martedì 31 maggio 2022

LE MIE LETTURE DI MAGGIO 2022

 

Buongiorno, cari lettori!

E anche maggio, soleggiato e caldo,  se ne sta andando ed io sono qui a riepilogare le mie letture del mese.





  1. DIVORZIO DI VELLUTO di .J Karšaiová: anche le separazioni apparentemente meno traumatiche e brusche si portano dietro strascichi, ferite, perdita di radici, ma anche il desiderio di reinventarsi (3,5/5)
  2. NOVA di F. Bacà: anche se fai il neurochirurgo e lavori con i cervelli altrui, non è detto che tu riesca a prevedere quando nella mente di chi ti circonda cominciano a depositarsi i pericolosi semi della violenza incontrollabile. Nè prevedi che questa spirale coinvolga anche te, che sei sempre stato razionale e pacifista (4.5/5).
  3. CINQUE QUARTI D'ARANCIA di J. Harris: una bambina di soli nove anni può commettere dei guai dalle conseguenze terribili, per testardaggine ed ingenuità, mentre attorno a lei il mondo è afflitto dalla guerra (4/5).
  4. RANDAGI di M. Amerighi: romanzo di formazione, in cui tre amici vivono raminghi e liberi alla ricerca del proprio posto nel mondo (3.5/5).
  5. LA CASA DEGLI SGUARDI di D. Mencarelli: romanzo autobiografico commovente, intenso, ricco di umanità. Confrontarsi con la malattia e la morte di creature innocenti offre una preziosa chiave di lettura per i propri problemi r occhi nuovi con cui guardare dentro se stessi e al futuro (5/5).
  6. IL DIRITTO DI OPPORSI di B. Stevenson: la storia di un avvocato giovane ma tenace, che ha dedicato la propria vita a combattere le ingiustizie presenti nel sistema giudiziario americano (4/5).
  7. NIENTE DI VERO di V. Raimo: romanzo di formazione autobiografico. Ridi che ti passa, e se non passa, facciamo che sia così, sennò sì che si arriva al paradosso! (4.5/5).
  8. La mia favola da Le mille e una notte di I. Carioti: una storia d'amore dei nostri giorni ma inserita in un'esotica cornice da Le mille e una notte (3.5/5).
  9. LA SORELLA PERDUTA di K. Furnivall: narrativa storica. Parigi, secondo conflitto mondiale. Una coraggiosa ragazza è intenzionata a scoprire la verità sull'assassinio del padre - di cui lei è sempre stata accusata -, sfidando bugie, segreti, depistaggi (4,5/5).


LE LETTURE PIÙ BELLE DI MAGGIO.

 Ho avuto letture interessanti, grazie anche al tour Strega; volendo scegliere, tra i preferiti pongo NIENTE DI VERO di Veronica Raimo, per il suo parlare di disastri famigliari con ironia;  NOVA per avermi tenuta incollata alla storia e affascinata con un linguaggio raffinato e intrigante; LA CASA DEGLI SGUARDI: Mencarelli, entri nel cuore ogni volta.

CITAZIONE DEL MESE

"...là fuori non c'è niente di meglio 
Per colui che decide di non cercarlo, non può esserci nulla.
È ora di proseguire, anche se non si sa per dove.
Non aver paura di diventare una persona diversa; ama il tuo passato ma poi... va oltre!"

domenica 29 maggio 2022

** RECENSIONE ** NIENTE DI VERO di Veronica Raimo



Veronica Raimo (Verika per sua madre, Oca per suo padre) si racconta tra le pagine di questo romanzo candidato al Premio Strega 2022 e lo fa con schiettezza e dissacrante ironia, donando al lettore aneddoti esilaranti e divertenti sulla propria famiglia e su sé stessa, impegnata nell'universale compito di crescere e diventare adulta, e poiché è impossibile scrollarsi di dosso il bagaglio di ferite, incertezze, dubbi, fallimenti, smarrimenti che ognuno si porta dietro, tanto vale parlarne senza perdere il gusto di riderci su con acume e autoironia!
Per la serie: ridi che ti passa, e se non passa, facciamo che sia così, sennò si arriva al paradosso! 


NIENTE DI VERO 
di Veronica Raimo



Ed. Einaudi
176 pp

Occhi strizzatissimi e fronte corrugata nello sforzo di ricordare (o di fare qualcos'altro?): l'Autrice, in questo romanzo autobiografico, viaggia sui binari della memoria e alza il velo sulla propria storia, sulla propria famiglia, facendocene conoscere manie, abitudini, stranezze e ponendoci davanti a certi particolari tratti caratteriali o episodi che - a prescindere dal fatto che siano accaduti davvero o in parte o per nulla - fanno sorridere, e non poco.

Fa sorridere questa madre super apprensiva, che comincia ad andare in crisi se i figli non rispondono immediatamente ai suoi messaggi o chiamate, non limitandosi a tartassare loro, ma anche eventuali fidanzati o amici, pur di tranquillizzarsi una volta appreso che non è successo loro nulla di tragico.
Una madre che elogia il figlio maschio, l'enfant prodige di casa, mentre della figlia femmina si limita a un semplice "È brava a disegnare" (cosa che, tra l'altro, non corrisponde a realtà); una donna che spesso "se ne va in depressione" - in particolare quando discute col marito - e si chiude in casa ascoltando Radio 3.
In quei giorni in cui l'emicrania teneva a letto la donna, e fratello e sorella dovevano farsi andar bene il silenzio e la semioscurità delle tapparelle abbassate, la casa diventava "una palude di vaporosa angoscia".

Stare in casa ed evitare di incappare in brutta gente o fare cattive esperienze è stata una costante per Veronica e il fratello Christian, cui non era consentito andare, ad es., a giocare fuori in cortile con altri bambini, o semplicemente andare in bicicletta:

"Abbiamo passato l’infanzia chiusi dentro casa a romperci le palle. Era un’attività talmente intensa che presto divenne una posa esistenziale. Sapevamo annoiarci come nessun altro."

Mica solo la madre aveva le sue ubbie esagerate: pure il padre non scherzava.
Ha sempre avuto la mania di dividere le stanze costruendo muri, di sottoporre i figli a rituali di disinfezione attraverso infiniti rotoli di scottex ed alcool, di spaventare i compagni dei figli urlando loro in faccia e di commentare ogni situazione per lui incomprensibile o assurda sempre con la stessa frase: "Siamo arrivati al paradosso".

L'Autrice ci racconta dei primi approcci con l'altro sesso, della prima fuga da casa per raggiungere il ragazzo di cui era infatuata, dei rapporti con i parenti pugliesi di un paesino triste nel foggiano, del perfido sarcasmo della nonna Muccia circa le tettine di Veronica (altro che coppa di champagne: la tazzina del caffè era il metro di misura del seno piatto di quella nipotina esile e inappetente), le mani del nonno che, in un moto di solidarietà, stringevano quelle della nipote mentre questa si sforzava di "fare al bagno" - aneddoto che nel tempo, diventando un ricordo d'infanzia, assume una sorta di valore simbolico:

"Non ho mai più avuto una persona che mi stringesse le mani mentre pativo sulla tazza del cesso. Chiederlo non è facile. Mi sono restate solo la solitudine e l’inadeguatezza. Ogni volta che vado incontro a quell’afflizione, comincio a rileggere tutta la mia vita in questi termini: un conflitto costante tra abbandonare qualcosa e cercare di riprenderlo. La maledizione perpetua della terra di mezzo."

Ci parla del soggiorno a Berlino, di perdite, di scelte non facili ma prese con la consapevolezza di essere una donna libera che ha il diritto di decidere del proprio corpo, a prescindere da cosa dice l'orologio biologico, da cosa sogna sua madre per lei (la donna avrebbe voluti tanti figli - ma s'è dovuta accontentare di due - e ha ripiegato sulla figlia, sperando le desse dei nipoti) e dai giudizi non richiesti di un ginecologo che non sa farsi i fatti propri.

Come dicevo, si legge questo libro avendo il sorriso sulle labbra ed è quello che è successo a me, che mi sono lasciata trascinare dalla penna della Raimo, dal suo modo intelligente e disilluso di presentare questa famiglia "allegramente difettosa", di cui confessa le bizzarrie in modo comico ma non per questo superficiale, tutt'altro: scrivere è un modo per curare le ferite ridendo, perché dopotutto la vita è un po' commedia e un po' tragedia (più la prima che la seconda, si spera).

"«Una storia è un concetto ambiguo». 
Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti."

Durante la lettura le pagine scorrevano veloci, merito tanto dell'argomento in sé, così personale - la famiglia con i suoi disastri e quella sua unicità che ti porti dietro ovunque vai e per tutta la vita, il "diventare grandi", con tutto il suo carico di incertezza, dubbi, fallimenti, smarrimenti - quanto dello stile di scrittura, che mi è piaciuto molto perché pungente e brillante, buffo ma non frivolo, disincantato ma non spietato né distaccato; la scrittrice esprime molto bene quel senso di inadeguatezza e "indeterminatezza costante" che la caratterizza e che sembra accompagnarla da sempre, dovuta alla sensazione che gli altri facciano fatica a conoscerla davvero, a riconoscerla. 
Forse scrivere può servire a questo: a riconoscersi, a ritrovarsi o, perché no?, a reinventarsi.

"...è cosí che mi sento in ogni istante della mia vita: ma sí, dài, facciamo che sono io."

Sono rimasta colpita molto positivamente dalla prosa della Raimo, vorrei leggere altro di suo e intanto non mi resta che consigliarvelo. Tra gli otto candidati Strega che sono riuscita a leggere, questo rientra fra i tre che preferisco.


❤★❤★❤★❤★❤★❤★

Di seguito vi riporto alcune citazioni;  l'ultima ve la trascrivo perché quando ho letto quel passaggio sono scoppiata a ridere e ho pensato: "Dai, ma allora non sono l'unica matta che nel letto, nella smania nervosa di non riuscire a prendere sonno, si muove come se stesse andando in bicicletta o se volesse prendere a calci qualcuno (facendo sussultare il povero marito)!"


"Ogni esperienza per me ha bisogno di una precisa spiegazione linguistica o empirica, di un sussidiario illustrato con tanto di esempi, altrimenti mi sfugge il fatto che la stia vivendo."


"Nella mia vita non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Nemmeno mezzo vuoto. Lo vedo sempre sul punto di rovesciarsi. Oppure non lo vedo proprio. Non c’è nessun bicchiere. Non c’è niente. Sono di fronte a un tavolino brutto e sopra il nulla. Potrebbe sparire anche il tavolino. Anzi, è già sparito. Non mi resta l’assenza, ma la perplessità."


"Possono toglierci tutto tranne i nostri ricordi, si dice. Ma chi mai sarebbe interessato a questa espropriazione? La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo."


"Quando non riesco a dormire, continuo a rigirarmi nel letto seguendo una mia personale coreografia. Credendo di non essere vista, do libero sfogo a tutti i tic che ho cercato di tenere a bada durante il giorno. Poi puntualmente arriva l’eco dell’esasperazione. «Ti prego, Vero, la smetti di picchiettare il tallone sul materasso?»"

venerdì 27 maggio 2022

[[ CINEMA ]] BELFAST di Kenneth Branagh || THE HOUSE



Ultimamente ho guardato un paio di film che mi sono piaciuti.

Il primo è la storia di un ragazzino nato e cresciuto in una Belfast tanto bella quanto pericolosa, attraversata, alla fine degli anni '60, da scontri e tumulti politico-religiosi.

BELFAST


Film diretto da Kenneth Branagh, ha sullo sfondo il conflitto nordirlandese, che ebbe inizio nel 1968 e
che si protrasse per ben trent'anni.

Il protagonista è il giovanissimo Buddy (Jude Hill), un bambino di 9 anni che vive a Belfast, appunto, con i genitori (Jamie Dornan e Caitriona Balfe - la mia adoratissima Claire Beauchamp di Outlander!- ) e i suoi nonni, un'anziana coppia bella arzilla. 

La sua famiglia è di fede protestante e lì nel quartiere in cui abita la vita procede tranquilla, come se tutti facessero parte di una grande famiglia in cui ci si conosce, ci si aiuta, insomma si respira un'atmosfera di appartenenza ad una collettività.

Buddy è un tipo allegro, curioso, intelligente, e trascorre le giornate nei pressi di un cinema o di fronte la TV a guardare film e programmi americani; a scuola è molto bravo e sta cercando di conquistare una compagnetta di cui si è invaghito.

Sono gli anni '60 e la placida vita a Belfast subisce improvvisamente un colpo molto duro: si comincia a respirare un'aria satura di malcontento generale, che vede schierarsi cattolici contro protestanti. 

Iniziano rivolte e attacchi, tutti ne sono spaventati e si sentono minacciati; la bella e famigliare Belfast diventa teatro di conflitti che porteranno inevitabilmente ai tumulti della guerra civile.

L'infanzia di Buddy smette di essere spensierata; egli vede gli adulti attorno a sé seriamente preoccupati: i genitori litigano spesso, suo padre va e viene perché lavora in Inghilterra, la madre - una donna determinata, con un carattere forte e deciso - cerca con fatica di proteggere la famiglia ed è certa di una cosa: qualunque cosa accada, Belfast è la loro casa, solo tra quelle strade e in quel quartiere in cui i loro figli sono nati, essi sono a casa.
A casa, sì, ma non al sicuro.
Restare in questa città tormentata da scontri quotidiani, in cui si commettono crimini e violenze e soprusi, è davvero la scelta più saggia da fare? E lo è in particolare per i figli, che hanno diritto di crescere tranquilli e non certo in un posto in cui i negozi vengono incendiati, o saccheggiati e poi distrutti, e chi ha una fede diversa deve avere paura di uscir di casa se non vuol essere aggredito?

I genitori di Buddy dovranno prendere una decisione importante, anche se questo vorrà dire lasciare qualcuno indietro...

È un film molto bello, emozionante, e l'attore protagonista è davvero bravo nel trasmettere tutta l'innocente spensieratezza della sua età, quel guardare il mondo con gli occhi stupiti di chi vede questi adulti attorno a sè che si fanno la guerra perché non accettano di avere come vicino di casa uno che prega Dio in modo differente.

Ispirato alla storia personale del regista, "Belfast" è sensibile, delicato, poetico, malinconico, va dritto al cuore e a questo contribuiscono le musiche bellissime e suggestive e la fotografia in bianco e nero.
Bello bello, lo consiglio!!

❤♣❤♣❤♣❤♣❤♣❤♣

L'altra pellicola è un film d'animazione molto particolare e che ruota attorno al tema della casa e di quanto ad essa si possa essere così attaccati da divenirne schiavi, con conseguenze poco piacevoli.


THE HOUSE


Il film è in pratica un'antologia composta da tre storie slegate tra loro per protagonisti, contesto, periodo di ambientazione, ma aventi un unico filo conduttore: l'attaccamento morboso alla casa in cui vivono.

Nella prima (diretta da Emma De Swaef e Marc James Roels) i protagonisti vivono alla fine del XIX secolo e sono molto poveri: si tratta del signor Raymond, sua moglie e le loro figliolette, tra cui la piccola Mabel.
Un giorno la famiglia riceve la visita di alcuni ricchi parenti che non risparmiano umilianti critiche; amareggiato, il padre di Mabel esce nel bosco a ubriacarsi ma a un certo punto viene avvicinato da un misterioso individuo che, al pari di un benefattore, si offre di costruire una casa per la famiglia gratuitamente.

E così, la famiglia si trasferisce in questa casa immensa mentre la loro vecchia casina viene demolita e i lavori nella nuova sembrano procedere-

Ma l'abitazione da subito si rivela strana, misteriosa, inquietante: al suo interno, infatti, si manifestano fenomeni sinistri e da pelle d'oca, che però solo Mabel riesce a notare!

Il soggiorno in questa dimora grande, con tante stanze buie, diventa per Mabel un'esperienza spaventosa, che la vede impegnata a prendersi cura della sorellina (la vediamo, infatti, sempre con lei in braccio) e a cercare di capire se i suoi genitori si stiano accorgendo delle cose strane che accadono tra quelle mura: voci, risate, presenze inafferrabili..., e come se non bastasse, ad aver mutato atteggiamento e a essere diventati molto strani, sono proprio mamma e papà, che si estraniano e si allontanano dalle loro bambine, smettendo di prendersene cura.

Cosa nasconde quella casa? È davvero quel luogo sicuro e confortevole in cui una povera famiglia potrebbe essere felice?

Questo episodio è il più dark di tutti, una fiaba nera ("alla Tim Burton"), claustrofobica, in cui -
,
benché non 
avvengano effettivamente avvenimenti classificabili come horror - la tensione narrativa viaggia costantemente sul filo della paura, si percepisce che nella casa c'è qualcosa di oscuro e che terrorizza proprio perché non è definibile né visibile.  
Ad aggiungere questa cupa sensazione di minaccia, oltre alla casa in sé (io non sono un'esperta dell'orrore, ma mi pare pacifico che solitamente le case infestate da oscure presenze siano molto ricorrenti in questo genere di film), ci pensano gli stessi personaggi: dei "pupazzi" dalle fattezze non proprio attraenti, ma anzi... un tantino inquietanti, ideali per creare incubi ai bambini.


La seconda storia è ambientata ai giorni nostri ed è diretta da Niki Lindroth von Bahr: il protagonista è un ratto (una sorta di programmatore sempre attaccato allo smartphone, a prendere appuntamenti e a far chiamate ad una presunta amante), che decide di rinnovare la propria casa grande e fatiscente (il problema principale sta nella presenza di un esercito di odiosi coleotteri, che sbucano ovunque) per rivenderla in tempi brevi, ma il progetto sarà meno semplice di quel che immagina.
Molti ospiti (tutti animali come lui) inaspettati cambieranno il suo modo di vedere le cose; verranno sì a vedere l'immobile ma trovare un acquirente serio si rivelerà un'impresa complicata, in particolare quando dentro casa si infilerà una coppia di toponi grossi, goffi e ridicoli che, con naturalezza e prepotenza insieme, prenderanno dimora nella casa senza che il padrone - sgomento - riesca a cacciarli.
Insomma, il povero ratto - che ha già i suoi problemi - dovrà affrontarne altri sgradevoli a causa di questi inquilini indesiderati...

Nel terzo e ultimo atto, diretto da Paloma Baeza, siamo nel futuro. 
Anche qui abbiamo la proprietaria di una casa, circondata dall'acqua perché le inondazioni sono diventate sempre più frequenti; si chiama Rosa ed è una gatta gentile ma anche testarda, fissata con l'idea di restaurare l'edificio e poterci vivere lì per sempre.
Con lei vivono il pescatore Elias e la mistica Jen, e ben presto si aggiunge Cosmos, una specie di guru; con grande delusione di Rosa, Elias lascia la casa partendo su una barca; anche gli altri due sono intenzionati ad andarsene, ed esortano Rosa a non restarsene lì da sola, in quella casa che è praticamente impossibile da sistemare, ma a partire con loro alla ricerca di qualcosa di meglio.
Ma la padrona non riesce ad aprirsi al cambiamento ed è disposta - sebbene ne soffra - a veder partire gli amici pur di non abbandonare quel posto.

"...là fuori non c'è niente di meglio 
Per colui che decide di non cercarlo, non può esserci nulla.
È ora di proseguire, anche se non si sa per dove.
Non aver paura di diventare una persona diversa; ama il tuo passato ma poi... va oltre!"

Riuscirà a far sue le incoraggianti e sagge parole di Jen e ad andare verso una nuova vita, in un altro posto?

I tre racconti sono quindi collocati nel passato, nel presente e in un futuro distopico e hanno a che fare con il concetto di casa, come luogo da abitare fisicamente ma anche come un bene che permette a chi lo possiede di vivere meglio (a almeno è ciò che crede e spera); c'è la casa vista nel suo valore economico ma che trasuda solitudine e che basta poco perché diventi una topaia; e infine la casa come rifugio affettivo, un luogo noto e rassicurante che non si vuole abbandonare neanche quando i presupposti per viverci bene vengono meno.

Mi è piaciuto questo film d'animazione, in particolare il primo per le atmosfere cupe, gotiche e intriganti, e il terzo perché c'è una sottile vena d'ottimismo verso la fine.
In questi tre racconti incontriamo tanti difetti e debolezze umane (anche se in realtà, in due storie su tre, i personaggi non sono esseri umani, ma gatti e topi antropomorfi, che fanno il verso all'uomo, vestendo come lui e manifestando i suoi stessi vizi, stranezze, paure, desideri...): l'avidità, la brama di possedere beni materiali e l'attaccamento ad essi, la solitudine, la difficoltà di aprirsi al cambiamento; è un film allegorico, surreale, che ha il suo messaggio e risulta senza dubbio intrigante e piacevole da guardare
Consigliato!!

martedì 24 maggio 2022

RECENSIONE: ✔ DIVORZIO DI VELLUTO di Jana Karšaiová ✔



In Divorzio di velluto leggiamo una storia che non è solo quella personale - contrassegnata da ferite, delusioni, perdite, separazioni, litigi, tentativi di rinascere... - della protagonista, Katarìna, ma è anche la storia di uno strappo culturale, linguistico, politico, che - per quanto sia stato definito "di velluto", quindi non violento o "traumatico" - inevitabilmente si è riversato nelle vite dei singoli, influenzandole nel bene e nel male.

DIVORZIO DI VELLUTO
di Jana Karšaiová


Ed. Feltrinelli
160 pp
Era il 1992 quando la Cecoslovacchia si "dissolveva" per dar vita a due nuovi Paesi: la Slovacchia e la Repubblica ceca.

La giovane Katarìna è nata nel 1978 "in una Cecoslovacchia comunista appena matura che dopo quindici anni sarebbe morta per vedere sorgere dalle proprie ceneri due stati nuovi, una fenice moderna, gemella ma non troppo, un matrimonio il cui apice sarebbe stato il divorzio, battezzato anche quello di velluto. Come la rivoluzione dell’89, la Rivoluzione Gentile la chiamavano gli slovacchi, di Velluto, ribattevano i cechi."

Adesso che è una donna adulta e indipendente, torna a Bratislava (da Praga) in occasione delle festività natalizie, ma se ne pente immediatamente.

Come al solito, l'atmosfera in casa è greve, soffocante, resa tale dal rapporto conflittuale tra i suoi genitori - dalle personalità molto diverse - e da quello di Katarina stessa con la madre.

Infatti, se con suo padre ha sempre avuto un rapporto sereno, nonostante la debolezza caratteriale dell'uomo, che col tempo ha deciso di ripiegare nel demone dell'alcolismo le proprie delusioni ed amarezze, è con la madre che è difficile comunicare e interagire.

La donna è un tipo forte, rigido, poco affettuoso e anzi è sempre pronta a criticare le scelte e le condotte dei figli, in special modo di Katarìna (di cui, ad es., non ha mai approvato il matrimonio) e di Dora (più grande di Katka; hanno anche un fratello, Jojo), la figlia che se n'è andata di casa, trasferendosi negli Stati Uniti, non facendo più ritorno e non dando scarse notizie di sé; con lei, Katarìna è rimasta in contatto tramite email.

Ad aggiungere malumori nei giorni di festa è la notizia che Katarìna, con ostentata indifferenza, dà circa il proprio rapporto con Eugen: dice, infatti, che il marito se n'è andato di casa.

Si sono lasciati, dunque?

Katka non si sbilancia granché ma il lettore ne segue il filo dei ricordi e apprende in che modo i due si sono innamorati, la passione che li ha travolti, la decisione - forse troppo affrettata - di sposarsi in quattro e quattr'otto, e poi le tante difficoltà di integrarsi a Praga e, soprattutto, un episodio doloroso che ha creato uno strappo nel matrimonio, mandandolo in crisi.

Un dolore su cui Katarìna stende una coltre spessa di silenzio, soffrendone e chiudendosi in se stessa.

Andando avanti nella narrazione, quella che inizialmente può sembrare una voce narrante/protagonista fredda e chiusa dal punto di vista emozionale ed empatico, si rivela, piuttosto, come una giovane donna che è cresciuta in un contesto famigliare in cui i problemi e i dissidi venivano affrontati a suon di urla ed insulti da parte della madre, e a questo modo di fare ella ha imparato ad opporre silenzi impenetrabili ed atteggiamenti di chiusura per fronteggiare il vuoto attorno a sé:

"Sentiva un peso che le premeva sul petto. Lei non viveva i dolori in quel modo, li seppelliva, non sapeva come fare altrimenti."

"Il buio che si portava dentro era solo buio, sotto scorreva la vita, per tutti, anche per lei."

Oppressa e irritata dai musi della madre e dai suoi rimbrotti, la ragazza finisce per trascorrere il capodanno con l’amica Viera (con cui ha condiviso gli anni del liceo e la passione per l’Italia) a Bologna, dove questa si è trasferita grazie a una borsa di studio.
Le due amiche hanno modo di riavvicinarsi e di raccontarsi esperienze e ferite, e mentre  Katarína le parla di Eugen e del suo abbandono di due mesi prima con un biglietto sul tavolo della cucina, l'altra le racconta della liaison con Barbara, che era stata la loro insegnante di italiano.

Subito dopo Katarìna ed Eugen si rivedono in una circostanza molto triste. 

Questo incontro inaspettato ricucirà il loro rapporto in crisi o ne decreterà la fine in modo definitivo?

Il matrimonio (e la conseguente separazione) della slovacca Katarina con il ceco Eugen è un po' una raffigurazione (in piccolo) del rapporto tra due paesi e quindi tra due culture, due popoli, due lingue.

Jana Karšaiová intreccia le vicende della protagonista Katarìna con quelle del paese in cui è nata, la Slovacchia, e attraverso la voce asciutta e il racconto essenziale della protagonista, racconta com’è stato crescere sotto l’oppressione del regime comunista, la censura, subire la divisione del proprio paese, l’abolizione delle festività cattoliche, le code per la carne e per qualsiasi cosa; un elemento importante è l'amore per l’italiano, il cui studio diventa un modo per conquistare uno spazio personale, tutto per sé, dove potersi reinventare fuori da ogni condizionamento, ricrearsi attraverso l'uso di una lingua nuova.

"Divorzio di velluto" è un romanzo che affronta il tema della perdita delle proprie radici e della necessità di ricostruire sé stessi quando il mondo a cui si era abituati va praticamente in frantumi e ne viene fuori una realtà nuova (e vecchia insieme).

Quella di Katarìna è una storia di assenze e silenzi che pesano, di tradimenti, di desideri che si ha timore anche solo a pronunciare, di squarci che, per essere ricuciti, richiedono nuove risorse e la volontà di rinascere come un'araba fenice, superando la sensazione di sradicamento e di vivere come orfani di un passato chiuso per sempre.

Un romanzo che mi ha colpita positivamente per la scrittura profonda, che va dritta al punto senza risultare distaccata emotivamente; l'ascolto, poi, è stato oltremodo piacevole, considerato che a leggere il libro è la stessa autrice, Jana Karšaiová.

Un esordio letterario che merita attenzione.



sabato 21 maggio 2022

RECENSIONE: ✔ NOVA di Fabio Bacà ✔


Davide è un uomo abituato ad avere, nei confronti della vita, un approccio razionale, un occhio scientifico che cerca una spiegazione sensata a tutto. Fino a quando nelle sue giornate tranquille - cadenzate essenzialmente dal lavoro in ospedale e dalle relazioni famigliari - irrompono elementi imprevedibili, che lo mettono di fronte agli istinti più pericolosi e ingestibili che risiedono nella psiche di ogni uomo. Compreso se stesso.


NOVA
di Fabio Bacà



Ed. Adelphi
279 pp

"Questa è la sostanza di cui siamo fatti: sangue, furore e detriti di sogni al confine tra sonno e veglia. Dominare la violenza o esserne dominati."

Davide Ricci, appena sveglio, pensa alla morte.

È la prima informazione che il lettore apprende sul protagonista, un giovane uomo che lavora come neurochirurgo all'ospedale (siamo a Lucca), sposato con la bella Barbara - logopedista e super vegana - e padre del quattordicenne Tommaso.
Non è un tipo pessimista né ha particolari problemi, fatta eccezione per il rapporto poco sereno con il suo diretto superiore (il primario, dottor Martinelli) e con un vicino di casa, tale Massimo Lenci, che cova astio nei suoi confronti in quanto poco tempo prima Davide è riuscito a far chiudere il locale di cui l'uomo era proprietario perché durante la notte creava un gran baccano.

Per il resto, la vita di Davide procede fin troppo tranquilla, fino a quando non cominciano a verificarsi dei piccoli episodi che lo mettono in crisi.

Uno di questi  ha a che fare sempre col vicino arrabbiato e risentito, Lenci: un giorno, questi ferma Davide e gli parla..., gli parla con un tono apparentemente calmo ma il dottore "vede" nei suoi occhi, negli atteggiamenti, nel tono di voce, che l'altro vuol mandargli un messaggio ben preciso, presumibilmente per spaventarlo, altrimenti perché fargli sapere che in passato è arrivato a fare a botte con uno sconosciuto, a beccarsi una bottigliata in testa e a reagire in modo violento, tanto da beccarsi una denuncia?
Davide ascolta Lenci mentre gli fa questi discorsi strani e leggermente minacciosi, e resta sbigottito, un po' impaurito e soprattutto immobile, paralizzato. Non sa come reagire.

Questa reazione di immobilità non è isolata.
Una sera raggiunge moglie e figlio al ristorante, dove essi già sono lì ad attenderlo, e si ritrova davanti ad una scena bizzarra, incomprensibile, davanti alla quale egli resta paralizzato: un uomo che non conosce si è avvicinato al tavolo di Barbara e Tommaso e ha messo una mano sul braccio della donna, con fare prepotente. 
Chi è e cosa vuole da lei? Barbara lo conosce? 
Mentre mille domande gli affollano la mente, la situazione precipita: un altro individuo - anch'egli uno sconosciuto - interviene per "salvare" Barbara dalle avances insistenti e sgradevoli dell'altro, e lo fa con molta decisione, minacciando il "molestatore" con un coltello e intimandogli con fermezza di comportarsi bene.
Tutto questo sotto gli occhi scioccati di Barbara e Tommaso; quest'ultimo, poi, incrocia per qualche secondo lo sguardo del padre, che non interviene in soccorso di moglie e figlio ma lascia che le cose si "risolvano da sé".

Questi episodi cominciano a innescare una serie di domande, pensieri, dubbi su sé stesso: Davide Ricci, il neurochirurgo che salva vite umane e "cura i cervelli", è forse un vigliacco?
Sì, certo, lui odia ogni forma di violenza e mai gli verrebbe in mente di risolvere una qualsivoglia questione con le botte, ma addirittura restare impassibili e fermi davanti a un tizio che dà fastidio alla tua consorte è troppo pure per un pacifista come lui!

E Davide sarà pure uno che esita ad agire, ma a pensare e ripensare è bravissimo, per cui comincia a viaggiare con i ricordi e la mente gli porta a galla altri momenti del passato in cui, davanti a gesti - anche velati e non proprio espliciti - di prepotenza e/o aggressività, lui ha reagito con mollezza, come se volesse nascondersi o scappare, tutto pur di non affrontare a viso aperto il prepotente di turno.

Cosa indicano di lui episodi come questi? Che è un vile, un fifone senza attributi?

Quando vede suo figlio fare amicizia con il figlio di Massimo Lenci, vorrebbe poter intervenire perché quel ragazzo strano di nome Giovanni - che pare abbia trascorso gli ultimi quattro anni lontano dal padre, in Australia - lasci in pace suo figlio, ma in realtà non fa nulla.

La svolta arriva attraverso un uomo di nome Diego, il quale altri non è che il ragazzo che aveva aiutato Barbara e Tommaso al ristorante.
Diego e Davide diventano amici e il primo dà al secondo altri occhi con cui guardare dentro sé stesso: non più quelli pacati e razionali del medico che si accosta al cervello come ad una macchina perfetta e che egli ha imparato a conoscere tramite la propria carriera accademica e professionale.
Ciò che Diego fa, essenzialmente, è spingere Davide a porsi delle domande importanti su quei meccanismi del cervello più oscuri, latenti, da cui derivano impulsi che da sempre si preferisce soffocare perché ritenuti anticonvenzionali, non conformi alle norme del vivere civile.

Diego, a sua volta, gli parla con molta franchezza di sé, della propria infanzia, dei lutti subiti, delle esperienze fatte e di ciò che è adesso, del percorso che ha fatto per arrivare alle consapevolezze odierne e che lo rendono, agli occhi ammirati di Davide, una sorta di maestro, di mentore.

"La società moderna reprime gli istinti che non comprende o che non le fanno comodo. Inibisce l’aggressività individuale perché ritiene che confligga con l’idea di civiltà. "

"...la violenza è un potere ambiguo, che ha bisogno di essere controllato: se non lo domini, dominerà te. E non puoi controllare qualcosa che neghi a priori. Non puoi gestire una parte di te che rifiuti persino di concepire. Per convivere con il Potere devi nutrirlo e addomesticarlo."

«Fidati di me, dottore. Impara a cavalcare il tuo Potere, o te ne pentirai. Impara a domarlo, e ti porterà più lontano di quanto immagini».

Diego acquisisce una sicurezza di sé che non aveva mai posseduto e questo lo porta a cambiare negli atteggiamenti e nei discorsi, tanto che pure Barbara se ne accorge e non vede di buon occhio l'amicizia con quel Diego, che lei trova enigmatico, inquietante e con una cattiva influenza sul marito.

Ma le nuove certezze del dottor Ricci sull'uso della violenza, sulla necessità di riconoscere i propri istinti più meschini e aggressivi, dovranno fare i conti con l'imprevedibilità che si cela dietro le vite e i cervelli altrui.
Lui, un medico che ha fatto della conoscenza del cervello il perno della propria vita, si scontrerà in modo drammatico e oltremodo impetuoso con le conseguenze di una carica di violenza ingestibile, feroce, frutto di problematiche mentali molto serie e dagli effetti dolorosi.

In poco tempo l'esistenza di Davide Ricci viene letteralmente sconvolta da gesti intrisi di follia umana, dalla paura che ai propri cari possa esser fatto del male, ma a stravolgerlo dentro ed irreversibilmente sarà la contezza di come anch'egli - benché sia e abbia sempre vissuto come una persona gentile, perbene, dal carattere docile - custodisca in sé stesso i germi dell'aggressività e della violenza.
Non solo, ma realizza che, per quanto la violenza sia ripugnante, inconcepibile, vile, disumana, essa sia al contempo inevitabile, efficace, capace di farlo sentire vivo e dunque "profondamente, indissolubilmente umana."

Che bella scoperta questo libro di Bacà, davvero sorprendente, per trama, registro linguistico, psicologia dei personaggi!
Ho trovato la scrittura molto matura, estremamente affascinante, in particolare perché si avvale di un linguaggio elaborato, ricco, specifico (appartenente all'ambito medico per lo più), chirurgicoraffinato che però ha il grandissimo pregio di risultare molto scorrevole e piacevole, mai pesante né tantomeno artificioso; la lettura fila fluida e accattivante dal primo rigo, l'Autore sa creare la giusta tensione emotiva nei momenti clou, affronta un tema interessante e attuale qual è quello della violenza, sia legata ad es. ai problemi di tipo psichiatrico, sia in quanto conseguenza di istinti presenti nella natura umana, e che non tutte le persone imparano a gestire nel medesimo modo e/o nel modo giusto.

Insomma, io ho amato questo libro, che per quanto mi riguarda - ad oggi - è tra quelli che preferisco tra i candidati allo Strega letti (ahimè, non tutti), insieme a "E poi saremo salvi".

Assolutamente consigliato!!

giovedì 19 maggio 2022

RECENSIONE: ** CINQUE QUARTI D'ARANCIA di Joanne Harris **



Per l'ultra sessantenne Framboise Dartigen prendere in mano e leggere il vecchio album/diario di sua madre è come fare un salto nel passato, andando indietro di molti anni, a quando aveva solo nove anni e l'innocenza dell'infanzia si è frantumata in mille dolorosi pezzi davanti alla brutalità di un periodo storico drammatico che ha sconvolto le vite di tante persone.


CINQUE QUARTI D'ARANCIA 
di Joanne Harris

Ed. Garzanti
trad. L.Grandi
405 pp
Ci sono segreti che vanno custoditi per sempre. 
Perché pensare ad essi crea dolore, vergogna, sensi di colpa, rimorsi.
Perché ormai ne è passata di acqua sotto i ponti e rivangare il passato non solo non può cambiare ciò che è stato, ma oltretutto impedisce di vivere al meglio il presente.

Ma a volte è inevitabile ripensare ai giorni andati e, anzi, capita che se anche non lo volessi fare, c'è qualcun altro che ti costringe a farlo. 

Così succede a Framboise Dartigen, vedova da vent'anni, con due figlie ormai adulte, che è tornata nel paesino in cui è nata, e ha trascorso parte dell'infanzia, per aprire una crêperie.
Nessuno sa che è lì in incognito, con un altro nome, un'altra identità.
Beh, quasi nessuno: lo sa suo fratello Cassis - che va anche a trovarla -, il di lui figlio, Yannick, e quella strega della nuora, Laure, che si fa viva per interessi egoistici.
Ma Framboise sa come rispondere per le rime a tutti. Del resto, chi la conosce lo sa: ha un bel caratterino, fumantino, determinato, schietto.
Come sua madre, Mirabelle, la proprietaria della fattoria in cui lei è ritornata a vivere e che più di cinquant'anni prima era stata distrutta da un incendio, in seguito ai terribili avvenimenti che si sono susseguiti a grande velocità e che hanno stravolto le esistenze di tante persone.
Di colpevoli ed innocenti.

Framboise riprende il diario della madre e vi trova tante cose: ricette, aneddoti, ricordi e soprattutto si accorge che sua madre scriveva adottando un linguaggio strano, una scrittura crittografata che lei non capisce; le viene in aiuto suo fratello e così tante parole e frasi misteriose vengono decodificate e rese chiare.

Il lettore segue quindi la narrazione della protagonista che dal presente passa al periodo del secondo conflitto mondiale.
Siamo sempre nello stesso paesino sulle rive della Loira, a Les Laveuses, vicino ad Angers; qui vive Framboise con la mamma Mirabelle, il fratello Cassis e la sorella Reine-Claude (Reinette).
Mirabelle ama cucinare e in questo è bravissima; ha una passione per tutti i frutti tranne le arance, che non permette che entrino in casa perché solo il sentirne il profumo le fa venire delle emicranie dolorosissime. 
I nomi dei figli prendono spunto proprio da un frutto o da una ricetta: Cassis, per il suo ricco dolce di ribes nero; Framboise, per il suo liquore di lampone, e Reinette dalle susine regina Claudia che crescevano lungo il muro a sud della casa.
La donna porta avanti la fattoria con grande energia, è abituata a fare da madre e da padre ai propri figli, che ama ma verso i quali ha un grande limite: non è capace di dimostrare amore attraverso  parole o gesti affettuosi.
Non è semplicemente riservata, poco avvezza ad esprimere emozioni e sentimenti: no no, lei è proprio dura e arida come un nocciolo; brusca, sgarbata ed eccessivamente spiccia nei modi, severa e molto rigida nell'educazione dei figli, non fa che dettare ordini e rimproverare, riprendere e borbottare scontenta verso tutto ciò che dicono e fanno i ragazzi.
I quali, seppur malvolentieri, obbediscono; la più ribelle è proprio Framboise, testarda, volitiva, dalla forte personalità, così simile a quella madre nervosa e coriacea, e le due infatti trovano sempre il modo di scontrarsi.
Rispetto ai fratelli, Boise non ha paura della mamma, la sfida con lo sguardo, con parole taglienti e sferzanti e, soprattutto, sfrutta le debolezze dell'adulta. La mamma odia le arance e al solo annusarne la presenza si lamenta per il mal di testa? Bene, vorrà dire che per metterla ko la ragazzina provvederà a nascondere dentro casa un sacchettino con la scorza d'arancia!

È solo una bambina di nove anni ma sa quel che vuole e sa come ottenere il rispetto della sorella - più delicata e tranquilla, tutta concentrata sulle star del cinema, rossetti e sciocchezze del genere - e del fratello, che tende a trattarla come una mocciosa.

Quando gli occupanti nazisti arrivano nel loro villaggio, tante cose cambiano nelle abitudini delle famiglie e anche in casa Dartingen.
In particolare, nelle loro vite arriva un giovane soldato tedesco: Tomas Leibnitz.
Quest'uomo stringe un'amicizia segreta con i tre bambini e li conduce passo dopo passo in un mondo di adulti che, per ragioni egoistiche e interessi personali, non esitano a tradire, dire bugie, ricattare, fare del male.

In quell'estate in cui tutto cambia, Boise e i suoi fratelli dovranno fare i conti con episodi brutali, prendere decisioni difficili di cui non sono totalmente consapevoli, in quanto sono ancora molto, troppo giovani per prevedere le conseguenze di certe azioni importanti e drammatiche.

Gli eventi che si verificheranno porteranno sgomento, dolore e rabbia a Les Laveuses, con strascichi molto tristi, ingiusti, che coinvolgeranno anche persone innocenti, il cui ricordo tormenterà Boise negli anni.
E proprio quegli eventi terribili hanno spinto la donna, ormai matura, a tornare in quel paesino che fu costretta ad abbandonare quand'era una bambina, a riprendere possesso della fattoria materna ma, allo stesso tempo, a farlo sotto falso nome, convinta che nessuno, dopo tanti anni, potrebbe mai ricollegarla ai Dartingen di cinquant'anni prima.
Anche se poi, in realtà, a Les Laveuses qualcuno sa chi lei sia: il suo amico d'infanzia Paul, il buono e lento Paul, balbuziente e, a detta di tutti, poco intelligente.
Ma Paul è meno sciocco di ciò che gli altri - Boise compresa - pensano e saprà dimostrarlo alla sua vecchia amica.

Tra queste pagine si consumano vicende tragiche che si intrecciano ad un’atroce pagina della Storia, creando dinamiche spietate che hanno un impatto sul presente e anche sul futuro.
Si narra del lato più oscuro dell'infanzia, di questi bambini cresciuti da un genitore solo e poco affettuoso, e costretti troppo presto a guardare in faccia la complicata realtà di certi adulti e ad interagire con essi, sviluppando un cinismo e un senso pratico che alla loro età non dovrebbero essere già presenti, perché significa che son cresciuti in fretta. Troppo in fretta.

È un romanzo che narra di tradimenti: quelli di una figlia verso la madre (amata, odiata, così terribilmente simile a sé), quelli consumati all'interno della famiglia e della comunità in cui si vive. Tradimenti che non si limitano a danneggiare chi ne è coinvolto in prima persona, ma che allargano i propri malefici tentacoli anche su altri.

Ed è un romanzo sui tentativi di andare avanti malgrado il passato sia un fardello pesantissimo, e sul tornare a casa, anche là dove la vita ha rivelato il suo volto peggiore.

"Non è mai troppo tardi per tornare a casa. (...) Devi solo smettere di andartene".

Mi piace la presenza importante del cibo e del ricettario della mamma della protagonista: la cucina è forse la sola passione che le unisce e così, al di là degli anni trascorsi, nonostante le parole non dette, le carezze mai date, i silenzi e i musi duri che hanno creato divisioni, diffidenza, mancanza di gesti d'affetto, il cibo riesce a creare un ultimo, agognato collegamento tra mamma e figlia.
Tra questa mamma anaffettiva capace, però, di proteggere i propri figli a rischio della propria vita, e questa figlia che, in fondo, avrebbe solo desiderato ricevere un po' di calore e amore.

Bello, è il mio primissimo approccio all'Autrice di Chocolat e credo non sarà l'ultimo.

mercoledì 18 maggio 2022

✔ IMPARARE LEGGENDO ✔ CONSULTIAMO IL VOCABOLARIO


Leggendo leggendo, mi capita di incepparmi... ops!, scusate, di incappare in vocaboli che, onestamente, non fanno parte del mio vocabolario d'uso quotidiano e di cui non conosco (o forse non ricordo, proprio perché non me ne servo) il significato.

Bene, come vedrete voi stessi, i primi quattro termini - incontrati leggendo RANDAGI di Amerighi - costituiscono un po' un'eccezione in quanto appartengono al dialetto toscano. 

Ora, non essendo toscana, non son tenuta a conoscerli, no?, dunque non si può addebitare nulla alla mia ignoranza 😀


GERBO: (regionale) nell'uso toscano: moina, lezzo, smorfia.

ACCHINARE:  Umiliare, Render umile. (fonte)

SPISCIORATI: zampillare, sgorgare.

SCANGEO: [forse der. di cangiare], pop. tosc. – Disavventura, accidente, disastro.


Con le seguenti paroline, invece, ci siamo incrociati nel libro di Fabio Bacà, Nova.


BROCCARDO: [dal lat. mediev. brocardum]. – Nome con cui vengono indicate le Regole generali di diritto, enunciate dalla scuola dei glossatori di Bologna (sec. 12° e 13°), e considerate da alcuni quali assiomi giuridici, da altri come punto in cui s’incontrano opinioni contrarie e discutibili.

AGNIZIONE: [dal lat. agnitio -onis, der. di agnoscĕre «riconoscere», part. pass. agnĭtus]. – Il riconoscere o il riconoscersi di persone in particolari circostanze; spec., nel teatro classico e d’imitazione classica, il riconoscimento di uno o più personaggi che scoprono la loro identità fin allora sconosciuta, risolvendo così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio.

PANÒPLIA: [dal gr. πανοπλία, comp. di παν- «pan-» e ὅπλον «arma»].
1. Armatura completa, e in partic., presso gli antichi Greci, l’armatura degli opliti.
2. Insieme di armi, generalm. bianche, o di varie parti di un’armatura, disposte come trofeo, per lo più su parete, a scopo decorativo.

SÒSPITE: [dal lat. sospes -pĭtis (f. sospĭta) «sano e salvo; che protegge e salva», di etimo incerto], letter. – Che protegge e salva o tutela.

CHILIASTICO: che si riferisce al chiliasmo, sinonimo di millenarismo → dottrina che predica l’avvento del regno di Cristo in terra, prima del giudizio finale, riservato ai soli giusti e destinato a durare mille anni. 

COPROLALIA (dal greco "sterco" e "chiacchiera"): impulso non controllabile che spinge a parlare in modo volgare, osceno; spesso lo si riscontra in alcune condizioni patologiche, come la Sindrome di Tourette.

lunedì 16 maggio 2022

RECENSIONE: ** RANDAGI di Marco Amerighi **



Riservato, poco socievole e con mille paure addosso, Pietro Benati - figlio, nipote e fratello minore di uomini decisamente più in gamba di lui -, si sente inetto, inadeguato, fuori posto in mezzo alla gente e ovunque.
La tentazione di restarsene da solo e chiuso in casa è forte, eppure anche per uno come lui arriva il momento di lasciarsi alle spalle la tranquillità sonnacchiosa e apatica di casa, per imboccare nuove strade e trovare il proprio posticino nel mondo.


RANDAGI
di Marco Amerighi


Ed. Bollati Boringhieri
400 pp
Sarà vero che sulla nostra famiglia pende una maledizione?, si chiede il giovane Pietro.
Sua madre Tiziana così gli ha sempre detto:

"...tutti i maschi della sua famiglia, prima o poi, tagliavano la corda; solo che lui non riusciva a farsene una ragione. Possibile che nel loro sangue si tramandasse un gene che li obbligava a dileguarsi? E perché una volta tornati a casa (se avevano fortuna), non spiegavano dov’erano stati in quella parentesi di un mese o un anno? Dove avevano dormito? Con chi? Non gli erano mancati i loro cari – non gli era mancato lui?"

Accadde a nonno Furio, il il 25 aprile del 1936, quando combatteva in Etiopia, che però poi a casa ci è tornato comunque.
E, come da maledetta tradizione, a quasi cinquant’anni di distanza dalla prima sparizione, nel febbraio del 1988 succede pure al papà di Pietro, lo scommettitore incallito Berto, che dopo un mese di assenza da casa ritorna con il mignolo destro mozzato (da qui il soprannome, che gli resterà a vita: "il Mutilo").

Ma se né il nonno soldato ed eroe di guerra né quel padre sì scaltro e carismatico ma anche imbroglione ed invischiato in affari truffaldini, possono essere assurti come esempi di vita, ad essere il faro del giovane Benati è il suo fratello maggiore: Tommaso, detto T.

".... E forse era proprio quel qualcosa che negli anni dell’adolescenza si era sfogato su Pietro e l’aveva infiacchito in una postura intimidita e riservata, le mani in tasca e gli occhi bassi, come se andasse per il mondo gravato da chissà quale colpa imperdonabile. L’unica àncora della sua vita era T."

Tommaso è ciò che lui non sarà mai: è perfetto (bello, affascinante, simpatico, intelligente, spiritoso), tutti i talenti possibili ce li ha lui ed eccelle in tutto - lo sport, lo studio, le ragazze.
Però non se la tira ed è un bravo fratello, ed è anche colui che lo sprona costantemente ad uscire dal proprio guscio, a coltivare un interesse, a darsi da fare e a non mettere radici in cameretta giocando ai videogames.

E mentre dalla sua casa a Pisa, affacciata sulla Torre pendente, si chiede se capiterà anche a lui di scomparire nonostante sia un giovanotto privo di qualità, Pietro prova ad inseguire un sogno: ama suonare la chitarra e vorrebbe sfondare nel mondo della musica; per tale ragione, si è affidato ad un manager che, nonostante lo accusi di avere tratti da capra autistica, dice di credere nelle sue capacità di bravo chitarrista e di lavorare per trovargli buoni contratti.
Cosa che, però, non accade e infatti il disincantato Pietro dovrà darsi una mossa;  quando uno scandalo travolge la famiglia (a causa di affari illegali commessi dal Mutilo, che viene arrestato) e Tommaso lascia l'Italia per andare negli States, Pietro si convince che il suo turno sia ormai giunto.

Incoraggiato da T. e grazie all'Erasmus, si trasferisce a Madrid ma, benché ci metta tanto impegno, gli sembra sempre di essere fermo, in un'eterna situazione di stallo, di immobilità.

"...rifiutare l’elaborazione, restare uguali a se stessi, chiudersi a riccio in una bolla incorruttibile. Magari era quello il suo vero talento, lo scopo della sua esistenza. Piantare i piedi."

La sua maledizione non era sparire ma essere nato difettoso ("un difetto sottopelle e invisibile che, invece di aiutarlo a distinguersi, lo avrebbe condannato a una vita di mortificazioni"), come se dentro di lui si nascondesse qualcosa che non girava nel verso giusto.

Una volta fuori dal nido famigliare, lontano da quel padre truffatore e da una madre ansiosa ed apprensiva al limite dell'ipocondria, Pietro prova a dare una direzione alla sua vita, che però sembra proseguire come un incomprensibile avvicendarsi di fallimenti e delusioni. 

Fino a quando nelle sue giornate prive di scossoni irrompono due coetanei che sono caratterialmente il suo opposto: Laurent, un giovane francese più indeciso di lui su tutto e che diventa anche il suo coinquilino, e la complicata e sarcastica Dora, appassionata di film horror, della quale s’innamora. 

La sua vita a Madrid prosegue ma il legame che lo unisce all'adorato fratello resta integro e i due si tengono in contatto tramite email, in cui Tommaso gli racconta le proprie mille (dis)avventure, gli amori, e anche se non mancano i battibecchi a distanza, il rapporto fraterno resterà sempre un porto sicuro.

I due amici di Pietro sono creature randagie, raminghe e confuse come, se non più, di lui: Laurent è un bisessuale che non osa confessarlo ai suoi e che, invece di studiare all'Università (come racconta, mentendo, ai genitori), fa il gigolò, accompagnandosi a signore stagionate e "rallegrando" le nottate con alcol e droghe sintetiche. Però si rivelerà un amico fedele e presente per Pietro, quando questi ne avrà bisogno.

Dal canto suo, Dora è incasinata, imprevedibile, con una vita disordinata, un rapporto conflittuale con la madre, il dolore, mai superato, per quel padre morto suicida quando lei era una bambina, le relazioni sentimentali sbagliate. Ma malgrado sembri una squinternata sempre sull'orlo di un crollo emotivo, Dora osserva con attenzione il giovane Benati e sembra capirlo come forse solo T. è in grado di fare:

"Pietro, il bravo ragazzo che non dice mai nulla di sconveniente... come potresti? Non sei sincero, non ti fidi di nessuno, deleghi agli altri qualunque decisione sulla tua vita. Non c’è niente che ti tenga sveglio a parte le tue paure. Esiste solo quello che devi fare perché è quello che gli altri si aspettano che tu faccia"

...gli dice con schiettezza la ragazza, dandone un ritratto forse poco lusinghiero ma, ahilui, reale.

In compagnia di questi amici strampalati e un po' matti, senza freni e regole cui sottostare, finalmente Pietro si accende e qualcosa in lui comincia a cambiare, ad evolvere.

Dopotutto, proveniva pur sempre da una famiglia molto singolare, abituata a perdere pezzi sotto le mille tempeste della vita: eppure c'era in questi maschi Benati un che di prodigioso, di meravigliosamente ostinato che impediva loro di sgretolarsi e perdersi definitivamente.

I tre amici appartengono ad una generazione di randagi, di spaesati, privati di punti di riferimento, che si fiutano come i cani, si riconoscono e capiscono di non essere soli ma che, anzi, insieme possono unire le forze perché il comune unico punto ferma diventa il loro legame d'amicizia.

A ricordarci come la Storia stessa, nel suo svolgersi, inevitabilmente contribuisca a scombinare le esistenze dei singoli (oltre che delle collettività), ci pensano tre episodi emblematici (il G8 di Genova, gli attentati terroristici a Madrid del 2004 e  la rivoluzione studentesca del 2007/2008, nota come "onda universitaria"), che si inseriscono nella storia personale di Pietro e fanno da spartiacque non solo nella sua vita ma, in generale, in quelle dei ragazzi di quella generazione, con le loro illusioni infrante e la necessità di lottare per delle cause importanti.

A un certo punto, nel suo percorso esistenziale già di per sé sempre in salita, Pietro prenderà una bella botta, che lo butterà giù, inducendolo a pensare che l'unica cosa che gli resti sia gettare la spugna, ancorarsi al suo dolore e scomparire nel mare profondo della solitudine, lasciandosi trascinare dalla corrente.

Il protagonista è un po' l'emblema di tanti ragazzi che, per varie ragioni, si vedono quasi costretti a lasciare il proprio paese e la famiglia, per iniziare un cammino di crescita personale, per poi, non di rado, tornare da dove sono partiti.

"Randagi" è un romanzo di formazione, generazionale, che affronta temi a noi contemporanei e che ha al centro questa gioventù fragile, tradita, delusa, sradicata dal mondo, ma anche coraggiosa e per nulla disposta a dirsi sconfitta.

Nel complesso, fatta eccezione per alcuni passaggi che ho trovato meno coinvolgenti e in cui il mio livello di attenzione è un po' calato, di questo romanzo ho apprezzato la ricchezza, tanto della trama  in sé quanto dei personaggi.
Questi ultimi sono vivaci e particolari, sopra le righe, pieni di fragilità e problemi (il che fa sì che il lettore provi per essi molta simpatia) e agiscono all'interno di una struttura narrativa elaborata, dalle molte sfumature -  drammatica e comica, ironica e surreale - e che ci restituisce tutta la complessità di un'intera generazione.

Un candidato Strega interessante.


sabato 14 maggio 2022

RECENSIONE: ** LA CASA DEGLI SGUARDI di Daniele Mencarelli **



Daniele è un giovane poeta con problemi di dipendenza (da sostanze stupefacenti prima e da alcol poi) e trascina le proprie giornate senza uno scopo, con il pensiero fisso rivolto al bere. Ma un giorno gli viene proposto un lavoro all'interno di una cooperativa che fa pulizie nell'ospedale pediatrico "Bambino Gesù" di Roma.
Sarà per lui un'esperienza intensa, difficile e tormentata per tanti aspetti ma indispensabile per allargare il proprio sguardo verso la vita che, seppur brutale in quelle stanze piene di dolore, malattie e morte, continua a conservare una bellezza che merita di essere colta, accolta, raccolta.
E raccontata.


LA CASA DEGLI SGUARDI
di Daniele Mencarelli



Ed. Mondadori
226 pp
Non è una passeggiata sapere di avere una malattia - "invisibile all'altezza del cuore, o del cervello" - e sentirne tutto il peso, l'oppressione, che nulla e nessuno riesce ad alleviare: non l'amore della famiglia, l'infinita pazienza di genitori affranti e rassegnati, né le tante visite mediche, i farmaci, le etichette appiccicate per tentare di spiegare, definire, con l'illusione o la speranza che dare un nome al male possa essere un primo passo... 
Verso cosa?
Una maggiore consapevolezza di sé da parte del malato?
La guarigione, perché ciò che conosci puoi anche (provare a) curarlo? 

Ma Daniele non si sente malato: "...sono vivo oltre misura, come una bestia più consapevole delle altre".

È vivo ma qualcosa, dentro, lo uccide, lo divora, gli toglie il sonno, la felicità e genera un vuoto che pare essersi risucchiato ogni possibilità di futuro.

E allora scrivi - gli dicono tutti -, butta fuori quello che hai dentro, no? La scrittura aiuta, ti permette di sfogarti, di liberarti!
Così dicono.
E lo dicono a lui, a Daniele, perché sanno quanto sia sensibile il suo animo da poeta.
Eh già, perché Daniele scrive poesie, alcune delle quali sono state pure pubblicate su riviste di letteratura.

Ma la verità è che più scrivi del dolore, più trovi parole per raccontarlo, più esso prende forma. E non è automatico che questo porti a una soluzione, a una guarigione. 
 
"...la poesia lo testimonia il dolore, non lo cura. Le parole... sono tutto, tranne medicina. La poesia non cura, semmai apre, dissutura, scoperchia."

A Daniele sembra che il dolore sia ormai parte integrante delle sue giornate: è nato per soccombere, per sentire su di sé, e raddoppiata d'intensità, ogni singola emozione, ogni amore, ogni paura, ogni sofferenza.
Troppo pesante questo carico per un cuore che pare scoppiargli in petto, e allora non resta che lasciarsi andare, inerme, nella terra della dimenticanza, dove ogni ricordo viene cancellato e con l'oblio (cruccio e benedizione insieme) giunge un po' di sollievo.
Tutte le volte che incrocia gli sguardi tristi e feriti della madre e del padre, addolorati e delusi da questo figlio che dà loro tanti pensieri e preoccupazioni, Daniele si sente in colpa perché sa che è per lui che soffrono: suo padre si fa piccolo piccolo, schiacciato dal peso di un male che non retrocede; la madre è la sentinella coraggiosa, ma anche tanto stanca, che continua a vegliare su quel ragazzo che si sta distruggendo un po' alla volta.

Quando sanno che al figlio è stato offerto un lavoro di pulizie e facchinaggio al Bambino Gesù, i genitori sono preoccupati e poco convinti: lo ha capito, Daniele, che dovrà stare a contatto quotidianamente con tanta sofferenza? E per una persona sensibile e fragile come lui potrebbe essere più deleteria che sana, un'esperienza del genere.

Ma Daniele ci prova e nel marzo del 1999 comincia a lavorare a fianco a colleghi che lo accolgono subito con simpatia, facendolo presto sentire uno di loro; certo, in ogni ambiente lavorativo si può sempre trovare qualcuno meno accogliente, magari un po' invidioso, che cerca di metterti i bastoni tra le ruote, ma nel complesso Daniele, in compagnia di Giovanni, Massimo, Luciano, riesce ad affrontare ogni giornata, ogni fatica, con energia e mettendoci un grande impegno per fare sempre un ottimo lavoro, guadagnandosi, in effetti, la stima dei colleghi.

I problemi e le incomprensioni non mancano, come è naturale che ce ne siano all'interno di tutti i rapporti interpersonali, ma Daniele ci tiene a questo lavoro, nonostante all'inizio sia convinto di non poter reggere i ritmi e tutta quell'atmosfera carica di malattia e morte; però col passare dei giorni, delle settimane, non riesce a staccarsene e dal lunedì al venerdì è un operaio diligente.

Le rogne iniziano in quelle ore di riposo in cui il suo corpo e la sua mente urlano: "Alcol, grazie!".
E allora prova a fare un compromesso con se stesso: per non perdere il lavoro, deve restare pulito durante tutta la settimana e concedersi qualche bevuta nel weekend, calcolando le ore di riposo prima di riattaccare col turno.
Soffocare la vocina che sussurra malefica "Un bicchiere bianco" non è semplice, per cui, secondo lui, relegare l'alcol a qualche giorno è già un passo in avanti.
O no?
Daniele non vede l'ora che arrivi il sabato per poter bere, nonostante i suoi lo guardino con disapprovazione e delusione: neppure adesso che s'è trovato un lavoro può sforzarsi di non mandare tutto all'aria distruggendosi con l'alcol?

E purtroppo, questa dipendenza non può non creargli problemi che si riflettono anche a lavoro, ma nonostante tutto, Daniele resiste, tiene duro, perché là, in quel luogo di tortura e maledizione, in cui sono molti gli sguardi incrociati, una domanda si fa strada nella sua mente: se la sofferenza pare essere l'unica legge che governa il mondo, vale comunque la pena di vivere e provare a costruire qualcosa? 

La fatica fisica di un lavoro bello tosto, la solidarietà e il rapporto cameratesco, di grande complicità e sintonia, che si è instaurato coi colleghi, il venire in contatto ogni giorno con le angosce e i dolori altrui, vederli disegnati sui volti di genitori disperati, di bambini ammalati, di suore amorevoli, faranno sì che
l'esperienza al Bambino Gesù diventi decisiva per Daniele, un'occasione di crescita e di riflessione, malgrado i pianti, lo struggimento e il senso di dolorosa impotenza davanti alle pene di queste piccole creature, la cui sofferenza fisica e psicologica è terribile e lo fa star male.
Eppure la bellezza c'è anche in quei corridoi affollati di vite segnate dalla malattia, dall'orrore, e Daniele pian piano arriva a capire: l'essere umano è splendore ma anche buio, va accolto interamente e per svelare squarci di inaudita bellezza bisogna fronteggiare anche l'orrore, senza chiudere gli occhi.

C'è bisogno di coraggio per rinascere, per decidere di prendere in mano i cocci della propria vita che sta andando in frantumi, e finalmente vivere, senza più avere la vista annebbiata ma guardando in faccia le cose e smettere di fuggire.

E chissà, grazie a questa casa speciale, fatta di occhi e volti che Daniele non dimenticherà più, il poeta che è in lui può ridestarsi e fare della scrittura, della poesia, uno strumento per provare, con umiltà e rispetto, a far conoscere agli altri tutta la bellezza che ha visto lui in quei visi di bambini, nei loro sorrisi, nelle attese, nei saluti.
E la penna aiuterà a fermare ogni sguardo, a tener vivo il ricordo di chi ha bussato nella sua vita e vi è entrato per restarci per sempre.

"La casa degli sguardi" è un piccolo gioiello che va letto per lasciarsi emozionare dal racconto dello scrittore, che dà a noi lettori il privilegio di entrare in un periodo della sua vita, di provare a fare nostri i suoi sentimenti, i conflitti, le fragilità, quella sensibilità così spiccata che a volte è stato di grazia ed altre un fardello, di entrare in casa sua e respirare l'atmosfera carica di tensione, amarezza, ma anche di fiducia, di attesa, nella speranza che qualcosa cambi in meglio. Combattiamo, interiormente, insieme a lui quando avvertiamo che la voglia e il bisogno di bere si fanno sentire e ci ritroviamo quasi a sussurrare: "Resisti, Daniele!".

Entriamo con lui al Bambino Gesù, nei vari reparti da pulire da cima a fondo, in compagnia dei colleghi, ad assistere agli scherzi, alle battute, alle pacche sulle spalle, ai silenzi e alle piccole incomprensioni.

Lo vediamo cambiare, aprirsi, fare i conti con sé stesso, con le sue paure, con quei demoni che gli urlano dentro, e scoprire che in quell'ospedale finalmente si sente parte di qualcosa: là ritrova l'amicizia, la ricchezza di gesti fatti per puro piacere; conosce il dolore nella sua essenza più profonda e questo - al contrario di ogni previsione fatta da egli stesso - invece di rilanciarlo in un baratro, diventa la via per uscirne.
Vivo e con nuove consapevolezze.

Sono arrivata alla fine con un groppo in gola per la commozione.
Avevo già incontrato Mencarelli in "Tutto chiede salvezza" e mi aveva regalato molte ed intense emozioni, e anche tra queste pagine è accaduta la stessa esperienza empatica; il suo modo di raccontare è genuino, immediato, onesto, "sentito", intimo, capace di mettere a nudo i pensieri, le emozioni e le inquietudini più profonde, le parole sono piene di forza espressiva e questa sincerità, questa carica di pathos così autentica e potente, mi ha coinvolta emotivamente dalla prima all'ultima pagina.

Leggetelo.  

giovedì 12 maggio 2022

RECENSIONE: ** IL DIRITTO DI OPPORSI di Bryan Stevenson **



Combattere contro l'ingiustizia, il pregiudizio, l'indifferenza, la mancanza di pietà verso persone distrutte (a volte dai propri errori e dalle proprie scelte, ma altre dallo stesso sistema giudiziario), che la vita ha abbondantemente messo alla prova: questa è la missione del'avvocato Bryan Stevenson, che da anni porta avanti la sua battaglia con coraggio e passione.


IL DIRITTO DI OPPORSI.
Una storia di giustizia e redenzione
di Bryan Stevenson


Fazi Ed.
trad. M. Zurlo
416 pp
Fresco di laurea, il giovane avvocato Bryan Stevenson si trasferisce a Montgomery, in Alabama, e fonda la Equal Justice Initiative, un’organizzazione senza scopo di lucro impegnata ad aiutare le persone nel braccio della morte, a fare qualcosa per le condizioni dei carcerati e per le pene eccessive, a liberare le persone condannate ingiustamente, a porre fine all’incarcerazione di massa, a sfidare l’ingiustizia razziale ed economica e a proteggere i diritti umani fondamentali delle persone più deboli e vulnerabili. 

In queste pagine, l'autore ci racconta i primi tempi dopo la laurea, la sua formazione e in che modo, grazie al grande impegno suo e dei suoi collaboratori, abbia difeso tantissime persone chiuse in carcere, svelando non solo errori giudiziari ma anche cospirazioni, macchinazioni politiche, inganni legali e razzismo diffuso.
Convinto che...

"Ognuno di noi è ben di più dell’atto peggiore che possiamo aver commesso."

...Bryan fa di tutto per dare ai suoi clienti la possibilità di ricevere giudizi e condanne che siano giusti ed equi, ragionevoli e adeguati ai misfatti e ai crimini commessi, tenendo presente tanti fattori importanti e dei quali la giustizia dovrebbe tener conto nel comminare la pena.

Nella sua lunga carriera legale, si occupa moltissimo di minori (anche di tredici anni) che hanno commesso dei reati (non necessariamente omicidi) e per i quali hanno ricevuto condanne davvero pesantissime, come l'ergastolo.

Tra i casi più celebri di cui si è occupato, figura quello di Walter McMillian, un afroamericano condannato a morte per l’omicidio di una ragazza bianca, nonostante innumerevoli prove dimostrassero la sua innocenza; e non prove irrilevanti, ma le precise testimonianze oculari di persone che avevano visto l'accusato, nell'ora dell'omicidio, in un altro paese e a fare altro. Ma purtroppo le pur dettagliate e circostanziate testimonianze di queste persone sono state volutamente ignorate e/o ritenute poco attendibili (!).
Per di più, per condannarlo è stato preso in considerazione il racconto di un uomo che, verrà fuori nel corso del tempo, ha sempre mentito, dichiarando il falso circa la presenza e il ruolo di Walter nell'omicidio di cui è incriminato.
Non sarà una passeggiata per Stevenson dimostrare la verità e, al contempo, le falle di un sistema giudiziario che sembra a volte agire più per pregiudizi e con faciloneria e approssimazione, che per prove reali.
Purtroppo, sarà sempre più chiaro come i rappresentanti delle forze dell’ordine si fossero concentrati sul voler condannare Walter a tutti i costi tanto da essere pronti a ignorare, o persino occultare, le prove che contraddicevano il caso da loro formulato.

Frequentando i carcerati nel braccio della morte, Stevenson si rende conto di come la maggior parte di essi non aveva né un avvocato né diritto a un difensore d’ufficio. In pratica, il diritto di difesa si annullava.

Non solo, ma nell'incrocio con tanti casi drammatici di cui si occupa con devozione, lealtà, sacrificio, tocca con mano - e non senza lacrime ed angoscia - come la prigione e il carcere siano diventati una strategia messa in atto dallo Stato stesso per gestire la crisi sanitaria prodotta dall’uso e dalla dipendenza da droghe; questo ha fatto sì che i penitenziari si riempissero di detenuti affetti da patologie mentali, colpevoli di reati minori e crimini legati alla droga.
E ovviamente, il carcere è un luogo terribile per tutti e, ancor più, per chi soffre di malattie psichiatriche o disturbi neurologici, sia in termini di cure che anche "soltanto" per il trattamento da parte delle guardie penitenziarie, solitamente impreparate a comprendere e gestire situazioni delicate come queste.

Nel caso poi di minori, Bryan ci fa notare come lo stato psicologico vada preso assolutamente in considerazione perchè è ovvio che essi non possiedano un giudizio maturo, una capacità di autoregolarsi e un senso di responsabilità adeguatamente sviluppati: essendo vulnerabili alle influenze negative e alle pressioni esterne, non riescono a controllare i propri impulsi e l’ambiente che li circonda, ed è facile che commettano azioni che non dovrebbero e che li mettono in guai seri.

Spesse volte, gli avvocati si ritrovavano a chiedere ai giudici di riconoscere come certe condanne non dovrebbero neppure essere applicabili ai minori (inferiori a una certa età) proprio perché sono creature ancora incomplete, in formazione.
Applicare l’ergastolo senza condizionale ai bambini e condannare i minori violava il diritto internazionale!

A questo si aggiungeva la componente razzista: queste sentenze ingiuste e abnormi venivano applicate in modo sproporzionato quando si trattava di minori di colore. 

Un altro urgente problema sono le troppe morti nelle prigioni locali e nei penitenziari: ogni anno, muore un gran numero di carcerati per suicidio, violenze tra detenuti, assistenza medica inadeguata, abusi da parte del personale e soprusi degli agenti penitenziari erano centinaia.

È necessario riformare il sistema di giustizia penale che continua ad operare profonde discriminazioni,  trattando meglio le persone ricche e colpevoli rispetto a quelle povere e innocenti, negando ai poveri l’assistenza legale di cui hanno bisogno.

Per non parlare poi del fatto che un gran numero di coloro che vengono scarcerati dopo essere stati riconosciuti innocenti non ricevono né soldi né assistenza né un supporto psicologico: nulla di nulla da parte dello Stato che le ha ingiustamente imprigionate. Oltre al danno, la beffa.

Il diritto di opporsi esamina molto da vicino le incarcerazioni di massa e le pene estreme in America, dove le persone vengono giudicate fin troppo superficialmente, senza tener conto delle circostanze della loro vita, ma anzi, addirittura sfruttando l’impossibilità dei poveri di ottenere l’assistenza legale di cui hanno bisogno. 
"La vera misura del nostro carattere è data dal modo in cui trattiamo i poveri, gli svantaggiati, gli accusati, i carcerati e i condannati."

La narrazione è dettagliata, riporta molti casi specifici trattati da Stevenson, tutti i suoi sforzi per far sì che ci fossero modifiche importanti nelle leggi penali, ma questo non rende il resoconto freddo e distaccato, tutt'altro: Stevenson non esita a esprimere i sentimenti provati, le tante emozioni - rabbia, angoscia, paura, speranza, scoraggiamento... -, e soprattutto le proprie sincere convinzioni, che l'hanno spinto a dedicare anima e corpo e tempo in questa lotta, senza risparmiarsi.

"...la mia vita non era altro che un cumulo di distruzione. I miei clienti erano distrutti da 
Bryan Stevenson
 patologie mentali, povertà e razzismo. Erano devastati da malattie, droghe e alcol, orgoglio, paura e rabbia."

Sì, distrutti, e come se non bastasse, anche giudicati e condannati da persone che hanno messo da parte ogni umana pietà per farsi soffocare dal cinismo, dalla mancanza di speranza e dal pregiudizio.

Perché un uomo come lui ha deciso di votarsi a questi sfortunati, a dei reietti, abbandonati dalla società e da essa ritenuti degli scarti senza importanza?

"...quello che faccio non lo faccio perché è dovuto, necessario o importante. Non lo faccio perché non ho scelta. Faccio quello che faccio perché anch’io sono distrutto. (...) Non si possono combattere in maniera efficace gli abusi di potere, la povertà, le ineguaglianze, la malattia, l’oppressione o le ingiustizie e non rimanerne distrutti. (...)  ciò che ci rende umani è proprio il fatto di essere distrutti. Abbiamo tutti le nostre ragioni. A volte veniamo incrinati dalle scelte che compiamo; a volte finiamo in pezzi per cose che non avremmo mai scelto. Ma la nostra distruzione è anche la fonte dell’umanità che ci accomuna, la base per la nostra ricerca condivisa di un conforto, di un significato e di una guarigione."

Emerge tutta la sensibilità di quest'uomo, la grande empatia verso dei disgraziati chiusi dietro le sbarre, ai quali egli si è avvicinato per poterli capire ed aiutare al meglio delle proprie possibilità, e come era immane la gioia per ogni successo, altrettanto forte e grande era la sofferenza di fronte ai fallimenti, in particolare quando questi significavano ergastolo o pena di morte.
Bryan Stevenson, prima che un avvocato, è un essere umano che ha fatto della sua professione una ragione di vita, una missione, una via e uno strumento per rendere questo mondo un posto migliore, cercando di alleviare le sofferenze di una categoria di persone troppo spesso dimenticata e disprezzata: i carcerati.
Bryan sa cosa sia la pietà, non quella fatta di parole di circostanza e di sterile vittimismo, ma quella genuina - che può guarire le ferite, fermare la violenza, gli abusi - e potente, in quanto esercitata a beneficio di chi non la meriterebbe ma che si riconosce bisognoso di redenzione.

Un libro che ci permette di acquisire molte informazioni interessanti (e ahimè, tristi e drammatiche) sul sistema penale americano, di conoscere casi che inevitabilmente provocano emozioni contrastanti (rabbia, senso di ingiustizia, amarezza, speranza, sollievo...) ma ci consola pensare che ci siano al mondo persone come Bryan Stevenson, che non girano la testa dall'altra parte davanti al marciume, agli sbagli, alle discriminazioni, ma che lottano con concretezza e passione per amore verso il prossimo e per la verità.

Consigliato a chi ama le storie vere, a chi è attratto da casi giudiziari, di ingiustizia e discriminazione razziale e sociale. 

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