Tra queste pagine, l'Autore ci mostra quale e quanta umana bellezza si nasconda tra gli angoli oscuri della follia, quanta sofferenza, disperazione, rabbia, impotenza, solitudine, consapevolezza di non essere compresi né tanto meno accettati.
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Ed. Mondadori 204 pp |
E' un giorno di giugno del 1994 quando al ventenne Daniele viene praticato un TSO, in seguito ad una violenta esplosione di rabbia che lo ha spinto ad avere comportamenti violenti e molto aggressivi.
Il giovane apprende, nel suo primo colloquio con un dottore del reparto psichiatria, che dovrà restare in trattamento sanitario obbligatorio per una settimana, sottoponendosi alle cure che i medici decideranno per lui.
Smarrito, confuso, amareggiato: Daniele è tristemente consapevole di aver messo in subbuglio la propria famiglia, di aver quasi ammazzato il povero padre, di aver dato noie ai fratelli e, soprattutto, di aver dato un gran dispiacere all'amata madre:
"Da quando sono nato non ho fatto altro che portare disordine, un’esagerazione dietro l’altra, tutto un impulso da seguire, nel bene come nel male. Non so vivere in un altro modo, non riesco a sfuggire a questa ferocia: se c’è una vetta la devo raggiungere, se c’è un abisso lo devo toccare."
Cosa c'è che non va in lui?
Sono due anni che i suoi genitori lo portano in giro da un dottore all'altro, che prende ora un farmaco ora un altro, che fa colloqui con psichiatri..., ma niente.
Forse stavolta, in questa settimana dove il caldo è afoso e insopportabile, mentre gli italiani sono concentrati sui Mondiali e a lui tocca starsene in una stanzetta d'ospedale dove si schiatta e che puzza di orina e sudore e altri effluvi corporali, verrà fuori qualcosa di utile? Magari il nome della sua malattia...?
Ma ce l'ha un nome questa malattia che rende Daniele inquieto, infelice, spesso disperato e a volte arrabbiato?
Lui per primo c'ha provato a etichettarla, a identificarla, a chiamarla per nome.
"Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo? O forse questa cosa che chiamo salvezza non è altro che uno dei tanti nomi della malattia".
Un'anima che si perde tra mille interrogativi - sulla vita, sulla morte, sulla sofferenza - e che non può fare a meno di caricarsi delle afflizioni altrui, sentendoli su di sè, come una condanna, che la spinge a disperarsi per la disperazione altrui, a provare ogni dolore come se appartenesse a se stessa, senza riuscire a nominarlo o a placarlo.
Sarebbe bello poter avere una corazza, un’armatura salda e forte che tenga Daniele al riparo, lontano dalle cose che accadono attorno a lui, ma mai come in quei sette giorni in psichiatria Daniele si renderà conto di come lì sia fin troppo naturale condividere esperienze, angustie, pensieri, sentimenti, paure, forse pure qualche speranza.
Nella spoglia e puzzolente stanzetta in cui l'hanno ricoverato, lontano dai suoi amici, dalle sostanze di cui fa uso per estraniarsi dalla realtà, lontano anche dalla famiglia, dalla madre premurosa e preoccupata, Daniele si scopre parte di un microcosmo popolato da persone simili a lui; a fargli compagnia ci sono altri cinque pazienti, ognuno con i propri problemi, disturbi, ossessioni: sei matti, sei uomini ai margini del mondo.
C'è Madonnina, così chiamato perché l'unica cosa che fa è rivolgere preghiere alla Madonna; sarà lui a dare un "focoso" (letteralmente!) benvenuto a Daniele, il giorno del ricovero; c'è Alessandro, un ragazzo che non parla e non si muove e ha lo sguardo eternamente fisso su un punto indefinito di fronte a sè.
E poi i tre compagni che invece parlano ed interagiscono tranquillamente: Gianluca, con i suoi atteggiamenti effeminati, capace di slanci di gioiosa e sincera affettuosità che all'inizio un po' spiazzano Daniele; Giorgio, un ragazzone grosso e alto, che nasconde una fragilità da bambino impaurito; e infine il più maturo, pacato e saggio della brigata, Mario, colui che parla con tutti con gentilezza, educazione e saggezza, quasi accarezzando con lo sguardo il suo interlocutore, con "una dolcezza che dovrebbe risiedere in ben altro luogo, non dentro questa gabbia di pazzi."
Si tratta di compagni di stanza speciali, teneri e bizzarri insieme, che la vita ha travolto e strattonato con poca grazia, e adesso che si ritrovano tutti e sei a condividere pochi metri quadrati, devono fare i conti anche con dottori che - chi più, chi meno - li visitano con aria annoiata, indifferente o con frettolosità, e con un personale infermieristico che, se non è in egual misura distaccato, è impaurito (i matti son pericolosi, è risaputo, no?) o brusco e minaccioso.
In questo "contenitore di malattie e disperazione, di follia lucidissima", e in pochi giorni, può nascere un rapporto di fratellanza e solidarietà?
Daniele lo scoprirà, e con l'empatia che gli è propria, con l'atteggiamento di chi non s'accontenta di contatti superficiali ma fa domande e cerca risposte, sentirà nascere giorno dopo giorno un sentimento molto vicino all'amicizia, fatto di umana compassione, di desiderio di sostenersi reciprocamente, di condividere momenti ricchi di umanità.
"Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare."
Non potrebbe esserci un sentimento diverso in uno come lui, la cui "ossessione" si sintetizza nella parola salvezza: dalla morte, dal dolore; per lui e per tutti.
Tra queste pagine, l'Autore ci racconta quanta umanità riposi tra le pieghe oscure della follia, in quei mali della mente e dell'anima di cui tante creature più deboli sono affette.
E tanto più la "pazzia" rassomiglia ad una prigione, che tiene incatenati i "poveri matti", quanto più è difficile tenere rinchiusi nelle artificiose maglie dei manuali di psichiatria questi malesseri, che cambiano nome e psicofarmaci in base al dottore che visita il paziente.
C'è tanta sofferenza in questo libro, tanta disperazione, rabbia, impotenza, solitudine, consapevolezza di non essere capiti e di certo difficilmente e raramente accolti, accettati.
Perchè se hai una malattia mentale, se le rotelle non sono tutte al loro posto, e beh vuol dire che sei difettoso.
E' sempre stato così: il matto va allontanato, segregato, stigmatizzato, perché fa paura - chissà che può combinarti in un raptus di follia? -; è più facile e "comodo" rinchiuderlo in un posto in cui ci stanno tutti quelli che hanno questo tipo di problemi.
E' stato inevitabile provare tristezza per le storie narrate, ma accanto ad essa c'è altro: la tenerezza di fronte alle fragilità umane, davanti a un pianto liberatorio, a lacrime che sanno di bambino ma che ti fanno anche uomo; la speranza di tornare a respirare l'aria di fuori, mista al timore di continuare ad annaspare nel proprio mare nero d'infelicità.
Ma c'è anche la rabbia di chi si rende conto del paradosso che vige nei confronti della malattia mentale: coloro che dovrebbero curarla con la scienza sono realmente in grado di andare incontro al singolo, rispettandolo per il suo personale vissuto, nella sua unicità di persona?
Sanno ascoltarlo davvero, guardarlo negli occhi con sincero interesse, concedergli tempo, spazio..., o si limitano a creare recinzioni attraverso paroloni e definizioni, catalogando senza pietà, ritenendo il paziente un "mero ingranaggio di carne" cui somministrare farmaci?
Mentre leggevo, mi sembrava di vederlo questo ragazzo di vent'anni, che passeggia nel corridoio del reparto, passa davanti alla medicheria, guarda la porta che - così gli hanno detto - divide lui e i suoi compagni dai matti cattivissimi e pericolosi, e che cerca in fondo qualcosa di semplice, niente di impossibile: un contatto umano, una risposta meno brusca, un'occhiata meno apatica, un dottore più coinvolto da ciò che lui ha da dirgli.
Perché anche un "cosiddetto matto" ha un mondo dentro di sé da condividere, una bellezza che potrebbe illuminare se non fosse soffocata da pregiudizi e menefreghismo; e questo suo mondo interiore, fatto di emozioni, ricordi, immagini, Daniele ha trovato una via per esprimerlo: la poesia.
"Tutto chiede salvezza" è un libro potente e intenso per l'argomento trattato, e delicato e struggente per come esso è affrontato, con una narrazione così personale, intima, empatica, spontanea e autentica (come lo sono i dialoghi, per la maggior parte in dialetto romano) che in modo del tutto naturale tocca la sensibilità del lettore, il quale trascorre insieme al protagonista/narratore una settimana in un luogo per tanti versi sgradevole eppure capace di accogliere attimi preziosi di gratitudine, amicizia, rispetto. Di umanità.
Quell'umanità che tutta, indistintamente, nasconde una forza insospettabile custodita dentro anime di vetro, che con poco rischiano di ridursi in tanti piccoli frammenti.
"possibile che nessuno s’accorge che semo come ’na piuma? Basta ’no sputo de vento pe' portacce via"
Non so se riuscirò a leggere altri libri candidati allo Strega, quindi ad oggi ogni mio giudizio è parziale; ad ogni modo, se dovesse vincere questo libro, per me la vittoria sarebbe meritata .