Paula Fox orienta lo sguardo del lettore sulla quotidianità di una coppia che, schiacciata dal peso della noia, dell'abitudinarietà e dello stress di ogni giorno, non sa più comunicare, comprendersi, accogliersi.
Un evento apparentemente insignificante incresperà le acque chete e noiose della loro vita a due.
QUELLO CHE RIMANE
di Paula Fox
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Fazi Editore trad. A. Cogolo 202 pp |
Sophie e Otto Bentwood sono una coppia di mezz'età senza figli; lui è avvocato, lei lavora (saltuariamente) come traduttrice.
La sensazione che si ha da subito, nell'entrare nella loro casa, è di una vita famigliare monotona, piatta, priva di grosse emozioni e sorprese; quello tra i due coniugi dà l'idea di un rapporto annoiato, se non logorato quanto meno "stanco", scialbo, in cui a regnare è l'incomunicabilità.
Otto e Sophie non sanno parlarsi né tanto meno ascoltarsi; i loro dialoghi mi son parsi non dico surreali ma sicuramente irritanti e frustranti: l'uno sembra tapparsi le orecchie e non sentire ciò che dice l'altra, soprattutto se l'argomento è "scomodo" o fonte di tensione o divergenze d'opinione.
Spesso si parlano alzando la voce, manifestando nervosismo, fatica a sopportarsi; quasi sempre uno dei due - di fronte al menefreghismo e all'atteggiamento supponente del coniuge - deve arrendersi e non insistere, cambiando argomento o fingendo a sua volta indifferenza, ma in realtà accumulando risentimenti.
Lo so, mi rendo conto di non essere stata molto generosa con questa mia presentazione, ma è l'aria che si respira tra le loro mura.
Siamo a New York, verso la fine degli anni Sessanta; a ben guardare, Otto e Sophie Bentwood sono una coppia come tante e, a loro merito (ammesso che lo sia), va detto che nulla sembra scalfire la loro serenità di gente borghese.
Eppure, un pomeriggio, qualcosa di imprevisto accade. Benedetti imprevisti! Certe volte ciò che non ci aspettavamo e che va a creare frizioni e agitazione, potrebbe rivelarsi un evento positivo che dà un necessario scossone a una placidità che è sintomo di apatia!
Ebbene, a creare problemi è un gatto randagio, insistente visitatore alla ricerca di cibo.
Sophie, nonostante il marito sia di parere contrario, dà da mangiare alla bestiola, che però - che ingrato! - l'aggredisce, mordendola a una mano e procurandole una leggera ferita.
Questo incidente, apparentemente sciocco e di scarsa importanza, innesca una strana reazione a catena: nell’arco di un weekend, la ferita di Sophie si fa sempre più preoccupante, la mano si gonfia e diventa rossa e dolorante; la donna cerca di restare razionale e lucida, di ostentare disinteresse e tranquillità ma in realtà dentro di sé è preoccupata e turbata.
E se la ferita dovesse peggiorare?
Otto, dopo una prima reazione di calma, si rende conto che quel morso è da far vedere a un medico: e se il gatto fosse affetto da rabbia e fosse necessaria un'antitetanica?
Mentre i due cercano di mascherare (ma perché, poi? Perché restare lì ad arrovellarsi il cervello sulla gravità della cosa invece che togliersi ogni dubbio andando in ospedale? Cosa spinge due adulti a comportarsi così? La paura di affrontare un problema serio e imprevisto?) le personali preoccupazioni - e di tranquillizzarsi l'un l'altra sminuendo la ferita -, altri piccoli episodi turbano la vita della coppia, come ad esempio i cattivi rapporti di Otto con il proprio collega Charlie.
Le pagine ci scorrono davanti e osserviamo marito e moglie mentre si urlano, si fraintendono, si innervosiscono, si chiudono nei propri silenzi ed elucubrazioni mentali, che non fanno che rendere il muro tra loro sempre più alto.
Li guardiamo, proviamo a capirne le motivazioni, i sentimenti, i desideri, le paure, i blocchi emotivi, ma non è facilissimo perché sono impenetrabili e hanno modi di ragionare ristretti e, forse, un tantino bizzarri; ingigantiscono e fanno drammi su bazzecole, non sanno gestire le contrarietà e quel vago senso di insoddisfazione, scontentezza, saltano su per un nonnulla, quando invece basterebbe fermarsi uno di fronte all'altra, guardarsi e parlarsi con sincerità, ritrovandosi.
Otto e Sophie vivono l'uno accanto all'altra da anni, si conoscono (o credono di conoscersi) a menadito, sanno prevedere reazioni, parole, silenzi, sospiri, rispostacce..., ma al lettore non sfugge come ciascuno sia ben murato nella propria roccaforte e non sappia chiedere aiuto e comprensione, né darne, di conseguenza.
Il grigio è il colore dominante di questa coppia di borghesi vicini ma lontani, perso ognuno nei propri pensieri, rimpianti e crucci; non c'è nulla di nuovo a rinvigorire il rapporto, sono esasperati ed esasperanti, pronti a sputarsi accuse reciproche; ci sembrano infelici, inappagati, scostanti, indolenti, sopportano a malapena la presenza del coniuge, pur non potendo immaginare la vita senza l'altro.
Questa insipidità si riversa su ogni altro aspetto della vita della coppia: lo sono i loro amici (banali, sgradevoli, superficiali, enigmatici, demotivati, tra il depresso e l'euforia sospetta), i luoghi e le case (descritti con una minuziosità esasperante che, alla fin fine, nulla aggiunge alla storia), i dialoghi e le interazioni con gli sconosciuti (passanti, medici...): l'autrice ci trasmette tutta la passività e la languida indolenza che scorre in queste persone e nella loro quotidianità.
A me Otto e Sophie hanno fatto pensare a due persone che stanno affogando pian piano e che sono incapaci di chiedere aiuto, pur urlandosi addosso e arrabbiandosi tantissimo (le emozioni le hanno pure loro, come tutti, ma scarseggiano in intelligenza emotiva); mi hanno comunicato sostanzialmente due tipi di sentimenti: ora irritazione per la loro apatia, ora pietà per la loro infelicità.
La questione del morso accompagna i Bentwood per tutto il tempo, condizionandoli e costringendoli a rimettere in discussione non solo il loro matrimonio, ma anche la loro stessa esistenza, e forse quel maledetto morso potrebbe, seguendo percorsi inspiegabili, costituire un motivo per riavvicinarsi davvero e salvarsi reciprocamente dai dubbi, dal piattume, da una pericolosa abitudinarietà che finirebbe per soffocarli e allontanarli.
Il mio parere su questo romanzo, ahimè, non è positivo perché ho faticato ad avanzare nella lettura in quanto la trovavo poco stimolante in ogni aspetto:
- nell'argomento in sé: la cosa più interessante è proprio il morso... e non lo dico per fare dell'ironia, ma davvero... Leggevo ed aspettavo sostanzialmente di capire come si evolvesse la ferita, quasi aspettandomi un dramma che portasse un po' di movimento nella storia;
- per come è trattato e per la psicologia dei personaggi: io amo i romanzi incentrati sulle relazioni di coppia/famigliari, sulle loro dinamiche complesse in cui emergono fragilità, paure, insicurezze..., ma non sono riuscita ad entrare in sintonia con i protagonisti, con le loro vicende; non hanno personalità affascinanti e mi hanno per lo più seccata, quasi infastidita, per i loro atteggiamenti privi di energia, carattere e volontà; ripeto, il massimo dell'empatia l'ho provata attraverso il sentimento della pietà... (per la loro tristezza e infelicità, individuale e di coppia);
- le battute tra i protagonisti, e tra loro e i personaggi secondari, non hanno contribuito a creare dinamicità, a sostenere il ritmo narrativo, anzi...
Ecco, per onestà intellettuale va detto, però, che - a prescindere dal mio personalissimo impatto emotivo e su come questo condizioni il mio ritenere il libro godibile o meno - se la Fox ha voluto sottolineare la mancanza di comunicazione nella coppia, il loro essersi persi nel labirinto di un legame e di un'esistenza sempre uguale, priva di stimoli e vigore, annoiata e annoiante, beh allora ci è riuscita in pieno, perché questo mi è arrivato, effettivamente!
Concludendo: sarà stato lo stile, quest'atmosfera un po' borghese-vintage e, passatemi il termine, "ammuffita", o forse sarà stata colpa mia e di una cattiva predisposizione..., non lo so..., ma non posso dire sia stata una lettura che mi ha coinvolta, incuriosita e appassionata. Ahimé.