Lontano dal caos della città, confinato in una grande e vecchia villa di famiglia, situata in una zona di montagna in cui la vita e lo stesso scorrere del tempo sono scanditi dai ritmi della natura e del bosco, un giovane uomo - ultimo erede di un antico e nobile casato ormai decaduto - cerca di dare un senso al proprio presente attraverso il passato: un passato di famiglia popolato dalle storie dei propri avi, con le loro virtù e le loro malefatte; giorni andati via per sempre di cui egli sente ancora forte il sussurro (e il peso?), ma la vita lo metterà dinanzi alla scelta se ascoltare e far continuare a vivere quelle voci del passato o se metterle a tacere e sentirsi finalmente l'unico padrone del proprio presente e del proprio futuro.
IL DUCA
di Matteo Melchiorre
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Ed. Einaudi 464 pp |
Lo chiamano scherzosamente "il Duca", ma lui lo sa che è più una presa in giro che una dimostrazione di rispetto per l'appartenenza a una dinastia, i
Cimamonte, che ha, ovviamente, perduto ogni privilegio nobiliare.
Riservato e solitario, il Duca (protagonista di questo romanzo) ha deciso di ritirarsi a vita privata nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia e prendere possesso della propria eredità, anche se questo significa abitare in un posto isolato qual è Vallorgàna, un piccolo paese circondato da fitti boschi e dalla "severa e impervia" Montagna, nonché scarsamente popolato, in cui le esistenze dei singoli e delle famiglie scorrono a ritmi sempre uguali, seguendo le stagioni e i lavori da fare nelle proprie terre e nei boschi.
Non è semplice integrarsi in quella comunità di montanari un po' chiusi, diffidenti, restii ad accogliere a braccia e cuore aperti il forestiero, lo straniero, colui che viene da fuori e che non appartiene a quel luogo.
Certo, nel caso del Duca, la sua famiglia appartiene a Vallorgàna, le sue radici affondano lì, in quei boschi, in quella terra umida e selvaggia.
Ma se il Duca dovesse farsi accettare dai paesani in quanto discendente dei Cimamonte, sarebbe meglio deporre ogni speranza!
I Cimamonte non sono mai stati molto amati in Montagna.
Stando da solo nella grande villa (con la sola compagnia dell'anziana Dina, che ha servito in quella casa e che attualmente va a far visita al giovane per aiutarlo in qualche incombenza domestica, come la cucina), il Duca impegna il tempo nei lavori lavori manuali e nello scavare tra le vecchie carte di bis-bisnonni: ad attirare ogni sua attenzione è un antichissimo libro di famiglia, la Chronica Cimamontium e apprendere quante più informazioni sugli avi diventa non solo una delle sue più gradevoli occupazioni, ma anche il crocevia dei suoi pensieri.
La lettura di queste scartoffie impolverate e ingiallite, scritte con una grafia praticamente illeggibile, fa sì che egli si interroghi lungamente intorno al senso che può avere, ai suoi giorni, discendere da un casato come quello dei Cimamonte: "antico, potente, ricco, ma che soprattutto costruì la propria fortuna su di un sistema sociale della cui ingiustizia non c’è oggigiorno motivo di dubitare. Nella boiserie si custodiva un mondo che i miei avi tenevano in pugno. Distese di terreni. Torme di fittavoli. Schiere di braccianti. Servitori e fantesche. Disuguaglianze giuridicamente sancite. Scuderie di cavalli. Titoli di rispetto. Codici di comportamento. Tutto un mondo, in breve, nel quale non si discuteva il fatto che i Cimamonte fossero i Cimamonte."
Insomma, il giovane ha tutte le ragioni per credere che i suoi parenti, di cui ormai non restano più neanche le ossa, abbiano signoreggiato e dominato a Vallorgàna e che di essi la gente di quei luoghi non abbia un ricordo poi così nobile, ma che, al contrario, di questa ricca famiglia si ricordino l'arroganza, l'egoismo, la boria, la brama di essere i signori di tutto e su tutti.
Non che al Duca interessi portare avanti l'onore e gli sfarzi del proprio casato, ci mancherebbe, e fino a quando ci si limita a saluti cortesi ma distanti, va già piuttosto bene.
Egli è, anzi, quasi in imbarazzo al pensiero che i suoi avi si siano spesso comportati in modo ingiusto e "sapersi figli di questa stessa ingiustizia e vederla descritta, con verissimo inchiostro, in migliaia di carte" non è facile per lui e comunque non lo induce a compiacersi della condotta degli antenati, alcuni dei quali sono stati davvero dei pessimi individui.
I problemi, in quella landa fuori dal tempo in cui la quiete fa da padrone, iniziano quando un uomo del posto (forse l'unico con cui scambia quattro chiacchiere), Nelso Tabiona, bussa alla sua porta per parlargli di un affare urgente.
Nei boschi della Val Fonda qualcuno ha cominciato a tagliare alberi per prendersi la legna, e questi alberi fanno parte della tenuta dei Cimamonte.
Chi è che sta rubando quintali di legname al Duca?
E va bene che lui per primo non ha ancora una precisissima idea di quanto grande sia l'area boschiva di sua proprietà (in effetti non se n'è mai interessato tantissimo, giusto il necessario), ma da qui a chiudere entrambi gli occhi su ben seicento quintali di legna... assolutamente no! È troppo pure per uno tranquillo e pacifico come lui!
Le parole di Nelso - che da una parte lo avverte perché non si faccia fregare, dall'altra gli raccomanda di non litigare, di non fare storie ma di parlare con calma con chi di dovere - risvegliano nel Duca una smania di possesso fino a quel momento sopita: è il sangue focoso dei Cimamonte che prende a
ribollire, pronto a far sentire la propria voce e ad alzarla, se necessario.
"Non si creda che un Cimamonte si lasci abbindolare. Non si supponga che un Cimamonte subisca e taccia."
Il Duca è intenzionato a difendere la propria persona e i propri beni dalla prepotenza, dalla maleducazione, dagli affronti e dalle ruberie di gente che crede di potergli soffiare da sotto il naso ciò che gli appartiene da tempo immemore.
Presto scopre il nome di colui che ha commissionato il disboscamento che ha coinvolto una notevole quantità di alberi dei Cimamonte: Mario Fastrèda.
Questo signore, ormai più che ottantenne, crede di poter comandare su tutta Vallorgàna, di essere il padrone di tutto, di poter tenere sotto scacco la gente - che lo rispetta ossequiosa e al limite della venerazione -, di poter prendere decisioni a nome di tutti i compaesani e si aspetta che nessuno mai lo contrasti.
Bene, ha fatto male i suoi conti: dal momento in cui si è permesso, con la sua sfrontatezza e insolenza, di oltrepassare i confini delle proprie terre per entrare in quelle del Duca, è come se gli avesse dichiarato guerra.
Anche perché, quando il giovane gli fa notare "l'errore", Fastrèda, con la boria e la sicumera che evidentemente gli son proprie, non solo non ammette di aver sbagliato, ma minaccia il Duca di non mettergli i bastoni tra le ruote, di non alzare la voce in alcun modo perché altrimenti gliela farà pagare: se vuole la guerra, guerra avrà. E finalmente questi Cimamonte, che hanno solo portato dolori e sfruttato la povera gente della Montagna, avranno la lezione che si meritano!
Ha inizio così, da parte del Duca, la decisione di non cedere neanche un ramo a quel Fastrèda, di cui non ha certamente paura e che si merita che qualcuno lo metta al posto suo: c'è da chiamare ingegneri e avvocati? Sarà fatto, gli costasse anche una fortuna!
E mentre Nelso scuote il capo amareggiato, disapprovando l'atteggiamento guerrafondaio del Duca, i paesani lo guardano con sempre maggiore diffidenza, mista ad astio, perché questo nobile decaduto si è convinto di essere chissà chi; le cose peggiorano di giorno in giorno e il Duca si trasforma, agli occhi di quella gente semplice, da straniero a vero e proprio nemico, la cui presenza non può che portare sfortuna a Vallorgàna.
"La calunnia è un venticello, una auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente,
Incomincia, incomincia a sussurrar...": cosa c'è di più efficace del seminare calunnie e maldicenze su quel Duca arrogante, distruggendone la rispettabilità e la reputazione?
Questo è ciò che comincia a fare quel furbone di Fastrèda, determinato a mettere il rivale alle strette, affinché si senta sempre meno accettato dalla comunità di Vallorgàna e, magari!, si decida a lasciarla.
Ma anche il Duca è determinato a non farsi schiacciare i piedi e si impunta perché anche un centimetro delle proprie terre venga rispettato e riconosciuto come suo; certo, un po' si sente frastornato all'idea di mettersi contro una delle figure di spicco del paese e mai avrebbe immaginato di incontrare la discordia in un luogo dove la vita dovrebbe scorrere pacifica e silenziosa come un fiume..., ma tant'è.
Quello, dunque, che era parso a lui (e probabilmente appariva ad un occhio esterno) un luogo magico che ha preservato la propria selvatica e genuina bellezza, dove si può apprezzare la natura con i suoi meravigliosi suoni e silenzi, altro non è che un posto come tanti, dove si deve fare i conti con la rabbia, l'invidia, le ostilità, la malafede, la prepotenza.
Ed è così che la quotidianità del Duca, da sonnacchiosa, noiosa e ripetitiva, assume caratteri decisamente più vivaci; a causa delle calunnie del nemico, la discordia si insinua sempre più, infettando e viziando ogni cosa.
"Quando la discordia germoglia, infatti, qualsiasi ordinaria sciocchezza mette in allerta. Si fiutano insidie in ogni parola. Provocazioni in ogni gesto. Doppiezza in ogni sguardo. E affronti. Tranelli. Trappole. Si finisce col vivere, insomma, come uccelli prigionieri dentro a un roccolo."
Prigioniero. Ecco come si vede, giorno dopo giorno, discussione dopo discussione, il Duca: in prigione, non libero.
"Stavo lasciando che il mondo in cui vivevo mi abitasse. Stavo diventando il mondo che vivevo. Non ero piú io che vivevo in quel mondo, ma quel mondo che viveva in me. Il bosco. Nelso. La Chronica. Fastréda. Il confine. I picchetti rossi e i picchetti gialli. Il lupo. Gli sgarri e i controsgarri. La villa. I miei avi. Vallorgàna. Mi dissi perciò che dovevo quanto prima riprendere in considerazione me stesso e non correre a perdifiato dietro a vicende e questioni delle quali non avevo in realtà la minima esperienza."
Come se gli attriti con Fastrèda non fossero sufficienti a innervosirlo e occupargli ogni pensiero, ad essi si aggiunge il legame che nasce, pian piano e inaspettatamente, con una giovane donna dai capelli neri e dall'aria risoluta e battagliera: Maria.
La donna costituisce una tentazione per il Duca e non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse che la ragazza è, nientemeno!, che la nipote di Fastrèda.
Si innesca dunque un rapporto di odi et amo, in cui il Duca cerca in tutti i modi di resistere alle sensazioni che gli suscita la bella Maria, che a sua volta si sente attratta da quell'uomo così singolare e non semplice da capire, in cui risiedono mille contraddizioni e una sorta di affascinante disarmonia che, lungi dall'essere un difetto e una debolezza, si rivela un pregio e una forza.
«Tu vivi (...) come in una bolla, in un luogo e in una condizione che si stenta a credere possano esistere. Vivi mezzo nel passato e mezzo in un presente che con il presente ha pochissimo a che fare.
Cosa ne sarà del Duca, del suo orgoglio e delle mille domande, di quella villa un tempo dimora di nobili e che ora rischia di cadergli addosso rovinosamente, di quel bosco che avanza silenzioso e minaccioso verso le case, delle discussioni con quell'odioso di Fastrèda (con cui ha in comune più di quanto creda), della testarda voglia di aver la meglio su di lui, del rapporto con Maria e di ciò che esso potrebbe diventare, se solo entrambi lo volessero?
"Il Duca" è un romanzo che mi ha catturata dal primo istante, permettendomi di appassionarmi subito alle vicende del protagonista, strettamente legate al contesto in cui è collocato, a questa località di montagna in cui le lancette dell'orologio sembrano muoversi più lentamente che altrove, e in cui il passato, le azioni belle e brutte di chi c'è stato prima ancora riecheggiano ed influenzano il presente di chi - come il Duca - si pone con insistenza quasi morbosa all'ascolto di quelle voci antiche.
Mi è piaciuta l'ambientazione: la montagna e il bosco fitto - con i suoi odori forti e tipici, i suoi rumori e suoni, la sua vegetazione e la sua fauna - e il paese, che da un passato florido e movimentato è giunto ad un presente scarno, statico, fatto di poche case e poca gente.
Ho apprezzato e sono rimasta affascinata dal linguaggio, scorrevolissimo e oltremodo piacevole nel suo essere classico, "d'altri tempi", ricercato, elegante, nonché specifico e dettagliato quando si tratta di spiegare e descrivere i luoghi, gli elementi che caratterizzano i boschi, la vita in montagna, gli attrezzi e le attività tipiche di chi ci vive e ci lavora; una narrazione attenta, curatissima, un uso sapiente delle parole (compresi vocaboli di uso non comune), una scrittura accattivante, colta, che non stanca mai, anzi, rende tutto così reale, immersivo, coinvolgente, capace di far percepire al lettore tutta la tensione vissuta anche dal protagonista, in base a ciò che sta vivendo, conoscendo, scoprendo e provando.
Il Duca è un uomo dalla personalità sfaccettata, complessa, che vive quotidianamente dentro di sé il combattimento tra la ragione e l'istinto.
L'istinto gli suggerisce di non farsi pestare i piedi, di tener testa al rivale, di zittire la bocca di chi lo ritiene uno che con la montagna non ha nulla da spartire, mentre la testa di dice che tutto quel marasma di sentimenti negativi, quel suo attaccamento alla villa, alla storia del proprio casato... a cosa lo condurranno?
Nel corso della narrazione, vediamo il Duca maturare, riflettere, valutare, scavare come un archeologo, prima dentro casa, tra le carte dell'archivio e tra gli oggetti degli avi, tra le loro storie e le loro colpe, e poi dentro se stesso.
Mi è piaciuta molto la sua maturazione, quel suo interrogarsi su cosa lo stia aspettando qualora egli resti ancorato a quella villa e a ciò che essa può rappresentare: un guscio ormai vuoto, freddo, sterile, una prigione nuda in cui seppellirsi e rannicchiarsi in attesa di un domani senza grosse novità o, al contrario, un posto da cui ripartire, ricominciare, ormai liberato dalle invisibili catene di ciò che è stato e non è più.
Il mio parere è assolutamente positivo, è un romanzo che mi ha impressionata favorevolmente, per storia e stile.
Ve lo consiglio!
"Io non penso che tutto quanto ci accada debba essere per forza raro,
speciale o prezioso. Molto spesso, o forse il più delle volte, viviamo le cose
di tutti. Voglio dire che le nostre esperienze, e soprattutto quelle che si
svolgono dentro di noi,
ci sembrano magari inedite, straordinarie, uniche.
Invece non sono che tritume mille volte accaduto e mille volte raccontato."
Adoro le trame in cui passato e presente si fondono. Il "Duca", archeologo di se stesso, è un personaggio che ho amato per il suo cambiamento, per la decisione di liberarsi dal potere dei suoi avi e la scelta di guardare al futuro con occhi nuovi. Ho molto apprezzato la ricchezza della lingua usata, la considero un valore aggiunto così come la bellezza dei luoghi, il paese, la villa, la montagna. Un romanzo assolutamente da leggere :)
RispondiEliminaSono d'accordissimo con te e il tuo parere aveva contribuito a spingermi verso questa lettura :)
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