Sconvolgente e crudo,
"La spinta" è uno scioccante viaggio nella genitorialità, dove i sentimenti e le emozioni sono sviscerati con chirurgica e lucida precisione, dando così alla narrazione un taglio decisamente inquietante ed estremamente coinvolgente.
Di capitolo in capitolo, il libro mantiene una forte suspense, di quelle che respiriamo in un bel thriller, ma in realtà siamo in presenza di un autentico
dramma psicologico, che si consuma all'interno delle mura domestiche e che, attraverso vie oscure, si sofferma sui problemi e sulle preoccupazioni che spessissimo avvolgono la
maternità, esperienza tanto meravigliosa quanto travolgente e complessa, ma anche l'importanza che su ciascuna persona riveste la propria storia familiare, nonché la genetica stessa.
LA SPINTA
di Ashley Audrain
|
Rizzoli Ed. trad. I. Zani 348 pp |
Che si creda o meno all'aspetto religioso del Natale, si tratta solitamente di una festività che in tanti associamo alla famiglia, allo stare insieme, al ritrovarsi con i propri cari, famigliari ed amici.
Trascorrerlo da soli è quindi alquanto triste e deprimente.
È ciò che sta capitando a Blythe Connor, che sta trascorrendo il proprio Natale da sola, in macchina a spiare la nuova vita di suo marito Fox.
Cercando di non farsi notare troppo, osserva la scena di una famiglia perfetta, le candele accese, i gesti premurosi.
Ma la sua presenza viene notata dalla sua bambina, Violet, la sua enigmatica figlia undicenne che vive serenamente a casa con il padre, la sua nuova compagna e il suo fratellino; immobile alla finestra, Violet fissa sua madre.
Nei suoi occhi non c'è ombra di affetto, di vicinanza o complicità verso quella donna in auto: il vuoto assoluto, e se non è proprio vuoto, al massimo è sfida, provocazione. Certo non amore.
Come mai?
Perché Blythe è sola e si costringe a spiare l'ex-marito in un momento di intima felicità in compagnia della loro unica figlia e della sua nuova famiglia?
Eppure, c'è stato un tempo in cui anche loro sono stati una famiglia apparentemente normale, e Blythe era non solo la mamma di Violet ma anche del piccolo Sam.
Il suo meraviglioso e dolce Sam.
Blythe osserva, valuta, ricorda e racconta.
Racconta a noi lettori la sua versione dei fatti: cosa ha distrutto la sua famiglia?
Ok, non era un nido d'amore perfetto, i problemi e i dissidi non mancavano tra lei e Fox, e il rapporto della donna con Violet era sicuramente uno dei motivi di frizione nella coppia...., ma per quanto "storta" era pur sempre la sua famiglia.
Per capire cosa sia successo e cosa abbia portato alla separazione, dobbiamo seguire il racconto della narratrice, che con calma e chiarezza, immaginando di rivolgersi al marito come gli scrivesse una lunga lettera, parte dall'inizio, dal loro incontro, da come si sono innamorati e di come hanno deciso di metter su famiglia.
Fox, sempre gentile, premuroso e ottimista, ne era convinto: "Avremo dei figli. E tu, Blyhe, sarai un'ottima madre".
Ma davvero dici, Fox? E che ne sai? Come fai a sapere che sarò una brava mamma quando io stessa non ho avuto un buon esempio? Hai forse dimenticato che la mia mi ha abbandonato all'età di undici anni, sparendo dalla mia vita come se io per lei non fossi nulla?
Ma Blythe, tu non sei come lei. Non sei come tua madre, come Cecilia. E poi l'anaffettività o l'incapacità di essere genitori non sono mica dei geni, che si possono tramandare!
Sicuro, Fox?
Negli anni, Blythe si è sempre chiesta se la sua infanzia fatta di vuoti, solitudini e abbandoni, non l'avesse formata e, in un certo senso, "deformata", impedendole, senza che lei l'avesse chiesto o desiderato, di gettare le basi per essere, un domani, una buona madre.
Che ci piaccia o no, ognuno di noi è frutto di un passato, di un'educazione, di un ambiente famigliare che c'ha visto nascere, crescere e formarci.
E questo vale anche per Blythe, figlia trascurata di Cecilia, una donna che di fare la mamma non aveva alcuna intenzione; insofferente a ogni costrizione, a una vita fatta di incombenze domestiche e di una bambina da accudire, Cecilia in casa era come un cavallo imbizzarrito che non vedeva l'ora di saltare la staccionata e correre verso la libertà.
Blythe non sa cosa sia una mamma affettuosa, che ti abbraccia dicendoti "Ti voglio bene", che ti consola per un ginocchio sbucciato, che ti aiuta ad affrontare i piccoli problemi che si presentano nella vita di una bimba come le altre, che si siede accanto a te la sera, sul letto, per leggerti una storia e poi ti dà il bacio della buonanotte.
Come ti ama una mamma? Cosa vuol dire crescere sentendosi amate e considerate da colei che ti ha messo al mondo?
Può una donna non amare il frutto del proprio grembo? Può una figlia diventare un peso o - forse peggio! - un essere invisibile per sua madre?
Si può diventare una brava mamma non avendone avuta una?
Blythe guarda Fox, col suo rassicurante entusiasmo, e si pone tante domande su se stessa e sulla paura di non saper amare adeguatamente un eventuale figlio; domande che si fanno concrete quando resta incinta.
E quando Violet nasce, dal primo istante sente che nulla sarà come prima: quell'esserino rosso e urlante è parte di lei, è uscito da lei.
Non può non amarla, non desiderare di prendersene cura e di riempirla di affetto.
No?
E invece, le paure prendono forma: tra lei e la piccola sembra non riuscire a stabilirsi alcuna connessione, vicinanza. Non c'è alcun filo che le lega nell'anima, come pensava dovesse accadere.
Violet la rifiuta, ha problemi pure a bere al seno, non vuole stare tra le sue braccia, non vuole aver vicina la sua mamma. Preferisce il padre, il quale si innamora pazzamente della sua creatura e, a differenza della moglie, da subito riesce ad entrare in sintonia con Violet.
Diventare madri è un'esperienza straordinaria ma non è proprio una passeggiata, e nonostante le frasi ottimistiche tipo slogan su quanto sia bello prendersi cura di un neonato che ti sconvolge l'esistenza, i ritmi, gli spazi e quant'altro, ma che porta con sè una nuova luce e tanto amore, beh.. non è scontato che una neomamma viva tutto e sempre con un sorriso sulle labbra.
Paure, stress, frustrazioni, stanchezza fisica e mentale e tanto altro, sono dietro l'angolo, come delle frecce pronte a conficcarsi in tutti i punti deboli e scoperti di una donna che si trova a vivere giorni e settimane, dopo il parto, non sempre facili da gestire.
Ma la difficoltà a interagire con Violet, a provare per lei un amore sconfinato e a farsi amare dalla bimba, continuano. Non che Blythe non le voglia bene, eh, ma c'è qualcosa che la frena, che le impedisce di amarla con quello slancio e quella devozione che tutti (dal marito alla suocera agli amici ecc...) si aspettano che spontaneamente provi per lei.
Sempre colpa dell'ombra pesante e scura di mamma Cecilia?
In un flusso alternato di racconto del passato e del presente, veniamo a sapere che a sua volta Cecilia è stata vittima essa stessa di una madre che non l'ha amata; non solo, ma nonna Etta era una donna con diverse problematiche di tipo psicologico, per cui il suo non era semplicemente un problema di freddezza, di incapacità di esprimere emozioni, ma era proprio una conseguenza di qualcosa di più profondo e grave.
Una tara genetica, forse, che quindi ha dato vita ad una sorta di trauma intergenerazionale?
Ad aggiungere preoccupazione e dubbi sinistri nella mente di una razionale Blythe, è la constatazione che, crescendo, la sua Violet manifesta atteggiamenti strani, diversi da quelli dei suoi coetanei.
C'è in quella bimbetta un che di duro, ribelle, provocatorio, indisponente. Quanto più dimostra di voler bene al padre e di ricercare la sua compagnia, quanto più tiene lontana la madre, che non sa come fare per abbattere quel muro di opposizione e freddezza che la separa dalla figlioletta.
Se cerca di parlarne con Fox, questi taglia corto e sminuisce.
Il guaio è che questa figlia silenziosa, dallo sguardo tagliente e scrutatore (troppo per una bambina), nei cui occhi spesso passano lampi di perfidia (possibile?? in una bimbetta di 5 anni??) e malizia, non è strana solo con la mamma, ma anche con i coetanei.
Suo marito non vede ciò che vede Blythe e attribuisce tutto alle fisse che la donna si crea da sola nella sua testa.
Ma a meno che Blythe non sia matta come la nonna, lei sa quel che vede e una volta assiste ad un evento drammatico in cui Violet è presente e in cui sembra (!?) fare un gesto (casuale?) che avrà ripercussioni davvero tragiche su un'altra persona.
E poi vogliamo parlare del fatto che gli insegnanti lamentano una preoccupante aggressività e mancanza di empatia di Violet verso i compagnetti?
Insomma, c'è qualcosa che non va nella figlia e forse non è tutta colpa di Blythe se non riesce ad amare questa creatura "diversa" e tutt'altro che tenera e dolce!
Quando nasce il secondogenito, Sam, inizialmente l'atmosfera si rilassa: con lui ogni dubbio sparisce e Blythe entra in una dimensiona nuova e magica. Finalmente riesce ad essere la mamma che tutti si aspettano che sia e le viene così naturale!
Se con Violet doveva sforzarsi per dimostrarle affetto in modo palese, con Sam è tutto facile e spontanei: lei ama lui e lui ama lei. Una simbiosi perfetta.
La cosa bella è che anche con Violet paiono migliorare i rapporti. Forse avere un fratellino ha fatto bene a tutti, e magari cementificherà ancor di più l'unione con Fox.
No?
La situazione però precipita in poco tempo e la gioia e le risa smetteranno di echeggiare tra le mura di casa Connor.
"La spinta" è un romanzo che ti prende dalla prima pagina fino all'ultima; l'ho letto in poco tempo perché non riuscivo a staccarmene e quando lo chiudevo non vedevo l'ora di riprenderlo.
La penna della Audrain ha un che di viscerale, è onesta fino ad essere brutale; fotografa con dovizia di particolari e con uno sguardo bruciante la maternità, sia in quanto esperienza personale, sia dalla prospettiva delle aspettative della società e delle pressioni culturali che le satellitano attorno.
Non c'è sentimento sull'essere madri che non venga portato alla luce, che siano dubbi, solitudine, rimpianto, timori più o meno giustificati, sensi di colpa; diventare mamme viene spogliato della sua veste rosa tutta cuoricini e sorrisi beati, per assumere sfumature ben più oscure, dolorose, contraddittorie e spesso taciute perché disapprovate socialmente.
Angosciante e potente, questo romanzo (che mi ha fatto rivivere un tumulto di pensieri e stati d'animo provati con "...e ora parliamo di Kevin", cui si avvicina per tematiche) fa sì che il lettore si ponga molti interrogativi durante la lettura, primo fra tutti su come la maternità non venga vissuta da tutte nello stesso modo, di come non basti essere genitrice dal punto di vista biologico per sentirsi "mamme dentro". Ci si sofferma su come l'arrivo di un figlio possa modificare gli equilibri di coppia, sull'evoluzione del rapporto madre-figlia, ovviamente, e sull'influenza che questo ha nella vita adulta, quando ci si trova a (e/o si desidera) diventare madri.
Blythe Connor racconta al lettore e al marito (la narrazione è in seconda persona, tranne nelle parti relative al passato, in cui si narra della nonna e della mamma) la sua versione dei fatti, il suo pensiero sulla personalità e sui bizzarri comportamenti di Violet, e vedere - attraverso i suoi occhi - di cosa sia capace una ragazzina è davvero inquietante perché avvertiamo, insieme alla protagonista, tutta la preoccupazione scaturita dall'atroce sospetto che questa figlia possa essere un mostro, capace di azioni terribili, pericolose.
L'autrice ha strutturato il romanzo con capitoli brevi ma intensi, che ti inducono a sostare un attimo prima di iniziare il successivo, come a metabolizzare ogni episodio, novità, dramma.
Bello bello, questo libro ti trascina, ti fa provare molte emozioni (anche contrastanti), ti fa stare col fiato sospeso, ti fa scuotere la testa sbigottita, ti fa sussurrare: "Ma... possibile...?", ti porta a farti un sacco di domande su temi importanti e ti lascia con una sensazione di impotenza e ineluttabilità, regalandoti un ultimo e scioccato brivido.