lunedì 6 aprile 2020

Recensione: RAGAZZI DI ZINCO di Svetlana Aleksievic



Libri di voce sulla guerra: così definisce i propri documentari la Aleksievič, e Ragazzi di zinco lo è:  tra queste pagine troviamo tante testimonianze che la scrittrice bielorussa ha raccolto nel corso di quattro anni, percorrendo in lungo e in largo l’Urss.
Sono i racconti di reduci e invalidi della guerra afghana, di vedove e madri dei caduti.
Fedele al proprio assunto di indagare “l’anima delle persone” a tutto campo e di prestare orecchio ai racconti di tutti, l'Autrice apre il triste velo su una delle più grandi tragedie della storia sovietica: la guerra in Afghanistan tra il 1979 e il 1989.


RAGAZZI DI ZINCO
di Svetlana Aleksievic



Ed. E/O
trad. S. Rapetti
316 pp
"Non sono tanto sicura che sia un bene sapere certe cose su noi stessi. È troppo penoso. E ti lascia con un vuoto nell’anima. Non credi più nell’uomo. Ne hai paura."


Leggere Ragazzi di Zinco significa percorrere un lungo e doloroso corteo in cui una fetta di umanità martoriata e piagata racconta a parole sue gli orrori della guerra.
E' il 1979 quando  l'Urss invia i propri soldati in Afghanistan, facendo passare il proprio intervento militare per un’azione umanitaria di cui la Patria e tutto il popolo sovietico potevano andar fieri.

Ma a guerra inoltrata - e tanto più in seguito, a guerra finita - si cominciò a realizzare che c'era davvero ben poco - anzi, nulla - di cui essere fieri e orgogliosi.
Ma realizzarlo è una cosa, proclamarlo ad alta voce è un'altra.

Fatto sta che circa un milione di ragazzi e ragazze in quell'arco di tempo (dieci anni) sono partiti per sostenere la “grande causa internazionalista e patriottica”: una intera generazione di giovani, medici e insegnanti, impiegati, infermieri, ufficiali e comandanti.

Di questi, almeno quattordicimila sono tornati in patria all'interno di casse di zinco e sepolti di nascosto, nottetempo; cinquantamila son tornati feriti.
E non dimentichiamo mezzo milione di vittime afgane, e poi le torture, la droga, le atrocità, le malattie, gli atti di sadico nonnismo, la vergogna e la disperazione... 

Tra queste dolorose pagine "ascoltiamo le voci" degli afgancy, i ragazzi sovietici che la guerra ha trasformato in assassini, e che qui raccontano ciò che la storia del loro amato Paese ha tentato di nascondere. 
Sono racconti veritieri e per questo crudi, in cui ci troviamo di fronte a tanti reduci privati di arti e con protesi di cattiva qualità che ricordano questa esperienza traumatica che li ha visti soffrire la fame, il caldo e il freddo, cattive condizioni igieniche; soldati e ufficiali che non hanno dimenticato (come si può dimenticare?) le atrocità alle quali hanno assistito, che fossero quelle compiute dai Mujahiddin sui prigionieri loro compagni, o quelle che loro stessi hanno perpetrato sul nemico.

L'orrore è all'ordine del giorno e ciò che fa rabbia è pensare che intanto in patria i giornali scrivono che in Afghanistan i soldati sono andati lì per costruire ponti e piantare alberi, i medici sovietici curano donne e bambini del posto..., quando invece gli ordini sono: sparate sulla folla, non importa se ci sono donne e bambini.

Si susseguono, come in una affranta marcia funebre, le verità dei singoli, che siano i soldati tornati dal conflitto, le infermiere o le impiegate, o le madri di chi è tornato (con il corpo in chissà quali condizioni...) in una bara di zinco.

Ci sembra di vederli mentre raccontano le loro storie di persona o al telefono con la giornalista: delusi, arrabbiati, pieni di amarezza e dolore, impauriti, "impazziti", consapevoli degli incubi e dei cattivi pensieri e stati d'animo che non smettono di riempire la loro mente.

Sono ex-combattenti "ingannati dalla propaganda, sviati dalla violenza, ridotti a “macchine da guerra”"; la maggior parte di essi son partiti che erano poco più che adolescenti, cresciuti su a "pane e amore per la Patria", con un senso di rispetto e di obbedienza verso la propria nazione che sa di esaltazione e fanatismo. L'individuo singolo non conta nulla, il suo valore è sempre e solo rispetto a un collettivo, e in generale alla Patria, alla quale si deve fedeltà, lealtà assoluta e quando essa chiama, tu sovietico - maschio o femmina che sia - devi solo rispondere .

Per chi hanno combattuto, rischiato o perso la vita? Per chi hanno imparato ad ammazzare? Per chi o cosa hanno sopportato sofferenze, solitudine, terribili ferite fisiche e psichiche e, al ritorno, pure il disprezzo e l'infamia, perchè questa "loro guerra" alla fine altro non era che un grossissimo "errore politico", un'enorme idiozia di cui l'Urss doveva solo vergognarsi?

Ci si sente male al pensiero di come la guerra possa trasformare completamente un essere umano:

"Adesso (...) penso che non sarò mai più quello che ero prima di questa guerra."

Come si può arrivare a imbracciare un'arma e a far fuori un tuo simile come se stessi giocando a bowling, e a buttar giù gente come fossero birilli?
La verità è che, leggendo le narrazioni di chi la guerra l'ha combattuta in prima linea, veniamo messi davanti a una realtà come questa:

"Uccidere o non uccidere è un interrogativo che ci si è posti solo dopo la guerra. La psicologia della guerra in tempo di guerra è più semplice. Noi e gli afghani semplicemente non potevamo permetterci di considerarci reciprocamente degli esseri umani."

La logica è drammaticamente "semplice": per ammazzare basta premere il grilletto, e se tardi a premerlo e non spari per primo, muori. È la dura legge della guerra.

Sono soldati che sul campo di battaglia hanno imparato a sparare, ad uccidere a sangue freddo; hanno visto morire i propri compagni e hanno sentito crescere ancor più forte dentro di loro l'odio per chi ha tolto la vita a un compagno.

"Partivamo per fare la rivoluzione! Così ci dicevano. E noi ci credevamo. Ci aspettavamo qualcosa di romantico. ...Quando una pallottola incontra un uomo fa un rumore particolare – che non puoi dimenticare né confondere con nient’altro – una specie di tonfo bagnato. E il ragazzo che ti è accanto cade a faccia in giù nella polvere, bruciante come la cenere. (...) La prima volta ci si muove come in sogno: ti affretti, lo trascini via, spari, ma poi non hai più nessun ricordo del combattimento, non sei in grado di raccontarlo. Come se tutto si fosse svolto dietro a un vetro... O in un incubo. Dal quale ti risvegli per l’angoscia ma senza poter ricordare niente."

Uomini e donne mandati in Afghanistan a immolarsi sull'altare... di cosa? di quali alti ideali e valori?  di quale giusta causa?

Ma non tutti sono stati costretti ad andare in guerra dal governo: tanti di questi uomini e donne si sono arruolati volontariamente per la causa, perchè ci credevano.
Ed essi pretendono rispetto per il sacrificio compiuto: chi ha fatto la guerra e ne è sopravvissuto è combattuto tra due certezze: da un lato, la verità, l'apprendere di essere stati ingannati, fare i conti col fatto che la loro non è stata una guerra giusta, che non erano andati in Aghanistan "per far del bene"; dall'altro, la consapevolezza che intanto loro lì ci sono stati e hanno messo in gioco la propria vita, uscendone completamente distrutti e trasformati, nel corpo e nella mente:

"Ciò che si è vissuto in guerra non resta lì, in Afghanistan, ma segue, come un cane fedele, i reduci, popolando i loro incubi, amplificando paure, togliendo sogni, speranze per il futuro."

E questo combattimento interiore è presente anche nelle madri dei poveri sfortunati i cui resti sono finiti in una bara: nessuno deve sporcare la memoria dei loro eroici bambini; allo stesso tempo, che sentimento possono nutrire queste famiglie verso una Patria che ha mandato i propri figli a morire, senza mostrare per loro alcuna considerazione?

Al dolore della perdita e dell'onta caduta improvvisamente sull'onore di questi ragazzi, si aggiunge quello del silenzio: dei caduti non si poteva parlare, perché l'esercito sovietico era grande e potente, guai a raccontare fatti che ne oscurassero l'immagine perfetta e moralmente sana.
Ogni testimonianza andava seppellita, le foto andavano stracciate, le pellicole distrutte: bisognava tacere sul fatto che laggiù i sovietici avevano sparato, bombardato, gassato, avvelenato i pozzi, fatto saltare per aria. Altro che  intervento umanitario per aiutare il povero popolo afghano.

Si potrebbe essere indotti a credere che, una volta tornati dal conflitto, la maggior parte dei reduci fosse indignata contro la Madre Patria per averli trattati come carne da macello, facilmente sacrificabile, e che odiasse il periodo trascorso in Afghanistan o lo ricordasse controvoglia...
Mi ha colpita, invece, constatare che molti di essi, una volta tornati a casa definitivamente, sentissero la mancanza di quel posto, perchè lì si erano sentiti utili come mai lo sono stati altrove e successivamente. Guai a togliere loro il passato: vivono solo di quello.

"In guerra, a unirci era la paura. Eravamo stati tutti ingannati allo stesso modo, e tutti quanti volevamo solo vivere e ritornare a casa nostra. Quello che ci unisce qui è il fatto che ci manca tutto."

Una volta tornati... a chi interessa sapere la sofferenze, le privazioni, le ferite fisiche e quelle psichiche, il dolore per un compagno ammazzato sotto i tuoi occhi? Sono tormenti personali e profondi, che non puoi condividere con nessuno, perchè la gente non vuol sapere; non solo, ma è convinta di sapere già tutto: che ci siete andati a fare là? Non lo sapevate che partecipavate a qualcosa di sbagliato e infame?

Con questa raccolta di testimonianze vere e struggenti, la scrittrice smaschera tutte le falsificazioni e le menzogne grazie alle quali il regime sovietico ha indotto la sua gioventù a immolarsi per una causa profondamente sbagliata e ingiusta; ha raccolto storie, dettagli, sentimenti che rivelano sia ciò che c'è dietro una singola esistenza, sia ciò che riflette la coscienza di un popolo in uno specifico momento storico.

Al centro della sua ricerca c'è la storia dei sentimenti più che della guerra in sé: cosa pensavano queste persone? Che cosa volevano? Quali erano le loro gioie? E le loro paure? E che cosa ricordano?

Ad essi Svetlana Aleksievic, con determinazione, onestà e coraggio, dà voce, e insieme a questi dimenticati cui la storia ha tolto la parola, consegna al lettore un libro scioccante nella sua brutalità, che sottolinea tutta la ferocia e l'orrore che c'è dietro la guerra.
Dietro ogni guerra.


** Curiosità: l'idea di leggere questo libro è nata in seguito a un "consiglio letterario" di Chef Rubio ^_-  **

4 commenti:

  1. Ciao Angela, non ho letto il libro, ma dalle tue parole sembra davvero molto forte... però penso sia necessario mettere nero su bianco testimonianze di vita reale come questa, che a volte si conoscono poco o s'ignorano del tutto...

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    Risposte
    1. E' forte perchè ci sono racconti veri di un'esperienza brutale... Da conoscere.

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz

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