguarda tutti, uomini compresi - partono negli anni Sessanta, per poi portarci con un salto a vent'anni dopo, dove alla voce di Oliva si alterna quella dolce e rassicurante di un padre che c'è sempre stato e ancora c'è, e che è orgoglioso di questa figlia che qualcuno ha cercato di spezzare, ma che è cresciuta come una pianticella forte, capace di resistere alle difficoltà e di andare incontro al vento nonostante tutto.

"Le regole della corsa sono sempre le stesse, non cambiano mai, e io continuo ad andare, braccia e gambe e cuore, respiro a bocca aperta con le guance in fiamme, i capelli spettinati dal vento...".

Oliva è ogni donna che combatte per i propri diritti, per la propria felicità, per la libertà di fare delle scelte da sola e di poter decidere del proprio corpo, di dire no o sì in base a ciò che lei - e nessun altro - desidera per sé stessa.

"Oliva Denaro" è un romanzo di formazione che affronta tematiche come la violenza subita dalle donne, l'arroganza di uomini che credono di poter disporre del corpo e della vita di una donna come se fosse un oggetto, la paura di denunciare, di non essere tutelate dalla legge, e purtroppo in quegli anni manco la legge teneva conto adeguatamente della volontà e dei diritti delle donne.

La Ardone ha creato una protagonista femminile indimenticabile, che vi resterà nel cuore e vi smuoverà molte emozioni, dall'ammirazione alla tenerezza, da un senso di rabbia impotente davanti alle ingiustizie a una malinconica consapevolezza che... sì, è vero, ciò che è rotto non sempre si può aggiustare, non tutte le battaglie si possono sempre vincere e non in tutte le occasioni i buoni ottengono giustizia sui cattivi, ma la libertà è una conquista troppo importante e costa sacrificio.

Oliva lo sa, è favorevole alla libertà e a combattere per essa.

"Chinati giunco che passa la piena e arriva il momento di sollevare la testa."

Come non consigliarvelo caldamente? 

Recensione ❤❤ IL TRENO DEI BAMBINI  ❤❤

venerdì 18 marzo 2022

[[ RECENSIONE ]] "Josef Mengele. L'angelo della morte di Auschwitz" di Richard J. Samuelson


"Josef Mengele. L'angelo della morte di Auschwitz" di Richard J. Samuelson  è un libro che, seppur brevemente, ripercorre la cupa e terribile figura di un personaggio storico di cui tutti abbiamo sicuramente sentito parlare e che è associato ad uno dei capitoli più brutti della storia contemporanea.


letto da Marileda Maggi   
Credo di non sbagliarmi se dico che Josef Mengele sia davvero uno dei più inquietanti e sadici protagonisti della follia nazista. 
Basta il suo nome perché la nostra mente vada a fatti ed immagini terribili, legati ai campi di sterminio e, soprattutto, agli abominevoli e disumani esperimenti condotti proprio da quest'uomo, che lavorò come medico ad Auschwitz per 21 mesi. 
Un tempo sufficiente per provocare innumerevoli e irreversibili danni.

L'Autore parte dall'inizio, illustrandoci brevemente gli anni della giovinezza, la laurea in Antropologia e poi in Medicina, il morboso interesse per le ricerche sulla genetica (convinto che le differenze razziali e sociali avessero origini genetiche, appunto), l'iscrizione al partito naazionalsocialista, il ferimento in guerra, il congedo con onore e l'assegnazione al campo di sterminio.

Era chiamato "l'Angelo della Morte" e trasformò l'ospedale di Auschwitz in una vera e propria clinica degli orrori, torturando e seviziando le vittime del campo con esperimenti spietati e terrificanti:  bambini, nani, rom e, soprattutto, i gemelli, la vera ossessione del folle dottore nazista.

Questi era intenzionato a "studiare" la genetica delle povere cavie con l'infame scopo di incrementare la nascita di bambini ariani così da poter rafforzare il futuro Reich. 
Uno dei suoi obiettivi, ad es., era modificare la pigmentazione dell’iride al fine di ottenere più bambini con gli occhi azzurri; a tal fine, Mengele iniettava negli occhi dei bambini diverse soluzioni che non solo non sortivano l'effetto sperato, ma rovinavano gli occhi alle vittime, procurando loro gravi infezioni, cecità. 
Non tutti sopravvivevano ai crudeli trattamenti... 
Gli organi tolti alle vittime erano inviati all’Istituto per l'antropologia, la genetica umana e l'eugenetica a Berlino, etichettati come “materiale di guerra - urgente”.

Questo libro l'ho ascoltato, non letto, ma a livello emotivo è stato comunque angosciante sentire le crudeltà inferte a vittime innocenti da questo.... essere - che chiamare uomo è difficile, anche se, ovviamente, lo è, ed è questo che rende tutto più brutto -; pensare a ciò che hanno potuto soffrire riempie il cuore di un tremendo e profondo gelo, mette i brividi ogni volta che leggo queste storie.

È un viaggio nell'inferno, ma per quanto doloroso, non possiamo tirarci indietro dal ricordare che la memoria e la conoscenza sono fondamentali perché l'Umanità non commetta più gli stessi errori.

Certo, sembra strano dire una verità del genere in queste settimane in cui l'orrore della guerra è tornato prepotentemente ad angosciarci; le immagini della guerra in Ucraina ci fanno star male e ci confermano come l'Uomo sia davvero un cattivo scolaro, e poco impara dalle lezioni di "maestra Storia".

Tornando al medico nazista...: aveva poco più di trent'anni ed è stato capace di lasciare un'impronta nella storia... ma che impronta mostruosa! 

A farci innervosire, però, è il sapere che purtroppo quest'uomo non è mai stato consegnato "alla giustizia", non ha subito condanne per i suoi numerosi e sadici crimini; la vicenda di Mengele è continuata anche dopo la guerra.

Gli bastava cambiare nome e riusciva a passare frontiere come se niente fosse, fino ad arrivare in Paraguay, Argentina, Brasile, dove è vissuto indisturbato fino alla sua morte, avvenuta per cause naturali nel 1979.

Samuelson mette in campo alcune delle ipotesi per spiegare come sia stato possibile che questo individuo sia fuggito e abbia vissuto tranquillamente (e non sempre sotto falso nome) per molti anni dopo la guerra, senza che nessuno lo riconoscesse e ne permettesse l'arresto.

Chi l'ha aiutato a fuggire e chi l'ha protetto durante la sua latitanza? È possibile che ci fossero Paesi (ad es. gli Stati Uniti) con un qualche interesse a "proteggerlo"?

E inoltre, che fine hanno fatto gli appunti segreti redatti da Mengele ad Auschwitz? Ha impunemente proseguito i suoi folli esperimenti anche in Sudamerica? 
Domande a cui ancora oggi è davvero difficile dare risposte certe ed univoche.

Un particolare inquietante che non conoscevo (o forse l'avevo dimenticato) è che trascorse gli ultimi tre lustri della propria dannata esistenza in un paesino in particolare: Cândido Godói, un piccolo villaggio brasiliano al confine con l’Argentina, in cui era presente una minoranza di polacchi e tedeschi.
Fece di questa località una sorta di "laboratorio"; del resto, è una coincidenza se proprio dal 1963 (anno in cui Mengele si stanziò lì) la cittadina gradualmente è divenuta la località con la più alta incidenza di gravidanze gemellari dell’intero pianeta?

Concludendo, è un libretto che tratta un argomento senza dubbio interessante; certo, la sua brevità non permette di approfondire tanti aspetti, ma può costituire una motivazione per fare ricerche personali.

Noticina sulla voce narrante: il timbro è molto piacevole, ma in certi momenti il suo tono di voce era... irritante, ma tanto!! Perché? Beh, il volumetto tratta temi senza dubbio terrificanti e atroci ed infatti le musiche di sottofondo sottolineano l'atmosfera lugubre in certi specifici frangenti; la voce della narratrice, al contrario, in alcuni passaggi da brividi... aveva un tono troppo "leggero", come se stesse leggendo una favoletta per bambini....!





domenica 13 marzo 2022

[[ RECENSIONE ]] DONNAFUGATA di Costanza DiQuattro



Donnafugata è "un piccolo mondo antico", un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato e su cui si staglia la figura del barone Corrado Arezzo, nobile di casato e, soprattutto, d'animo: un uomo, un marito, un padre, un amico, la cui esistenza non priva di dolori è stata vissuta con coraggio, rettitudine e con un cuore colmo d'amore per le "fimmini" di casa, che gli hanno recato gioie e preoccupazioni.


DONNAFUGATA 
di Costanza DiQuattro 



Ed. Baldini Castoldi
206 pp
"In settant’anni ho visto tramontare epoche e sorgere speranze. Mi sono illuso e sono rimasto deluso. Ho sperato nelle stelle, ho dato credito ai numeri, mi sono affidato a Dio. Ho vissuto, ho gioito, ho pianto, ho ingoiato lacrime e rassegnazione."
 
Corrado Arezzo De Spucches vive - ha sempre vissuto - a Donnafugata, nel castello di famiglia a due passi da Ragusa, tra carrubi secolari, muri a secco e campagna scoscesa.

Nel 1895 ha da poco superato i settant'anni... e il suo cuore è stanco.
Pur mantenendo quella tempra e quella dignità che l'hanno sempre contraddistinto, l'uomo sente che i fardelli che la vita ha lasciato sulle sue spalle sono tanti e il loro peso si fa sentire ogni giorno di più.
Accanto a lui ci sono la nipote Maria, il fidatissimo "servo" tuttofare Micheluzzo, e tutti gli altri che lavorano per lui: lo amano, lo rispettano, e non potrebbe essere diversamente perché il barone è sempre stato un padrone comprensivo e paziente, un marito devoto, un padre amorevole e un nonno tenero.

L'autrice narra la vita di quest'uomo attraverso continui flashback che ci riportano a specifici anni della sua esistenza (in cui sono accaduti fatti rilevanti per comprendere chi sia Corrado), a partire dal 1833,  quand'era un ragazzetto cresciuto dalla cara e amata balia Annetta e che sbuffava all'idea di sentire il rosario di don Gaudenzio.
Lo vediamo poco più che ventenne, quando il fuoco della rivoluzione (siamo nel 1848) infiamma il suo spirito giovane e forte, desideroso di spezzare il giogo dei Borboni che nulla di buono porta alla gente del Sud, a questa amata terra di Sicilia che soffriva da anni "il sopruso e la reprimenda" del sistema borbonico che ne aveva frenato ogni sviluppo e crescita.

"...la violenza dei Borboni ha superato il limite della sopportazione e della decenza. Siamo e dobbiamo essere un popolo libero e indipendente. Io credo che il tempo di insorgere sia giunto. (...) Riprendiamoci la nostra terra. Riprendiamoci la Sicilia. Nel nome santo dell’Italia insorgiamo, combattiamo e vinceremo!".

Lo vediamo crescere e maturare negli anni; seguiamo le sue brillanti ed ironiche conversazioni con gli amici di sempre, ci intenerisce e ci fa sorridere il suo amichevole ed affettuoso rapporto con il tuttofare di Donnafugata, Micheluzzo, che lui conosce da bambino e che ha esortato ad imparare a leggere, a migliorare, trattandolo sempre con molto rispetto, pur avendo i due ruoli diversi, in virtù del differente ceto sociale.
Lo vediamo marito di Concetta, una donna delicata, sensibile, una moglie pia e ubbidiente, che tante lacrime ha versato per Vincenzina, quella figlia amatissima ma un po' volubile e che ha fatto non poche scelte sbagliate nella propria vita.
Corrado ama le sue "donne" ma il suo affetto non lo conduce ad essere condiscendente e privo di vigore e rigore, tutt'altro: quando deve richiamare all'uso della ragione, alla necessità di comportamenti saggi e scelte oculate,  lo fa con convinzione e sempre con lo scopo di vedere le proprie care felici e serene.

È sempre stato un uomo sensibile, Corrado, e ha avuto due genitori che gli hanno trasmetto valori fondamentali, primo fra tutti il rispetto per gli altri e il saper impiegare le proprie ricchezze materiali anche per recare del bene a chi è meno fortunato; belle le parole che gli rivolse suo padre quand'egli era poco più che un ragazzo:

«Vedi Corrado, vivere i privilegi della nostra condizione non vuol dire limitarsi a godere dei soli agi. Noi siamo chiamati a diventare un mezzo. Attraverso le nostre possibilità offriremo possibilità a chi non può averne. (...) «Non voglio comprarmi il consenso della gente, credo di aver fatto abbastanza nella mia vita per farmi odiare da chi vorrà odiarmi, e per farmi amare da chi vorrà amarmi. Cerco il consenso del tempo, un segno su questa terra che abbia il mio nome, il ricordo di me. Custodisci tutti i templi che ti lascio. Ti diranno che sono polvere ma tu non crederci. Sono l’involucro della nostra anima.»

Forse non si può definire una persona romantica in senso stretto ma di certo ha saputo, quand'era il momento, fare spazio alla tenerezza, ad esempio quando ha aperto gli occhi sulla delicata sensibilità che ha guidato la passione della moglie per le rose, metafora della vita umana:

"Avevi ragione tu. Non siamo altro che rose. Duriamo il tempo di un sorriso, di un ricordo da custodire, di una notte da ricordare. E quando ci voltiamo indietro di noi resta solo la scia debole di un profumo che è stato intenso."

Corrado è un bellissimo personaggio letterario; solido come una roccia, severo senza mai essere burbero o troppo duro, una presenza costante ed affidabile, capace di incoraggiare, confortare, ascoltare in silenzio, di spingere  i suoi interlocutori a riflettere, ed essi sanno di trovare in lui un punto di riferimento, che sia l'amico filosofo, la nipote "ribelle" o il custode del castello.

Questo breve romanzo storico si concentra su un uomo, appartenente ad un nobile casato, sul modo di rapportarsi con chi lo circonda, sui principi e valori che hanno guidato la sua esistenza; l'Autrice ci presenta un mondo e un modo di vivere dei tempi passati, ce ne descrive le processioni, le case, i pranzi, le chiacchiere, la bellezza austera di questo castello con il suo bellissimo roseto; la narrazione è percorsa da vibrazioni nostalgiche, decadenti, ma non c'è, a mio avviso, un senso di negatività né nulla di opprimente, quanto piuttosto un vago e diffuso senso di malinconica dolcezza che, lungi dall'essere tristi, danno intensità alla storia narrata.

Le sensazioni che ho ricevuto nell'ascoltare questo libro (la lettura che ne dà Anita Zagaria è piacevolissima, limpida e adeguata al contenuto e ai toni del romanzo) sono state positive: delicatezza e semplicità contraddistinguono lo stile della scrittrice, tanto nelle descrizioni del contesto e dell'ambiente, quanto nella caratterizzazione dei personaggi, e  non vi nascondo che le ultime pagine le ho trovate dolci e commoventi.
Consigliato, trovo sia un bel libro.


CITAZIONI

« [le rose ]sembrano eterne quando sono appena fiorite, come la giovinezza. Poi basta una notte, la distrazione di un attimo e la loro bellezza si piega alla vita, per poi morire dopo poche ore. Eppure hanno una solida base, crescono sulle spine, si difendono come possono. Ma per quanto? Per cosa ci affastelliamo l’animo e i pensieri se in fondo non siamo altro che rose, istanti bellissimi da ricordare come questo profumo.»


"Non crogiolarti su ciò che non puoi avere. Godi di ciò che hai."


"La vendetta (...) non sana le ferite. Non c’è onore a vendicarsi. Ce ne sarebbe a perdonare...". 

«Solo chi sa perdersi trovare la strada giusta».

martedì 8 marzo 2022

[[ RECENSIONE ]] LA FELICITÀ DEGLI ALTRI di Carmen Pellegrino


Cloe è una donna abituata a parlare con le ombre, con i morti; un'anima in pena, con lo sguardo rivolto costantemente al passato, a un evento in particolare, fonte della sua tristezza, della sua incapacità di stare al mondo. Desiderosa fin da bambina di essere amata, accettata, accolta, compresa, ascoltata, da adulta vive come se di tutto questo non avesse bisogno, anzi rifugge ogni legame duraturo, sentendosi incapace di dar vita a qualcosa di stabile, di vero, di concreto.
Del resto, lei vive di parole scambiate con chi non c'è più o, al massimo, con chi è invisibile quanto lei.
Ma anche una persona complicata come Cloe conserva dentro di sé il desiderio, il sogno, la necessità urgente di avere un posto in cui sentirsi a casa e di coltivare la speranza anche quando dentro e fuori  non c’è che rovina.



LA FELICITÀ DEGLI ALTRI 
di Carmen Pellegrino




Ed. La Nave di Teseo
160 pp
"O forse la felicità
è solo degli altri, d’un altro tempo,
d’un’altra vita e a noi non è possibile
che recitarla come viene viene..."


Cloe vive un'esistenza che, raccontata, sembra frammentata, confusa, come quei sogni che ti accompagnano al risveglio, al mattino, e che tu sai di aver fatto ma, chissà come mai, non riesci a descrivere e raccontare con parole chiare.

È una di quelle persone cui non basta questa dimensione terrena per esistere e la realtà del presente è molto vicina e comunica con la realtà immaginata.

Cloe è viva ma al contempo non vive; non sa farlo perché qualcosa s'è inceppato nel suo cammino, rendendola un'ombra di sé stessa, un'anima continuamente in ascolto delle voci di chi non c'è più e si ostina a non volerla lasciare, primo su tutti il fratello Emanuel, la cui voce amata si perde nei ricordi di un'infanzia fatta di urla, litigi, minacce, abbandoni da parte di due genitori pieni di fragilità, inadeguatezze, errori.

Cloe non sa sostare a lungo nei propri panni e questo le impedisce di fermarsi definitivamente in una città, di stabilirsi in una casa oltre un certo tempo.

"Per lo più sono andata avanti così, senza destino, come veniva. In un continuo saliscendi di stati emotivi, non ho fatto che cercare qualcuno che curasse la mia ferita".

Cloe non sa stare al mondo perché nella sua giovane esistenza ha perduto affetti, case, ha cambiato città, nome... così tante volte che raccapezzarvisi e trovare tutti i frammenti di sé e metterli insieme è diventato difficile. Vive come chiusa in una gabbia di cui però non ha le chiavi per aprirla e liberarsi.

Eppure cosa chiedeva per sé e per suo fratello, se non che fossero amati da chi li aveva messi al mondo?

“I miei sogni sono una persecuzione, ogni notte è lo stesso. Anime tormentate che mi vorticano intorno, mio fratello soprattutto. Ma io non ho potuto fare nulla. Cosa potevo fare?”

Cloe è come un uccellino dall'ala ferita, che vorrebbe ma proprio non riesce ad alzarsi in volo, non fino a quando quell'ala non sarà sistemata e il nodo che le grava sul cuore - sulla responsabilità (la colpa?) di ciò che è accaduto ad Emanuel - non verrà sciolto.

Quante e quali sono le sue colpe?
E quelle di mamma Beatrice, una donna mezza matta che li amava, probabilmente, ma era troppo strana e inaffidabile per aver cura dei figli come una madre dovrebbe fare?
E che dire del padre, Manfredi? Uno psicologo che a un certo punto ha tradito la moglie e s'è rifatto un'altra vita, un'altra famiglia, e tanti saluti a moglie e figli.

Nel suo cammino costellato di fragorosi insuccessi e improvvisi passi avanti, Cloe è sempre accompagnata da voci, ricordi, personaggi sfuggenti ed evanescenti come lei; come il professor T., docente di Estetica dell’ombra, un uomo placido e colto, che saprà essere per la donna un prezioso aiuto per guardarsi dentro, per individuare quel buco nero che è dentro di lei, che la spaventa ma che non può essere negato come se non esistesse. Non dovremmo aver paura delle ombre né dell'oscurità; sono essenziali, tanto quanto i corpi, le presenze, la luce.

“L’oscurità (...) è ciò da cui la luce prende origine. Nessun giorno spunterebbe mai, se la notte non preparasse la via.”

Tutti abbiamo un lato oscuro: quello degli altri ci spaventa, come se potesse inghiottirci in quel buio e privarci della nostra luce.
Il caro professor T...: l'unico che ha visto le sue tante ombre e né è scappato né ha cercato di dissolverle; ma le ha detto, tra le tante cose: "Torna alla Collina, dove sei stata felice."
Felice. Ma cos'è la felicità?

"...di quale felicità parliamo? Quella di là da venire, la felicità degli altri, dato che, a ben guardare, la nostra vita è percorsa da un profondo sentimento di tristezza."

Nella vita di Cloe ci sono Madame e il Generale, i buoni e cari guardiani della Casa dei timidi, una sorta di rifugio per bambini scacciati, abbandonati, indifesi; là Cloe è stata accolta a dieci anni.
In questo posto quasi magico, lontano dal caos e dalla violenza del mondo, vivevano i bambini che nessuno voleva, se non questa coppia strana ma amorevole, che ha fatto sua la missione di accogliere questi "figli dell’aria, i figli di nessuno". Figli di Dio, di quel Dio che ha lasciato venire Suo Figlio sulla terra, in mezzo agli uomini, per salvarli, e che da essi invece è stato scacciato.
Purtroppo, anche la Casa dei Timidi sulla Collina è stato solo uno dei tanti luoghi attraversati, e quando un evento drammatico ne ha decretato la chiusura, la diciottenne Cloe si è ritrovata nuovamente sola, sradicata, smarrita.

C'è stato un uomo, un compagno: avrà saputo darle amore, conferme, una presenza tanto forte da scacciare i fantasmi?

C'è stata anche una vita, anzi no..., un inizio di vita, interrotta prima che invadesse un campo non suo, uno spazio già pieno di ombre, di fantasmi che facevano sentire con insistenza le proprie voci; non c'era posto per un'altra presenza ingombrante. E poi proprio lei, affetta irrimediabilmente da una sorta di "disappartenenza" continua, fissa, che è sempre stata brava a praticare..., poteva mai appartenere a qualcuno o avere qualcuno che le appartenesse per sempre?

C'è stato Jerus (può esserci ancora, nel presente?), anch'egli ospite della Casa sulla Collina, con cui ha condiviso abbracci, silenzi, l'esperienza di due corpi che per un po' si sono avvicinati tanto da fondersi. Quasi.
Jerus, che da bambino era ribelle, oscuro, litigioso, che bramava di starsene separato da tutti, indisturbato. 
Ma anche con lui, Cloe non riesce a dar vita a un legame.
Proprio lei, che ha una fame d'affetto tale da esser pronta a mendicarlo, pur di riceverne almeno un po' in cambio.

"Nell’inverno del mio cuore ho desiderato a lungo di essere amata. Talmente impaziente, questo desiderio, da ritenerlo a un certo punto un’aberrazione affettiva."

L'esistenza di Cloe ha un che di paradossale: pur essendo piena di fantasmi, la cui presenza infesta e tormenta le sue notti, è solitaria. Cloe è sostanzialmente sola e fa di tutto per restarci, nonostante ne soffra, nonostante sia a disagio con se stessa. Le persone che l'avvicinano e che vorrebbero abbattere la sua tristezza, la sua solitudine, vengono allontanate.

Si sente triste e vive questa tristezza come un modo di essere che le appartiene e che non può mutare, su cui non c'è proprio niente da fare.

"...io ero una comparsa senza corpo nella mia stessa vita, separata, distaccata da quello che mi accadeva. Sembro venuta da una favola triste, ma porto in dote il taglio che un’accetta possente ha lasciato dentro di me."

Docile e ruvida, diffidente e sensibile, con un lato oscuro che attende di essere inondato di luce, liberando lo spazio dentro sé di infauste, angoscianti ed evanescenti ombre, per colmare i vuoti di corpi veri, da toccare, sentire, accarezzare.

Cloe vorrebbe smettere di sentirsi fuori posto ovunque, di cercare qualcuno che curi le sue ferite, di sopportare le assenze, di essere costretta a nascondersi.
Solo tornando là dove tutto è iniziato, nella casa infestata da fantasmi in cui è cresciuta, potrà guardare in faccia le proprie paure, le proprie fragilità ed insicurezze, far pace col passato e pensare ai morti senza più sentire il peso e il dolore di ciò che non può essere più cambiato.

"La felicità degli altri" è un libro particolare, per certi versi complesso e difficile da chiudere in etichette che ne facilitino la spiegazione, la collocazione; posso dire che leggerlo è stato come intraprendere un viaggio non semplice né lineare nelle latebre più oscure dell'animo della protagonista, guardando nei suoi vuoti, nelle sue ombre e nelle sue paure, su cui ha costruito una corazza, dietro la quale si cela una donna che grida il suo bisogno di ricevere amore, sin da quando era bambina. Una donna che chiede di essere liberata da ricordi insopportabili.
È un romanzo dai toni molto intimistici, un percorso introspettivo fatto di saliscendi emotivi, in cui il passato (con le sue esperienze dolorose, i suoi traumi, le perdite, le tante persone incrociate nel proprio spostarsi da un luogo all'altro) fa le sue incursioni nel presente e lo condiziona, gli dà forma.
A me è piaciuto e lo consiglio, ma aggiungo che, a mio avviso, non è un libro da leggere di fretta (e forse bisogna essere nel "momento giusto" per apprezzarlo), anzi, va "assaporato" con calma; il linguaggio è molto evocativo, magnetico, carico di suggestioni, e durante la lettura mi sono ritrovata spessissimo a evidenziare e riscrivere tanti passaggi significativi e profondi; come un'archeologa, l'Autrice scava con le parole e porta alla luce pensieri ed emozioni sepolti nei recessi della mente dell'evanescente protagonista.


"Ma se riuscissimo a risollevare quel telo di compassione entro cui tutti potremmo trovare asilo all’occorrenza. Potessimo riavere quello sguardo capace di cogliere, sapessimo riaffidarci l’uno all’altro: in fondo lo sappiamo che tutti perdiamo, tutti falliamo."



Di Carmen Pellegrino ho letto anche CADE LA TERRA >> RECENSIONE <<

domenica 6 marzo 2022

[[ RECENSIONE ]] AMERICA NON TORNA PIÙ di Giulio Perrone


AMERICA NON TORNA PIÙ di Giulio Perrone è un romanzo autobiografico vero, genuino, che racconta con intensità e incredibile sincerità il rapporto tra un padre e un figlio, con tutto il bagaglio di incomprensioni e delusioni, di cose dette o taciute, di diversità e affinità, che l'ha caratterizzato, arrivando agli ultimi giorni della vita del genitore, colpito da una malattia crudele che ha contribuito, in modo definitivo e irreversibile, a lasciare in sospeso tutto ciò che li ha sempre divisi.


HarperCollins Italia
letto da Stefano Scialanga
180 pp
L'Autore ha scritto un libro molto bello che, se da una parte è sicuramente qualcosa di personale - in quanto racconta di sé, del legame con il padre -, dall'altra proprio la scelta di mettere al centro questo legame famigliare conferisce al suo memoir un taglio universale.
Non potrebbe essere diversamente visto che, se anche non siamo tutti genitori, siamo comunque tutti figli di un padre e una madre, il che rende questo tema vicino all'esperienza di ciascuno di noi.

Che figli siamo (stati) per i nostri genitori?

Giulio ci racconta della sua famiglia, di questo padre solido come una roccia, sicuro di sé, coerente, pratico, disposto al sacrificio, fedele agli impegni presi, con un grande spirito di abnegazione, un alto senso del valore dell'amicizia e un forte amore per la famiglia.

Un padre che avrebbe desiderato determinate cose per il figlio, aspettandosi che si prefiggesse e raggiungesse degli obiettivi di un certo tipo, che gli permettessero una certa stabilità e sicurezza nella vita.
Succede (e molto spesso, per non dire sempre) che i genitori maturino delle aspettative sui figli e che, in qualche modo, cerchino di guidarli nelle loro scelte affinché le realizzino, magari diventando ciò che essi non sono riusciti ad essere.

Che tipo di figlio è stato, in tal senso, Giulio per suo padre? 

Sicuramente un figlio che, a modo suo e seppur per poco, ha provato a dar retta al padre frequentando, ad es., l'Accademia Navale di Livorno, ma non era ciò che voleva fare e ha lasciato dopo un anno.

Quella tra Giulio e suo padre Giampiero è la storia di un rapporto tortuoso, fatto di aspettative paterne disattese e di rancori maturati nel silenzio testardo di un figlio che non riesce a comunicare serenamente con il genitore perché da lui si sente troppo spesso, e su ogni cosa, giudicato.
E giudicato male, come se fosse l'eterno irresponsabile, quello che non sa apprezzare la fidanzata perfetta che ha accanto, che vuol fare il giornalista e parlare in radio di libri, invece che cercare di puntare ad una professione più sicura, stabile, che gli permetta di mettere su famiglia e di farla campare degnamente. Come ha fatto lui, del resto.

Parlare con il padre è sempre stato difficile e così Giulio con lui ha sempre trattenuto le proprie emozioni, evitando di esprimerle, quasi fosse normale chiudersi in sé stessi e affidarsi al silenzio.
Non è piacevole sentirsi sempre inadeguati agli occhi di un padre esigente, che sembra disapprovare tutto di te, che sia la tua (legittima, vista l'età) voglia di divertirti o l'impegno non proprio totale e la scarsa inclinazione a "fare sacrifici a tutti i costi". 

Quando sopraggiunge d'improvviso la malattia (dolorosa e incurabile), le cose non vanno necessariamente meglio e, sebbene Giulio si avvicini al padre in termini di vicinanza fisica (prendendosene cura assieme alla madre), a livello emotivo non ci sono grossi passi in avanti.
Non per mancanza di amore, ovvio, ma perché... è difficile.

È difficile sbottonarsi davanti ad un genitore di cui abbiamo praticamente sempre temuto il giudizio, davanti al quale ci si è sentiti sempre non all'altezza.
Ed è difficilissimo ammettere le proprie paure: la paura della solitudine, quella che proviamo anche quando siamo in mezzo agli altri; il senso di frustrazione che si opprimente quando non ci si sente amati; il senso di disperazione provato quando non si riesce a trovare alcun vero motivo per sentirsi felici; ma, al di sopra di tutte, la paura che Giulio proverà inevitabilmente quando un giorno, voltandosi indietro, troverà il vuoto perché suo padre non ci sarà più a tendergli la mano e a sostenerlo; e infine la paura al pensiero di quando dovrà essere lui a sostenere qualcun altro, consapevole di... non saperlo fare.

Gli ultimi mesi della vita di Perrone padre sono vissuti dal figlio (quando ha perso il papà l'Autore aveva 24 anni) con un senso di grande frustrazione, nervosismo, stanchezza emotiva, senso di colpa, perché il ragazzo avrebbe desiderato scappare da quella casa in cui si respirava un'atmosfera greve di malattia, dolore e di "morte annunciata", per fare le cose che fanno i giovani alla sua età, ma sentiva anche che questi pensieri erano poco nobili e rispettosi verso il padre morente e verso la madre, sempre accanto al marito, pronta ad assisterlo in ogni necessità, notte e giorno.

Il racconto di Perrone non si limita a ruotare attorno all'analisi e al ricordo di questo legame famigliare difficile, per quanto di sicuro esso sia un modo, per lo scrittore, di rielaborare (mettendo su carta e grazie alla funzione catartica, terapeutica che la scrittura può avere) la propria ossessione per questo padre amato eppur distante in tanti aspetti; parallelamente ai toni nostalgici e molto intensi usati per questa principale tematica, infatti, ce ne sono di altri decisamente più simpatici, leggeri, divertenti.

Sì, perché Giulio riporta anche episodi goliardici di gioventù, scene di vita quotidiana (bello e commovente il momento in cui racconta il motivo per cui, per molto tempo, non ha amato la canzone "Il cielo in una stanza" di Gino Paoli) , le notti brave,  le avventure, le gite in barca, gli amici del padre, dai soprannomi indimenticabili - Godzilla, Karate, America...

Già, che fine ha fatto l'innominabile America? Anche lui si perde nella nebulosa scia dei ricordi di un passato che non torna più?

"Siamo destinati a disperderci, anche nella testa di chi ci ha amati", scrive Perrone. 

La malattia s'è portata via non solo il padre, ma anche tutte le discussioni che avrebbero potuto fare, tutto quello che  Giampiero avrebbe dovuto vedere di lui; avrebbe potuto, ad es. appurare come le passioni del figlio non fossero frutto di un capriccio passeggero ma come, anzi, esse, con gli anni, siano diventate sempre più solide, convergendo in una professione portata avanti con passione, e non solo per dovere.

Tutte queste cose belle Giulio non potrà mai raccontarle al padre, ma scriverle è un modo per omaggiarlo, per sentirlo più vicino e, in un certo senso, per far pace con il suo ricordo.

Ho ascoltato la lettura di questo libro dalla voce molto espressiva di Stefano Scialanga, che modula alla perfezione ogni cambiamento di tonalità, dando risalto alle parole importanti, alle pause, dando una spinta vivace con la parlata romanesca, rendendo l'ascolto molto molto piacevole, regalandoci momenti ora spensierati, ora seri e intensi, ora commoventi e malinconici.

In passato ho avuto modo di apprezzare la scrittura ironica e brillante di Giulio Perrone (CONSIGLI PRATICI PER UCCIDERE MIA SUOCERA); in questo suo ultimo libro al lettore viene data l'opportunità di conoscerlo in modo intimo, personale, attraverso una narrazione molto profonda, densa dal punto di vista emozionale, ricca di pathos e capace di arrivare dritta al cuore del lettore. 

Assolutamente consigliato.

mercoledì 16 febbraio 2022

[[ NEWS LIBRI]] Libri in ascolto e un'anteprima

 

Buongiorno, lettori!!

Di recente ho sottoscritto all'offerta di 30 giorni gratis di Amazon Audible e ho immediatamente inserito un paio di audiolibri nella mia libreria virtuale.

Uno è un romanzo fresco di stampa. l'ultima fatica (per ora :-D) di uno scrittore noir italiano che, ormai chi mi legge lo sa, è tra i miei preferiti: Piergiorgio Pulixi, che il 15 febbraio ha esordito con un romanzo per ragazzi, dalla trama molto intrigante e nelle cui atmosfere misteriose mi sono già tuffata >>  IL MISTERO DEI BAMBINI D'OMBRA, Ed. Rizzoli <<


Altro libro che, per ora, mi attende (ce l'avevo in wishlist da un po') è AMERICA NON TORNA PIÙ di Giulio Perrone.


Un padre e un figlio. Un confronto complicato, sempre. Specie quando tuo padre sembra disapprovare tutto di te, la voglia di divertirti, l'impegno che non riesce a superare una certa soglia, i sogni che non sono supportati dalla vocazione al sacrificio. Eppure i suoi racconti di giovinezza parlano di notti brave, di avventure, di amici dai soprannomi indimenticabili, Godzilla, Karate, America.

Già, che fine ha fatto America? Se le domande sono scomode, più dolorose ancora sanno essere le risposte. E rimangono lì, a morire sulle labbra, salvo riemergere a ogni traguardo della vita, a ogni sguardo verso il passato, a ogni prospettiva di futuro. Giulio Perrone per la prima volta abbandona il genere a favore di un romanzo autobiografico, duro e commovente, che racconta il rapporto tra un padre e un figlio, dai primi agli ultimi giorni, quelli di una malattia crudele come le parole rimaste in sospeso.

Un rapporto fatto anche di silenzi, incomprensioni, sfide ed emulazioni, differenze e somiglianze, inevitabili e attese, e di amore.

                                                                       ❤❤❤❤❤

Infine, vi segnalo un'anteprima diversa dal solito, pubblicata per la prima volta in Italia, da Marotta&Cafiero. HANDALA. UN BAMBINO IN PALESTINA (Ed. Marotta e Cafiero, trad. E.Leo, 120 pp) di Naji Al-Ali, assassinato a Londra nel 1987, uno dei vignettisti più importanti della storia del mondo arabo, che in oltre quarantamila vignette ha espresso con forza le proprie idee politiche e che, grazie a Handala, il suo personaggio più importante - una vera e propria icona della resistenza palestinese - ha dato voce "...al popolo, alla mia gente che sta nei campi, in Egitto, in Algeria, gli arabi sparsi in tutta la regione che hanno ben pochi mezzi per esprimere i propri punti di vista” (Naji Al-Ali).

Il libro è in uscita il 22 febbraio e ho intenzione di comperarlo (ho un buono da sfruttare).


Naji Ali è il più grande vignettista della storia della Palestina. Con il suo inchiostro ha saputo raccontare l’orrore, la resistenza e la sofferenza del popolo palestinese. Ha criticato l’occupazione illegale israeliana, il governo palestinese e i regimi arabi, ha fatto della sua matita una spada. Naji ha realizzato oltre 40 mila vignette, un fumettista politico senza precedenti. Handala, un bambino sempre di spalle con le mani incrociate dietro la schiena, è diventato la sua firma. Un bambino scalzo e vestito di stracci, spettatore di una guerra lunga oltre 60 anni. 
Nessuno conosce il volto di Handala, erba amara, il suo viso sarà “rivelato solo quando i rifugiati palestinesi torneranno in patria”. 
Grafite al servizio del popolo, Naji Ali è l’esempio di come una vignetta di pochi centimetri quadri possa servire più di un’intifada, fermare l'occupazione, e sventare il velo di menzogna che ricopre la Palestina.
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