Non molto tempo fa ho avuto modo di guardare la docu-serie SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano, e l'avevo apprezzata perchè, a mio modestissimo avviso, tiene fede al titolo, cioè quello di mettere in risalto gli aspetti positivi e quelli più critici, controversi, che inevitabilmente hanno gettato delle ombre sulla comunità e, in special modo, sul suo fondatore, Vincenzo Muccioli.
SANPA, MADRE AMOROSA E CRUDELE di Fabio Cantelli Anibaldi
Ed. Giunti 224 |
"In pochi giorni la tua esistenza e il tuo corpo si scarnificano, si riducono a pura pulsione, e quando perdi anche l’ultimo residuo di autocontrollo sopraggiungono le allucinazioni. Allora è come se il mondo ti ghignasse attorno, come se ogni cosa si prendesse gioco della tua impotenza."
Non è stato semplice entrare, perché essere lì significava da una parte uscire dall'isolamento proprio della sua condizione di tossicomane, per poter imparare a condividere una nuova esperienza con altre persone, e dall'altra voleva dire ammettere ufficialmente, e senza più bugie, la triste realtà: quella di essere, appunto, un tossicodipendente.
Non è stato semplice né automatico neppure restare in comunità ed infatti Fabio ha tentato la fuga un numero imprecisato di volte; alcune fughe duravano una giornata o solo qualche ora, e terminavano con un ritorno perché, a differenza di altre comunità per tossici in cui era già stato, San Patrignano era la prima e la sola capace di esercitare su di lui attrattiva e smarrimento insieme. Ne subiva il fascino, forse intimamente ed inconsciamente convinto che, in un modo o nell'altro, quell’esperienza lo avrebbe cambiato per sempre. Ed è stato proprio così.
In questo memoir Cantelli ci dice come uno degli aspetti forse più sorprendenti di San Patrignano fosse la mancanza di un vero e proprio programma terapeutico:
"...il “metodo” San Patrignano era un aggiustare il percorso che accadeva dentro la via, una costante correzione della rotta esistenziale per condurre al punto dove avresti capito che percorso e obiettivo sono la medesima cosa."
Si è parlato molto di questi metodi, e la stessa serie Netflix in fondo ruota proprio attorno alla questione: "è ammissibile usare qualunque metodo (anche "discutibile", dal punto di vista etico) per far del bene?"
"Quella prigionia servì a separarmi dalla mia malattia; io solo potevo salvarmi. Ma perché ciò accadesse doveva nascere in me una dissociazione.
Io dovevo dissociarmi da me stesso, prendere le distanze dal male che mi ero fatto, dal lento omicidio col quale, da quattro anni, stavo cercando sistematicamente di farmi fuori."
L'Autore dichiara che lì "il confine tra terapia e violenza era sottilissimo, e per mantenersi in equilibrio su quella corda sospesa sul vuoto bisognava avere una profonda consapevolezza dei propri gesti. Bastava una parola male dosata o anche uno schiaffo che non trasmettesse nient’altro che la sua fisicità ed ecco che il “ciocco” non solo perdeva la sua efficacia terapeutica, ma rischiava di distruggere laddove si proponeva di costruire."
Attraverso il “ciocco” (una sorta di mega-rimprovero pubblico che Muccioli rivolgeva agli ospiti che commettevano degli "sgarri") veniva pubblicamente giudicato il comportamento del malcapitato, e il fatto che l'umiliazione avvenisse davanti a tutti era per liberarlo dai suoi conflitti interiori, dai quali nessuno degli ospiti poteva guarire da solo perché, essendo ciascuno solidale col proprio male, nemmeno li riconosceva; ecco allora che si rendeva pubblico il privato e così lo si annullava, lo si negava nella sua realtà.
Il quadro che emerge è quello di un uomo che è stato per la propria comunità un padre di famiglia, certo, ma anche un padre-padrone, come del resto ce n'erano tanti nelle famiglie italiane dell'epoca.
Cantelli racconta e, se da una parte lo fa con onestà, non nascondendo responsabilità e mancanze, dall'altra non si sottrae all'innegabile affetto provato per Vincenzo, con cui ha condiviso un pezzo fondamentale dell'esistenza, del proprio cammino di uomo: "Fabietto" non giudica colui che resta, al di là di luci ed ombre, la persona più importante della sua vita, oltre che la pietra miliare della"vecchia" SanPa, quella di prima della morte del suo fondatore - anche se in effetti i primi cambiamenti cominciarono già prima che Muccioli si ammalasse e morisse.
Tra queste pagine ovviamente si fa menzione dei processi affrontati da Muccioli e di tutte le burrasche che hanno investito San Patrignano negli anni '80-'90; in merito ad es. all’omicidio Maranzano e a tutte le presunte violenze o reclusioni successive al “processo delle catene” del 1984, scrive come essi, a suo avviso, siano accaduti in un periodo durante il quale Muccioli, non potendo più seguire personalmente tutti i programmi di recupero, aveva iniziato a concedere maggiori responsabilità ai collaboratori, e tra questi c'erano alcuni inadeguati, che si rendevano protagonisti di episodi di brutale violenza.
La scrittura di Cantelli è elegante, ricercata e lucidissima, senza però essere mai fredda o distaccata, tutt'altro: è molto introspettiva, diventa tra le sue mani strumento di ricerca di sé, della propria identità - che, negli anni della droga s'è ridotta in frammenti, si è dissolta per poi ricomporsi -, delle motivazioni, delle paure, del potere della droga sul proprio io.
Ho provato insieme a lui e per lui, per quel Fabio che in isolamento ha dovuto venire a patti con se stesso - con quell'io più profondo che aveva conosciuto l'abisso infernale della droga - orrore, pena, rabbia, impotenza, compassione, sollecitudine, speranza.
In questa personale ed intima testimonianza, egli ci racconta cosa significhi essere dipendenti e schiavi di eroina e cocaina, come ci si sente quando le si assume (quella sorta di delirio di onnipotenza di chi crede di essere immortale, un po' come i bambini che non sanno cosa sia la morte), cosa si prova in preda alle terribili e temibili crisi di astinenza.
Il testo è scorrevole e in buona parte piacevole da leggere, pur essendo pregno di citazioni filosofiche e letterarie, che personalmente trovo siano coerenti con la cultura e la profondità di pensiero dell'Autore, la cui sensibilità emerge in modo indiscutibile tra queste pagine in cui mette a nudo se stesso, ciò che è stato - le debolezze, gli errori commessi, le tante ombre che hanno preso possesso per anni della sua esistenza - e ciò che è diventato, soprattutto grazie a San Patrignano e a Muccioli.
Io solitamente apprezzo l'attitudine a voler indagare nella psiche umana, e questa raffinata capacità introspettiva dell'autore non mi è dispiaciuta - l'ho vista come segno di ricchezza interiore, bellezza d'animo e raffinatezza di pensiero, oltre che di grande conoscenza - però, a un certo punto, è come se fossi arrivata ad un livello di saturazione.
Avrei preferito che - soprattutto dopo aver parlato di sé, del rapporto tossico-droga - nel trattare più strettamente di Sanpa, di Muccioli e delle vicende giudiziarie, l'Autore mettesse da parte la filosofia e la psicologia e scendesse nel cuore delle questioni; per carità, senza disquisire dei fatti processuali come una Leosini di seconda mano, né per il gusto di soddisfare curiosità morbose e "pettegole" sulle violenze, le umiliazioni, sui misteriosi casi di suicidio ecc..., però non nego che mi sarei aspettata che ci si soffermasse di più (di come ha fatto) e in modo da dare il proprio punto di vista in maniera più approfondita e anche privilegiata (considerati ruolo, tempo di soggiorno, rapporto con Vincenzo...).