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L'isola delle anime, un romanzo di
Johanna Holmström ambientato a
Själö, in un manicomio per donne ritenute incurabili, un luogo di reclusione dal quale in poche se ne andavano, dopo esservi entrate.
Cosa spinse la scrittrice a concentrarsi su un tema delicatissimo quale la follia, e a farlo da una prospettiva unicamente femminile?
Uno dei motivi che l'hanno spinta è stato constatare come molti dei suoi lettori tendessero a vedere nei suoi personaggi femminili immaginari delle patologie di tipo psichiatrico, indicando queste donne come borderline, depresse o psicotiche.
Johanna aveva già scritto di donne in situazioni di crisi di vario tipo, ma qualcosa la indusse a chiedersi con quali occhi stesse guardando alla salute e alla malattia mentale.
All'epoca non sapeva nulla di Själö, ma intuì di aver appena trovato il soggetto per un nuovo libro.
Nel romanzo il lettore incontra un certo numero di donne e la domanda sorge spontanea: avendo raccolto dati e fatti basandosi sulla tesi di Jutta Ahlbeck-Rehn "Diagnosi e disciplina: discorso medico e follia femminile all'ospedale di Själö 1889- 1944" (a cui lei stessa fa riferimento nella postfazione), quanto e cosa di questo materiale Johanna Holmström ha inserito nel proprio libro?
La Holmström ha dichiarato che i personaggi del romanzo sono frutto di un mix di diverse storie di pazienti.
Quando lesse per la prima volta la tesi di Juttas Ahlbeck-Rehn, immaginò di avere davanti a sé le donne di cui la sociologa raccontava le vicende personali all'interno della struttura ospedaliera; si trattava allora "solo" di sceglierle e farle prendere vita, anche se ovviamente le storie specifiche di ciascun personaggio di per sé sono inventate e anche i loro nomi non sono quelli reali (documentati negli archivi), visto che sarebbe stato poco rispettoso menzionare le donne realmente esistite.
Così decise di creare le proprie storie di vita, plausibili e basate su eventi reali e sulle persone rimaste a Själö.
Prima di iniziare a lavorare al progetto del libro, aveva un'immagine piuttosto stereotipata dell'assistenza sanitaria: nella sua immaginazione, il tipo di infermiera che lavorava in un manicomio, somigliava alla inquietante Miss Ratched (personaggio che compare nel romanzo "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e attorno al quale ruota la serie
RATCHED), fredda e poco sensibile verso i poveri malati. Ma questi pensieri sono cambiati durante il processo di scrittura.
La scrittrice si è presa del tempo per fare ricerche negli archivi di Turku, guidata dal prezioso studio di Ahlbeck-Rehn; ha studiato le storie dei grandi ospedali psichiatrici in Finlandia, ha letto Foucault, Freud, Lacan, consultato i giornali degli anni ’30 e vari materiali.
L'ospedale di Själö è stato chiuso definitivamente nel 1962, in quanto ritenuto troppo lontano rispetto alla terraferma. Paradossale, se si pensa che si scelse quest'isoletta proprio per il fatto che fosse remota, distante, così da lasciare i ricoverati al loro destino...
Själö o Nagu Själö (in svedese) o Seili (in finlandese) è una piccola isola al largo della costa sud-occidentale della Finlandia; fa parte del comune di Pargas.
Il nome Själö si riferisce, etimologicamente, al fatto che l'isola sia stata dimora di foche.
L'isola è nota per la sua chiesa e la sua natura, per ospitare un istituto di ricerca e, certamente, per l'ex ospedale; quest'ultimo viene menzionato per la prima volta nel 1689, sebbene i pazienti si trovassero sull'isola già da molto prima.
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ospedale visto dall'alto (Wikipedia)
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Infatti nel 1619 fu costruito il lebbrosario per ordine del re svedese Gustavo II Adolfo, che scelse Själö per la sua posizione remota.
Quando, nel 1700, la lebbra iniziò a scomparire dalla Finlandia, sull'isola principale fu costruito un manicomio; più precisamente, nel 1785 l'ospedale da lebbrosario fu convertito in una struttura per malati di mente.
Nel 1889 tutti gli uomini furono trasferiti da Själö e il nosocomio divenne esclusivamente dedicato alle pazienti di sesso femminile. Alcune di loro erano molto giovani; una aveva solo 9 anni.
Il numero di pazienti a Själö variava tra 30 e 50; all'interno, l'edificio era diviso da un lungo corridoio fiancheggiato da stanze (ciascuna accoglieva una sola persona) di 1,87 x 2,07 metri.
Il personale si assicurava che i pazienti fossero tenuti in isolamento e non era molto attenta a che le "celle" fossero curate per bene.
Ad essere ricoverati erano persone ritenute incurabili e i "pazzi", che restavano là praticamente fino alla morte e le loro proprietà passavano alla chiesa.
I soggiorni delle donne a Själö, dunque, erano spesso molto lunghi, quando non terminavano con la loro morte.
I "metodi di trattamento" dell'ospedale di Själö erano la terapia occupazionale, la camicia di forza, l'isolamento in una cella "calmante" con figure geometriche marroni; non mancò l'utilizzo anche di bagni bollenti o ghiacciati.
Durante i periodi di guerra, le donne non ricevevano molto cibo e spesso si ammalavano; attorno a loro solo sporcizia, fame e miseria.
Dopo la chiusura del manicomio (1962), gli edifici furono rilevati dall'Università di Turku e l'istituto di ricerca concentrò i propri studi sugli ecosistemi del Mare dell'Arcipelago e sull'intera area del Mar Baltico.
Come dicevo più su, la ricercatrice Jutta Ahlbeck-Rehn ha studiato cosa è successo alle donne di Själö e in che modo l'appartenenza a determinate classi sociali influenzasse il loro destino; anche lo stesso genere sessuale contava: le donne, infatti, erano classificate come malate molto più degli uomini.
Dei quasi 200 pazienti presenti nei dati di Ahlbeck-Rehn, 52 non avevano una diagnosi psichiatrica precisa.
Pochi furono coloro che lasciarono l'istituto; ci sono state donne che hanno fatto ritorno a casa solo dopo essere state sterilizzate...
Le donne povere delle classi sociali inferiori o le donne sessualmente "disinibite" (o ritenute tali) erano le tipologie più frequenti di pazienti.
Negli anni '30 del secolo scorso, criminali appartenenti alla classe inferiore furono mandati all'ospedale psichiatrico di Själö. Secondo la teoria dell'igiene razziale, c'era la convinzione che il sottoproletariato fosse biologicamente incline a malattie, follia e ubriachezza.
In pratica, la follia era un fenomeno sociale, non soltanto un fatto medico.
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