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venerdì 2 settembre 2011

L'identità sessuale: da cosa dipende? Il caso David Reimer


Proprio ieri ho scritto un articolo sul caso di quel bambino americano, Jackie, che a soli 10 anni si sente sicuro della propria identità sessuale, diversa da quella che la natura (o, per chi è credente - ed io lo sono - Dio) gli ha donato: il bambino sa di essere sessualmente maschietto... ma si sente e vuol vivere come una femminuccia...!
Beh, questa storia mi ha fatto immediatamente pensare ad un'altra - molto drammatica  - che mi colpì moltissimo quando la lessi, anni fa, sulla rivista "Psicologia contemporanea".
La teoria secondo la quale la sessualità - e la conseguente identità sessuale - di ogni individuo sia un effetto della società, delle proprie norme e dei ruoli socialmente costituiti, non è affatto recente: un certo dottor John Money, famoso chirurgo di Baltimora, propugnava proprio la tesi secondo la quale l'identità di genere non dipende dagli organi sessuali, bensì dal tipo di educazione ricevuta: vieni cresciuta con bambole trucchi? Sarai una femminuccia!
Vieni tirato su con macchinine e soldatini? Sarai un maschietto! 
E questo a prescindere da come sei fisicamente!

lunedì 8 agosto 2011

Vasco Rossi: scrivo canzoni grazie a psicofarmaci e "male di vivere"

Lo dico da subito: non sono una fan dii Vasco Rossi..., non faccio parte della schiera di suoi adoratori...
Ciò non toglie che io conosca molti suoi pezzi, quantomeno i più famosi, i più cantati anche da chi, come me, non è "fissata" per lui (la mia fissa va verso un altro cantautore...).

Detto questo, aggiungo che non ho amato nè condiviso le sue parole nell'ultima intervista - di cui uno spezzone, probabilmente il passaggio più significativo, è stato fatto vedere molte volte in tv, nei TG - e con le quali Vasco parla del suo malessere psicologico.

A me spiace sentire di tutte quelle persone che soffrono per malesseri di qualsiasi tipo e causa (fisico, psicologico, morale...) e sono solidale per quanto mi è possibile e consentito...
Di conseguenza, mi spiace anche per Vasco e per il fatto che da molti anni conviva forzatamente con psicofarmaci e che da essi debba necessariamente trovare la "forza" per andare avanti.

MA non ho condiviso - ma forse di questo, non gli si può neanche fare una vera e propria "colpa" - che egli abbia definito il proprio "problema" psicologico: "male di vivere"..., evitando, anzi contestando, la parola "depressione".

domenica 24 luglio 2011

GESÚ E LA SUA CAPACITÁ DI RELAZIONARSI CON GLI ALTRI





Tutti noi, seppure in modo diverso, abbiamo avuto modo nella nostra vita di avere relazioni con persone che vivono condizioni di disagio (psico-fisico, sociale etc…) più o meno gravi: personalmente, mi hanno spesso portato a riflettere sul modo meraviglioso che il Signore Gesù aveva di rapportarsi al prossimo, soprattutto ai “sofferenti”.
Gesù ha dimostrato di possedere delle grandi doti comunicative; Egli era (e lo è tuttora, si intende!!) dotato di un’eccezionale sensibilità e capacità di entrare in sintonia con l’altro, condividendone i dolori e offrendogli aiuto e consolazione
Egli metteva in gioco tutto Se stesso e sapeva comunicare non solo con le parole (Egli insegnava, domandava per stimolare la conversazione, esortava, rimproverava…), ma anche con gli sguardi (Mt 9:36; 14:14; Mr 10:21), i silenzi, il contatto corporeo (Mt 10:34; Mr 1:40,41)!! 
Nei Vangeli, vediamo che Gesù non è mai seccato quando qualcuno Gli si avvicina per chiederGli aiuto, anzi è pronto ad andare prima ancora che gli venga esplicitamente chiesto: “…un centurione venne da Lui,… dicendo: «Signore, il mio servo giace in casa paralitico e soffre moltissimo». Gesù gli disse: «Io verrò e lo guarirò»” (Mt 8:5-7).                              Gesù non si rifiuta mai di andare verso l’altro, ma si avvicina e cammina insieme, dedica del tempo, come accade nel brano di Luca 24:13-35; al v.15 leggiamo “Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro”, cioè con i due discepoli sulla via di Emmaus; Egli domanda, ascolta in silenzio e con pazienza la risposta dei due tristi discepoli e li istruisce, li esorta a riflettere, ad aprire gli occhi del proprio cuore per credere alla promesse della Parola di Dio.

RANCORE: UN'EMOZIONE CHE SI ANNIDA IN NOI

Quanto spesso ci sarà capitato (e ci capiterà ancora, molto probabilmente) di star lì a pensare a una determinata situazione o persona che genera in noi, nella nostra mente, una serie di risentimenti, e che ci spinge e pensare e ripensare sempre allo stesso fatto, senza trovarne, il più delle volte, alcuna via d’uscita per sentirci meglio, più sereni?
Tra i tanti e complessi stati emotivi che caratterizzano l’essere umano, uno dei “meno
simpatici e positivi” è il rancore.
E’ interessante notare l’etimologia di questa parola: dal latino rancere, che si riferisce ad un cibo andato a male, che ha quell’odore sgradevole e quel sapore acidulo che tutti conosciamo.
Questo livello di significato inevitabilmente ci porta a riflettere sui connotati del rancore
stesso: un sentimento che si annida in noi, nel nostro cuore e nella nostra mente e che,
a lungo andare, se non viene eliminato, “puzza”, crea ancora più amarezza, tormento,
sofferenza, acredine.

giovedì 7 luglio 2011

Quando la punizione non è educativa: insegnante condannata

Correggere e disciplinare i bambini e i ragazzi quando assumono comportamenti scorretti e non rispettosi delle regole sociali e del prossimo costituisce certamente un delle finalità della relazione tra educatore/insegnante ed alunno.
Ma anche nel momento in cui un insegnante applica un provvedimento educativo e disciplinare deve farlo tenendo sempre presente i principi del rispetto della persona, della sua dignità e personalità.
E' ciò che non ha fatto, però, una docente di una scuola media palermitana verso uno dei propri alunni nell'attimo in cui ha deciso di "somministrare" una determinata punizione per aver sentito il ragazzino insultare un compagno di classe, chiamandolo "gay".
L'insegnante - una professoressa di Lettere di 60 anni, attualmente in pensione - , pur avendo ella stessa una buona opinione del ragazzino 11enne come allievo, ha ritenuto opportuno dargli una severa punizione per quello che ha ritenuto essere un episodio di "bullismo".
Ora, se è vero che gli atti di bullismo vanno fermati tempestivamente, è anche vero che anzitutto non è questo il caso di un ragazzino dal comportamento "da bullo", e poi non è infliggendo una punizione umiliante davanti all'intera classe che il ragazzino impara cos'è il rispetto per l'altro.

In cosa consisteva quindi la punizione?
La prof di Italiano ordinò all'alunno di scrivere per 100 volte sul proprio quaderno la frase:"Sono un deficiente"; il ragazzo, una volta a casa, avrebbe dovuto far leggere "il compito di punizione" datogli dall'insegnante ai genitori e farlo firmare da loro stessi.
Ma questi ultimi non hanno per nulla approvato la disciplina applicata dalla professoressa, anche perché da allora il figlio era stato colto da paure, incubi e le conseguenze psicologiche si sono fatte sentire, con tanto di conferme da parte degli psicologi che hanno parlato con lo studente.
Da lì è partita la denuncia da parte del padre e i giudici che hanno esaminato il caso gli hanno dato ragione, così la Corte d'Appello ha motivato la condanna dell'insegnante a un mese di reclusione per "abuso dei mezzi di disciplina" e per aver inflitto una punizione umiliante, non certo in linea con i principi basilari della pedagogia.
Ogni punizione inflitta da un educatore - e con questa parola mi riferisco tanto ai genitori, quanto ad insegnanti e a tutte quelle figure che si occupano di educazione e formazione delle personalità delle nuove generazioni - deve avere sempre lo scopo di aiutare l'educando a crescere, a maturare valori importanti, rendendolo consapevole delle proprie azioni e di come esse, inevitabilmente, abbiano delle conseguenze, ma è fondamentale che la punizione stessa non sia vista, da chi la riceve, come ingiusta o sproporzionata e, soprattutto, non dovrebbe mai avere effetti deleteri sulla personalità e sull'autostima individuale.

mercoledì 8 giugno 2011

Pet Therapy: il cane "educatore"

 Un famoso detto popolare recita: "il cane è il miglior amico dell'uomo!".
Beh, a quanto pare, il cane non è solo un amico, ma è anche un terapeuta o un insegnante, a seconda dei contesti!
Esso, infatti, è l'animale privilegiato nelle pet therapy, per la sua propensione alla collaborazione e alla abnegazione; frequente è il suo impiego come co-terapeuta nella cura di bambini, adulti e anziani.

Facciamo un breve accenno alla pet therapy.
Con questo termine ci si riferisce a una serie complessa di utilizzi del rapporto uomo-animale per scopi terapeutici, in campo medico e psicologico.

Nei bambini con particolari problemi, negli anziani e  in alcune categorie di malati e di disabili fisici e psichici il contatto con un animale può aiutare a soddisfare certi bisogni (affetto, sicurezza, relazioni interpersonali) e recuperare alcune abilità che queste persone possono aver perduto. 
Infatti, il contatto con un animale è particolarmente adatto a favorire i contatti inter-personali offrendo spunti di conversazione, di ilarità e di gioco, creando le occasioni di interagire con gli altri per mezzo suo.
Le attività di Pet Therapy sono caratterizzate da una grande eterogeneità, sia per quanto riguarda il percorso formativo degli operatori, sia per la tipologia degli utenti e le metodologie adottate.
Alcuni “esperimenti hanno dimostrato che la presenza di un animale, in particolare il cane, ha fatto sì che, in molti casi a scuola, diminuissero gli episodi di bullismo, anche del 40%!

L'animale può fungere da 'catalizzatore' dell'attenzione dei ragazzi, entrando in contatto con loro e aiutando a controllare il proprio comportamento. Per esempio, i bambini per non spaventare il cane tengono sotto controllo la loro voce e i loro gesti. Ed evitano atteggiamenti troppo “vivaci”.

Ovviamente, proprio come si richiede ad un insegnate umano, anche l'insegnante a quattro zampe” deve avere delle qualità:  essere un buon cane da pet therapy­, mostrando pacatezza, curiosita', desiderio di stare con le persone e un saldo temperamento. E non è semplice arrivare ad avere un perfetto 'maestro' per la classe di piccoli bulli; è richiesto infatti un periodo di preparazione di almeno un anno perché non deve trattarsi di un cucciolo, bensì un cane adulto.

Quando la memoria fa gli scherzetti: il deja vù





A quanti di noi è capitato di trovarsi in un luogo, davanti ad una persona o di vivere un'esperienza per la prima volta ma di fermarsi poi, di colpo, stupiti esclamando: "Ma io questa cosa l'ho già vista/fatta!"...?

Ebbene, questo strano ma frequente fenomeno ha un nome: dèjà vu, che letteralmente significa proprio "già visto".
E' uno "scherzo" della nostra memoria che ha sempre colpito e affascinato l'uomo, sin dall'antichità; pensiamo ai filosofi Pitagora, Aristotele, Sant'Agostino...
Non solo, ma ne hanno preso spunto artisti, letterati e anche cinematografi per dar vita poi a opere e film di fantascienza (cito solo di passaggio, un noto film, abbastanza recente, con Denzel Washington, "Dèjà vu - corsa contro il tempo").

Da sempre oggetto di ricerche, a questo fenomeno vengono attribuite molteplici cause.
Esso interessa persone adulte, indipendentemente dal sesso, dalla condizione psicofisica ed è sempre accompagnata dalla duplice sensazione di provare sì una sensazione familiare ma al contempo con la consapevolezza di non aver realmente già vissuto quella determinata situazione.

Secondo alcuni studiosi, quando rievochiamo un evento, si attiva il cosiddetto "senso di familiarità" dell'evento stesso; ma si può verificare a livello cerebrale, che si attivi il senso di familiarità in assenza del ricordo: così abbiamo l'impressione di aver vissuto in passato quella data situazione ( teoria del processamento duale).

Secondo altri ricercatori, la familiarità deriverebbe dal fatto che una metà dell'encefalo ha già percepito l'evento, che perciò verrebbe rivissuto dall'altra porzione del cervello (teoria mnestica).

Ancora, secondo la teoria della doppia elaborazione, se elaboriamo alcune informazioni di un determinato evento in modo inconsapevole o con un livello ridotto di attenzione, in un secondo momento gli stessi dati verrebbero processati consapevolmente dandoci la sensazione di essere di fronte ad una "scena già vista".

Anche se è un fenomeno che può sopraggiungere in qualsiasi momento, ne sono maggiormente soggetti le persone che vivono momenti di stress; può durare dei secondi in soggetti normali ma anche ore o giorni in soggetti con disturbi di tipo psichiatrico o neurologico.

Di certo, è qualcosa che ci "turba" ma ci incuriosisce e affascina allo stesso tempo, forse anche perché non si è ancora in grado di dare un'univoca spiegazione scientifica, il che rende tutto "misterioso".

martedì 7 giugno 2011

COME AVERE UN FIGLIO .. DELINQUENTE!

Essere genitori non è affatto semplice, non per nulla è chiamato "il mestiere più difficile del mondo".


E' facile fare discorsi sull'educazione dei figli, provare a dar consigli quando si tratta dei figli degli altri .. ma nel momento in cui ci si ritrova a dover allevare, educare i propri figli, tutte le conoscenze in materia pedagogica, psicologica ecc.... vengono in aiuto fino ad un certo punto, dopodichè.. ci vorrà tanta pazienza ed esperienza...
E, ahimè, i risultati - neanche con tutto l'impegno di questo mondo - sono garantiti al 100%, visto che - alla fin fine - ognuno è e resta "artefice del proprio destino"...


Ed ecco che - tra le tante cose che si trovano "in giro" e che danno consigli ed avvertimenti su cosa fare o non fare - ho trovato questo "singolare" decalogo (anche se non ci sono 10 regole, bensì 12...!), stilata dalla Polizia del Texas...!



  1.  Date al bambino sin da piccolo tutto cio' che desidera. Cosi' crescerà convinto che il mondo gli sia debitore di tutto il necessario per vivere.
  2.  Sorridete, divertiti, quando ripete le parolacce imparate. Così si convincera' di essere molto spiritoso e aumenterà la dose.
  3.  Non dategli alcuna educazione spirituale e religiosa, almeno finchè non sia grande e possa decidere da se. Con la stessa logica, non si dovrebbe insegnargli l'italiano: da grande preferirà parlare bantù.
  4. Lodarlo in presenza di amici e conoscenti, così si convincerà di essere il più intelligente tra i suoi coetanei.
  5.  Evitare l'uso del termine "MALE" potrebbe sviluppare nel bambino un "complesso di colpa". Così da grande quando sarà giustamente punito per le sue colpe, crederà che la società è contro di lui e che lo perseguita
  6. Raccogliere tutto ciò che lascia in disordine: scarpe, libri, vestiti. Fare per lui ogni cosa in modo da abituarlo a scaricare sugli altri tutti i propri pesi.
  7. Lasciargli leggere, vedere, pensare tutto ciò che desidera. Dargli tazze dorate senza preoccuparsi.
  8. Litigare spesso in sua presenza. Così farà anch'egli nella sua futura famiglia.
  9. Dargli tutto il denaro che desidera
  10. Soddisfare sempre ogni suo capriccio.
  11. Difenderlo sempe di fronte ai maestri, vicini, poliziotti... dicendo che tutti hanno dei pregiudizi contro di lui.
  12. Quando poi da grande il bambino si comporterà male veramente, vi difenderete dicendo : "Con lui non siamo mai riusciti a ottenere nulla".
FATE COSì... E AVRETE SICURAMENTE MOLTI PROBLEMI!!!

giovedì 2 giugno 2011

Parlare con i bambini piccoli

Ai bambini piace che gli adulti parlino loro e questo anche da quando sono neonati.
Bisogna togliersi dalla testa l'idea che i bambini piccoli non capiscano niente, perchè invece essi hanno delle capacità linguistiche e comunicative che vanno valorizzate; partire dal presupposto che non serva utilizzare un linguaggio corretto, con frasi di senso compiuto, coi bimbi piccoli, porterà i grandi a usare sempre il cosiddetto "bambinese", quel linguaggio infantile che va bene con i neonati, ma che dovrà essere abbandonato quando il piccolo comincerà a dire le prime parole.

Comunicare col piccolo è fondamentale non solo per "abituarlo" al linguaggio che anche egli adotterà, ma anche per comunicare affetto, amore, fiducia, sicurezza, capacità di soddisfare i suoi bisogni, di "dare voce" ai suoi pensieri - esprimendo a parole i sentimenti che il bimbo sta provando, ad es., quando comincia a piangere perchè ha fame o perché non sta bene -, di raccontargli ciò che sta accadendo attorno a lui.

Per aiutarlo a familiarizzare con le parole, è utile parlargli ripetendole anche più volte in una stessa frase e pronunciarle nel modo corretto, non ripetendo il modo "infantile" del bambino di dire le paroline che sta imparando.
Man mano che il piccolo crescerà, mamma, papà e gli altri adulti attorno a lui, lo aiuteranno ad allargare il suo vocabolario, incoraggiandolo quando riesce a dire le prime semplici frasi.

giovedì 26 maggio 2011

Sindrome della bambola rotta: avere un figlio disabile

Desiderare un figlio e scoprire di aspettarlo...: forse è uno dei momenti più emozionanti e felici per una mamma ed un papà!
Durante i mesi di gravidanza, i genitori pensano a quel bambino che nascerà, fantasticano su di lui; si fanno tante domande, con un misto di "elettrizzante" curiosità e di preoccupazione allo stesso tempo: sarà sano?, sarò in grado di accudirlo al meglio?..., ed altre mille domande che fanno posto nella mente dei futuri genitori.

Ma non sempre le cose vanno come si desidera, come si spera...: succede che nasca un bambino affetto da qualche disabilità.
Quali sono le reazioni dei genitori?
E' chiaro, in questi casi, che tutta la felicità di aver avuto un figlio viene per forza di cose a scontrarsi la realtà della malattia; è un colpo duro per la coppia, che deve rielaborarela nuova ed inaspettata situazione e imparare ad accettare un figlio "diverso" da come lo si era immaginato e desiderato: la "bambola ideale" che aveva popolato per mesi la mente dei genitori diventa una "bambola rotta", non più bella e sana; questa non è di certo una realtà facile da accettare, non subito almeno!

Il supporto delle persone attorno, compreso il personale specializzato (dottori, infermieri e psicologi), è fondamentale soprattutto nelle prime fasi, perché i genitori vanno sostenuti ed aiutati a vedere il loro piccolo come una creatura ancora più speciale, fragile, che avrà bisogno di cure amorevoli e di attenzioni particolari.
Molto probabilmente, la consapevolezza proprio di avere a che fare con un bimbo che - a motivo della propria disabilità - avrà maggiormente bisogno di cure speciali, spaventerà mamma e papà, spiazzati da questa "emergenza" non prevista, quindi è importante che vengano aiutati su come accudire al meglio il piccolo, andando incontro alle sue esigenze "speciali".

Capiterà, nel corso del tempo, di passare da momenti di rifiuto, di stanchezza...., a momenti di accettazione serena da parte dei genitori; ciò che conta è che mamma e papà imparino a capire e sentire che il loro piccolo, anche se disabile, non è una "bambola rotta", che non funziona, ma forse è una "bambola più delicata", più fragile, che avrà bisogno di una dose di amore ancora maggiore affinché, crescendo, il piccolo non si senta rifiutato, ma possa essere accolto in un ambiente famigliare che lo aiuta a sviluppare le proprie potenzialità nascoste, la propria autostima, in modo da aiutarlo a vivere nel pieno rispetto della propria dignità.

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