giovedì 18 gennaio 2018

Recensione: NON CHIEDERE PERCHE' di Franco Di Mare (RC2018)



La vita di un giornalista dedito completamente al lavoro, con un matrimonio naufragato alle spalle e uno spirito costantemente mosso da inquietudini cui non sa dare un nome, viene rivoluzionata dall’incontro inatteso con una bambina bosniaca, sola e abbandonata in un Paese martoriato dal conflitto balcanico degli Anni ’90.



NON CHIEDERE PERCHE'
di Franco Di Mare



Rizzoli
La nostra storia – basata su fatti realmente accaduti – prende il via nel 2009 e il protagonista è Marco De Luca, un giornalista che si ritrova a prendere un volo per Sarajevo in seguito ad una telefonata inaspettata fattagli da un vecchio amico che non vede da moltissimi anni: Ljubo, che gli comunica la prossima inevitabile morte di un loro comune amico, Edin.

Marco ha conosciuto Ljubo ed Edin più di vent’anni prima, nel luglio del 1992, quando arrivò come inviato di guerra per la tv italiana a Sarajevo, in cui imperversa la guerra civile; tante domande popolano la sua mente ora che sta per tornarci, e si rende subito conto, rimettendo piede nella capitale, che tante cose sono ormai cambiate, e le macerie lasciate dalla guerra paiono solo un brutto ricordo che si cerca di tener lontano; quegli anni tragici e contrassegnati da paura, fame, morte… sembrano non trovar posto nella vita della gente di oggi. Eppure nella mente di Marco tutto è ancora vivido e le immagini di ciò che i suoi occhi anno visto e gli stati d’animo provati quando è stato lì la prima volta occupano prepotentemente i suoi pensieri.

Adesso è di nuovo qui, in compagnia del leale e realista Ljubo (che nel ’92 gli fece da traduttore), per dire addio a Edin, un intellettuale colto e arguto, con cui il giornalista ha avuto il piacere di intavolare numerose e vivaci conversazioni su svariati argomenti, in quei giorni in cui Marco soggiornò in città per lavoro; Edin è ormai in fin di vita e Ljubo gli ha proposto di rivederlo e salutarlo per l’ultima volta, prima che chiuda definitivamente gli occhi.
Partendo dal presente, l’autore ci fa fare un salto nel luglio del 1992, e conosciamo così il Marco “prima della guerra”: il giornalista scrupoloso, consacrato alla propria professione tanto da trascurare non poco la moglie, Bianca, che dopo quattro anni di matrimonio, stufa di essere sempre messa da parte da un marito stakanovista, decide di fare i bagagli e lasciarlo con un biglietto.
Marco è amareggiato e si butta ancora di più a capofitto nel lavoro, e quando gli viene proposto di partire per Sarajevo per documentare i drammatici fatti di cui è spettatrice la città, non ci pensa due volte e va, accompagnato dal collega Luciano, di poche parole ma senza dubbio affidabile e professionale.

Nei giorni in cui Sarajevo è assediata dai serbi per le strade si respira odore di morte: il pericolo di essere colpiti da una granata o da un cecchino pronto a spararti addosso senza alcuna pietà è il pane quotidiano per chiunque abbia l’ardire di andarsene in giro, che sia il giornalista in cerca di cose e persone da fotografare o un vecchietto che cerca nell’immondizia qualcosa da mangiare o un bimbo che attraversa la strada.

“Vivere a Sarajevo era un po’ come giocarsi la vita ai dadi ogni giorno. Si poteva morire o restare mutilati per una ragione e per il suo esatto contrario: uscivi e ti uccideva una pallottola; te ne restavi rintanato in casa, al sicuro, e ti crollava il solaio in testa”.

Marco assiste a questa carneficina, davanti alla quale c’è da restare quasi increduli e confusi, come se si facesse fatica a rendersi  conto di ciò che realmente sta accadendo o se non ci si trovi piuttosto in un incubo infernale senza fine.
Ed è in questo inferno che il destino del nostro giornalista si incrocia con quello di una bambina sopravvissuta ad un bombardamento all’orfanotrofio di cui è ospite.
Come non si può non provare angoscia e senso di impotenza nel sapere che un orfanotrofio è stato bombardato, causando la morte di tante anime innocenti?

Quando vede, nella culla, l’unica bambina brunetta in mezzo a tanti biondini, la prende in braccio per mostrarla alla telecamere (per il servizio da mandare in Italia) e intanto si sente impacciato, come se le proprie braccia non fossero “il posto” più sicuro per accogliere quella bambina. Ma poi accade qualcosa di imprevisto, proprio mentre sta per deporla nuovamente nella culla: la piccola allunga il braccio e lo infila dietro il collo, come per abbracciarlo.

Un gesto istintivo, semplice… che mette in crisi Marco, accendendo qualcosa di indefinibile nel suo cuore.

“Voleva rimetterla subito nella culla (…) insieme agli altri bambini, chiudere il servizio e andare via. Quel braccio intorno al collo lo aveva turbato. Provava disagio, un’inquietudine nuova, una sensazione che non conosceva e non sapeva spiegarsi. Si trovava in una situazione inedita per lui, imbarazzante.”

In quel luogo dell’abbandono e del dolore, Marco sente la commozione mozzargli il respiro; cerca di convincersi che non può permettersi questo coinvolgimento emotivo: lui è lì per lavoro, finito il quale lascerà quella terra martoriata e tornerà a Roma, alla sua vita e ai suoi ritmi.
Ma quando lascia la piccola, lei comincia a piangere, di un pianto disperato di chi non ci sta a essere nuovamente abbandonato, e Marco si sente attratto da lei, tanto che il pensiero di staccarsi dalla bimba e lasciarla al suo destino lo fa star male.

Come può voltare le spalle a questa piccolina – di cui viene a sapere che si chiama Malina – che sembra guardarlo con occhi supplicanti e gridargli: “Non abbandonarmi!”?

Marco da quel momento farà di tutto per portarla via con sé e il pensiero costante di Malina lo accompagnerà per il resto del suo soggiorno a Sarajevo, e grazie a lei, alla sua dolcezza, al suo sorriso innocente, lo sguardo professionale e lucido del protagonista assume prospettive diverse, più “empatiche”, come se guardasse la Bosnia con gli occhi di Malina.

“…adesso le parole sofferenza, privazione, bisogno, paura, non erano più soltanto dei vocaboli con cui arricchire i servizi che mandava in onda (…) Adesso quelle parole si gonfiavano di significati e contenuti. Diventavano volti e sguardi. E tutti quei volti e quegli sguardi erano quelli di Malina”.

Il sogno di poterla adottare e strappare da quella terra oppressa da un conflitto che miete tante, troppe vittime si concretizza e rafforza giorno dopo giorno e Marco cercherà di combattere contro le lentezze burocratiche, contro la logica secondo cui nessun Governo o Tribunale affiderebbe mai una bimba di dieci mesi ad un separato attualmente single, e contro le proprie paure e perplessità (“Ce la farò mai a crescere una bambina da solo, io che non ho alcuna dimestichezza con i bimbi? A chi la lascio quando lavoro…?”) pur di raggiungere il proprio scopo.

Malina è la sua bambina, questa è l’unica certezza che il suo cuore sussurra alla sua ragione e, come diceva Blaise Pascal, “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”; neanche lui, in fondo, sa bene perché si sia sentito legato a quella piccola creatura mai vista prima, eppure è così, ed è pronto a inventarsi qualsiasi cosa pur di farla entrare nella propria quotidianità, forse perché sente dentro di sé la convinzione che grazie a lei la sua vita acquisirà un senso.

In queste pagine veniamo catapultati in quel periodo terribile che ha visto Sarajevo messa sotto assedio da parte delle truppe serbe; ero sulla soglia dell’adolescenza e ricordo le drammatiche immagini in tv, l’orrore che ogni conflitto bellico porta inevitabilmente con sé, col suo carico di devastazione, donne stuprate, bambini uccisi, scarsità di cibo ecc...; la penna lucida e misurata di Di Mare ci fa ripercorrere (o conoscere) quel periodo attraverso gli occhi di un giovane uomo che per mestiere riporta ciò che vede ed è abituato a farlo col distacco emotivo necessario.

Ma restare distaccati davanti alle brutture di cui è capace l’essere umano nei confronti dei propri simili non è semplice, e il fatto di rischiare egli stesso la vita quotidianamente lo avvicina al popolo bosniaco, alle privazioni e alle sofferenze che esso deve subire.

È una scrittura onesta e realistica, quella di Franco Di Mare, che riesce a farci immaginare alla perfezione ciò che leggiamo perché chiara, curata ma priva di inutili orpelli e di frasi strappalacrime, il che non significa che non emozioni, anzi, ma lo fa senza “sforzarsi” di essere melodrammatica; del resto,  come l'Autore fa dire al suo protagonista, c’è poco da esagerare per impietosire chi legge, visto che i fatti narrati sono drammatici in se stessi e da soli bastano (o dovrebbero bastare...) a toccare la sensibilità dei lettori.

Bello, a maggior ragione perché si ispira alle vicende personali dell’Autore.


Reading Challenge
obiettivo n. 18.
Un libro che parli di una battaglia personale.

4 commenti:

  1. Ciao Angela, qualche anno fa ho visto il film che racconta la storia di Franco Di Mare, non sapevo avesse pubblicato anche un libro!

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  2. Sì, L'angelo di Sarajevo è tratto da questo libro ;-)

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  3. Bellissima recensione! Nel leggerla mi sono emozionata e commossa: non si può restare indifferenti davanti alla sofferenza degli innocenti. A volte, presi dalle preoccupazioni quotidiane, dimentichiamo che siamo molto fortunati perché apparteniamo alle generazioni che non hanno conosciuto la guerra...

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    1. È vero...
      Vedere immagini o leggere notizie di una guerra che si sta svolgendo altrove fa effetto ma ci porta anche a tirare un involontario sospiro di sollievo al pensiero che è, appunto, altrove... Possiamo solo provare ad immaginare le sofferenze di chi invece la vive/l'ha vissuta.
      Ciao erielle :)

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz

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