«Ti chiamavano sognatore perché hai sempre fabbricato ali, invisibili agli occhi degli adulti, per le parole.».
Poeta tra i migliori del Novecento e, senza dubbio, colui che ha dato voce al popolo palestinese, che ha fatto della scrittura un mezzo per parlare delle sofferenze sue e dei suoi connazionali, Mahmud Darwish è stato "testimone eloquente dell'esilio e dell'appartenenza" (Naomi Shihab Nye).
Nato nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, che fu distrutto dalle forze israeliane nel 1948 quando fu formato lo Stato di Israele, Darwish fu testimone dei massacri che costrinsero la sua famiglia a fuggire in Libano; quando un anno dopo essi ritornarono da clandestini in patria, furono considerati dei «‘presenti assenti’ perché non avevamo diritto a nulla.»
«Eccoci di nuovo in Palestina. Dunque era, quello, il ritorno. Non potevamo sapere che da profughi in Libano ci saremmo trasformati in profughi in patria. Non potevamo sapere che la nostra presenza fisica in patria sarebbe diventata assenza nella legge imposta dagli invasori in tutta fretta. (...) Che cos’è più doloroso: essere profugo in un’altra terra o nella tua?»
Patria, identità, senso di sradicamento, esilio, espropriazione, perdita della cultura nazionale, trauma dovuto allo sfollamento, perdita di amici e parenti, l'orrore della violenza...: sono temi ricorrenti nelle memorie e nelle poesie dello scrittore arabo, il cui stile è andato modificandosi negli anni, passando da un modo di fare poesia proprio dello stile arabo tradizionale ai versi liberi per cui è noto e apprezzato.
Ed. Feltrinelli E. Bartuli (a cura) trad. R. Ciucani, E. Bartuli 4167 pp 12 euro |
Nei suoi scritti (in versi e no) vediamo formarsi l'immagine del palestinese non più e non solo come eroe e vittima, ma ancor prima come essere umano che desidera e ha diritto, come ogni uomo, ad una vita normale, semplice, ordinaria.
"Abbiamo nostalgia di esercitare la nostra umanità in un posto che sia nostro.(...) La differenza tra paradiso perduto nel senso assoluto del termine e paradiso perduto nel senso palestinese risiede nel fatto che la nostalgia e l’appartenenza psicologica e giuridica nel primo sono privi della dimensione conflittuale del secondo. Finché dura la battaglia, il paradiso non è perduto, anzi è occupato e riconquistabile."
Ritorna di sovente sul concetto di patria: patria è la tua identità, è la tua vita; è il desiderio di morire per recuperare terra e diritto.
"Non gli è bastato impadronirsi di tutto. Vogliono impadronirsi anche del tuo senso di appartenenza per diventare la realtà tra te e la patria."
La patria non è solamente un luogo geografico, ma anche uno stato interiore ("Né gli alberi sono solamente alberi, ma costole d’infanzia e pianto colato dalle punte delle dita"), è custodire la memoria, quella memoria palestinese che i sionisti si sono prefissi di combattere e seppellire per sostituirla con la memoria ebraica, israeliana, basata sulla rivendicazione del diritto della terra di Palestina ed incapace di riconoscere il diritto altrui e di apprezzarne il senso della memoria.
"Gli israeliani rifiutano di convivere con la memoria palestinese, rifiutano di riconoscerla".
Darwish scrive che alimentare la memoria israeliana ha avuto da subito un intento politico ben preciso, dopo la seconda guerra mondiale e la tragedia immane dell'Olocausto: convincere gli israeliani che la minaccia dello sterminio non era un ricordo, anzi era ancora presente, per cui per evitare altre persecuzioni e poter vivere in sicurezza, era necessario tornare e rifugiarsi in “terra d’Israele”; in pratica, sostiene il poeta, ai palestinesi e a qualsiasi altro arabo è stato "imposto "di pagare il prezzo di crimini che non hanno commesso, come una sorta di "risarcimento dell’Olocausto".
Ma in realtà svuotare di arabi la Palestina, lungi dall'essere frutto di una misura d’emergenza dettata dalle circostanze, è stata una precisa strategia sionista già da prima della creazione dello stato di Israele.
Darwish parla anche di resistenza e lotta: la patria stessa è lotta e non puoi non combattere per ciò cui appartieni e che ti appartiene.
Ripercorrendo la storia di come è sorto lo stato d'Israele e della conseguente Nakba per i palestinesi, il poeta rammenta episodi drammatici come il massacro Sabra e Shatila o quello di Kafr Qasim: "gli abitanti di questo villaggio, calpestato e ignorato, non hanno mai fatto niente per suscitare la rabbia di qualcuno (...) sono morti per accrescere il nostro odio contro l’oppressione e l’usurpazione, per accrescere la nostra devozione alla terra. (...). Per cosa sono morti dunque? Non per noi, ma per gli assassini. Per far sentire i sionisti capaci d’interpretare nella storia un ruolo diverso da quello di vittima. Per dimostrare loro che possono provare piacere a uccidere. “O sei l’assassino o sei la vittima.” Questa è la scelta obbligata che si sono trovati davanti."
Darwish denuncia, quindi, i crimini commessi da Israele contro i civili arabi, azioni che costituiscono la prassi della peggiore tradizione sionista.
Eppure, di massacro in massacro, il suo popolo va comunque avanti, si moltiplica in mezzo alle macerie, alza il braccio nel segno della vittoria, aggrappandosi alla patria con le unghie e con i denti.
La poesia è stata per Darwish un mezzo per dire la verità, per rispondere agli invasori, per nutrire e tener vivo l'amor patrio.
E se è vero che la lingua costituisce un elemento fondamentale dell'identità di ogni persona, allora lui non può che servirsi della propria lingua - quella parlata in Palestina -, l'arabo, per mantenere la propria identità nazionale: la lingua come una "casa" non solo per i palestinesi, ma anche per tutte quelle persone nel mondo che sono esiliate, sfollate o alienate.
L'esperienza personale dello scrittore si identifica con quella del suo intero popolo, raggiungendo però anche una valenza universale.
È un libro intenso e denso, pieno di metafore (legate agli elementi naturali) e immagini poetiche che si rifanno all'Antico e dal Nuovo Testamento, alla letteratura araba classica; c'è una continua interazione tra narrativa e discorso lirico; l'autore utilizza ampiamente la forma del dialogo e di immaginarie conversazioni, il che contribuisce a coinvolgere a livello empatico il lettore; le parole sono il veicolo privilegiato per esprimere sentimenti e pensieri, e attraverso la raccolta di memorie autobiografiche di questo straordinario scrittore e poeta ci arriva il grido di ribellione di un intero popolo, la sua resistenza contro l'oppressione, le continue frustrazioni di un'esistenza costantemente sotto assedio e sotto occupazione, il racconto della perdita e di un dolore intensi e strazianti.
Una lettura impegnativa ma necessaria, che vi consiglio.
« La Palestina resta la tua patria. È una carta geografica, un massacro, una terra, un’idea. È la tua patria. Nessun pugnale riuscirà a convincerti che è loro.»
«Nessuno riuscirà a nasconderti il dolore, che si vede, si tocca, si sente come il sonoro infrangersi del luogo. Eccoti qui con noi a guardare il dolore che, in un colpo solo, ci saccheggia di tutto e si sfila sadico da noi come la lama di un coltello, poi si siede sulla sponda opposta del fiume, barriera divenuta parola pietrificata. Il dolore trascorre le notti assieme a noi, ululando da lontano come le sirene: “Venite da me, venite”. Noi non andiamo né torniamo. In questo giorno maciullato dai cingoli del carro armato, non abbiamo più bisogno di miti: quel che accadeva in essi, ora, accade a noi. Chi racconterà la nostra storia? Di noi che camminiamo sopra questa notte scacciati dal luogo...»
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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz