Abbandonate, tristi, sole, disperate, confuse, smarrite ed impotenti: giunte sull'isola, le donne di diverse età che varcano la soglia dell'ospedale psichiatrico femminile, sono destinate a scoprire che da quelle mura, da quella vita cadenzata sempre dalle solite attività per riempire giornate, settimane, mesi, anni interminabili e sempre uguali, è difficile uscire; ma la speranza ha ali capaci di oltrepassare i muri più alti e apparentemente più impenetrabili.
L'ISOLA DELLE ANIME
di Johanna Holmström
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Beat Ed. trad. V. Gorla 363 pp 11 euro |
C'è una piccola isola al limite estremo dell'arcipelago di Nagu, al largo della costa sud-occidentale della Finlandia: è Själö, nota per la presenza di un lebbrosario prima e dell'ospedale dei matti poi.
Lì, tra le mura di quell'istituto, tante donne sono passate, hanno vissuto, sono morte; alcune se ne sono andate, ma la maggior parte quel posto non lo ha più lasciato, una volta varcata la soglia.
Kristina, Elli, Martha, Karin...: nomi fittizi per storie realistiche, possibili; giovani donne che rappresentano delle tipologie di pazienti ricoverate nel manicomio in quanto ammalate di una qualche forma, più o meno grave, di patologia psichiatrica.
In realtà, si poteva essere portate a Själö per molto meno: vagabondaggio, promiscuità sessuale, carattere ribelle e quindi ritenuto socialmente pericoloso; se poi la presunta pazza era pure povera e la famiglia rifiutava (o non si sentiva in grado) di prendersene cura, il ricovero era una destinazione obbligata.
Si guariva a Själö? La permanenza poteva aver termine grazie a delle dimissioni decise dal medico psichiatra?
Purtroppo, i documenti ci dicono che difficilmente qualcuna delle pazienti veniva ritenuta "guarita", tanto da poter essere mandata via, libera di tornare dai propri cari e alla propria vita.
Già, la propria vita: ma quale vita?
Non tutte le pazienti potevano dire di avere un'esistenza bella, piena, soddisfacente... prima di finire in manicomio; non solo, ma tante di esse si abituavano così tanto alla vita istituzionalizzata da non volerla più lasciare, così l'ospedale di Själö - e, con esso, le "compagne pazze", le infermiere, e poi le attività "ricreative", le cure, l'orto, la lavanderia, il Faro, ecc... - diventava "casa", l'unico posto in cui queste donne ormai si sentivano accettate, autorizzate ad essere ciò che erano senza il timore di venire giudicate o disprezzate, perché tanto lì la malattia e la sofferenza regnavano e accomunavano quelle anime derelitte.
E chi erano esse se non donne spezzate - dalla malattia, dalla povertà, dalla disperazione, dalla solitudine, dall'infelicità... -, che all'interno di quelle mura - guardate con biasimo, compassione o indifferenza da "quelli di fuori" - trovavano il loro equilibrio, la loro tranquilla quotidianità, quella sicurezza che altrove, in un mondo che cambiava a vista d'occhio, lasciando indietro chi era diverso, più "lento" o più "strano", non conforme alle norme e al vivere sociale, non avrebbero mai avuto.
E allora meglio restare là e riempire i giorni, le settimane, gli anni con le cure (che oggi definiremmo non solo sorpassate, ma anche non idonee e, alcune, inumane), i colloqui con lo psichiatra, le medicine da ingerire quotidianamente, le crisi psicotiche con conseguente isolamento e cinghie di contenimento, le attività di cucito, colazioni, pranzi e cene, i litigi con le compagne.
Eppure, non tutte si rassegnavano a restare prigioniere in quell'ospedale per matte: la voglia di fuggire e tornare alla vita di fuori, riappropriarsene e tentare di essere felici come donne libere, era forte e per loro non moriva in quella celletta disadorna che accoglieva le povere pazienti.
L'autrice ci fa conoscere diverse giovani donne, ospiti della struttura. Come già spiegato nel post dedicato alle fonti alle quali la Holmström ha attinto per scrivere il romanzo, questi personaggi non sono realmente esistiti, non con questi nomi e con queste specifiche storie, ma di certo essi sono dei "tipi" di pazienti, e ad essere reali sono il contesto, le metodologie e gli strumenti per curare le malattie, il modo di gestire l'istituto, il rapporto che si instaurava tra le ospiti e tra loro e il personale medico e infermieristico.
Kristina vive a Turku nel 1891 con il suo amore, Einari, con cui ha avuto un figlioletto; lei ha già avuto una bambina (in circostanze tutt'altro che liete), è già "marchiata" agli occhi della comunità come una ragazza non facile, una ribelle, una che "va con gli uomini".
Kristina non ha contatti con i genitori da un po' di tempo, avendo lasciato la famiglia per andarsene con Einari e tentare di costruire un futuro con lui, ma ogni progetto e sogno continuano a scontrarsi con una vita piena di difficoltà, limitazioni, scarse risorse economiche, necessità di accontentarsi di qualsiasi lavoretto pur di tirare avanti.
E quando la povera Kristina si ritrova a dover crescere i figli da sola (perchè Einari accetta un lavoro lontano da casa), la solitudine, l'infelicità, le speranze infrante e la consapevolezza di star fallendo su tutti i fronti (non era meglio restare a casa con i genitori, assicurarsi un tetto, del cibo caldo, delle cose da fare nella fattoria?) diventano un fardello troppo pesante per le spalle di questa ragazza e madre, che non ha nessuno ad aiutarla, a darle conforto, a rassicurarla.
Dal sogno di un'esistenza ricca di prospettive ed opportunità alla triste realtà di giornate noiose, sempre uguali nella loro inutilità, nella loro povertà e nell'accudimento dei bambini, che deve sfamare con le sue sole forze.
Trovare un lavoretto presso una famiglia è già qualcosa, la distrae... ma non può bastare, anzi, ben presto la stanchezza, l'insofferenza davanti ai continui pianti e capricci dei figli (che assumono sempre più le sembianze di un peso di cui vorrebbe sgravarsi), si fanno sentire e finiscono per annebbiarle il cervello.
E così, in una notte di ottobre, una notte terribile e da dimenticare, questa madre commette la peggiore delle azioni.
Dopo, la mente di Kristina si rifiuta di accettare una tale atrocità da essa stessa compiuta e va in uno stato prima di incoscienza e poi di crisi, sottoforma di pianti, strilla, aggressività..., fino a ridursi in uno stato catatonico, in cui la donna rifiuta di parlare, di interagire, di accettare la propria situazione.
Il suo ricovero a Själö va avanti per otto anni, fino a quando qualcosa dentro di lei si ridesta e Kristina pare ritornare alla vita.
Non sarà facile perché pian piano il ricordo del proprio orribile gesto pesa come un macigno sul cuore, i sensi di colpa occupano sempre più spazio, eppure il contatto con la natura e la voglia di non lasciarsi andare hanno la meglio.
Guarirà e sarà pronta a lasciare Själö, a tornare ad un'esistenza serena, come sognava da ragazza?
Sigrid è un'infermiera, giovane e carina, professionale e amante del proprio lavoro, che svolge con diligenza, passione, serietà e molta empatia; è un angelo a Själö, le colleghe la adorano e le pazienti la cercano; è fidanzata, sogna di sposarsi con il suo Frans, anche se purtroppo il secondo conflitto mondiale interviene a mettere sottosopra i piani di tutti.
La sua amabile e necessaria presenza in quel luogo di dolore e malattia è un punto di riferimento: a dispetto di dove si trova, Sigrid ritiene l'isola un luogo di pace, di calma e non ha alcuna intenzione di lasciare il manicomio per lavorare altrove.
Lei conosce tutte le sue pazienti, non dimentica nomi, motivo del ricovero, caratteristiche, disagi...: quando può, offre loro il giusto conforto, fosse anche soltanto una mano sulla spalla, un gesto o uno sguardo; per lei quelle donne non sono delle semplici ospiti dell'ospedale psichiatrico, ma delle persone che sanno cos'è la sofferenza e meritano rispetto e cure.
Quando nel 1934 giunge la giovanissima Elli Curtén (la cui cartella riporta: grave psicopatia, demenza precoce, mitomania, ninfomania), capisce subito che sarà difficile gestirla perché la ragazza non viene da un contesto famigliare disagiato o povero, è lì per la sua condotta deviata (furti, vagabondaggio, minacce...) e non sembra esserci in lei la consapevolezza di essere malata e di aver bisogno di cure psichiatriche.
Elli non accetta che i suoi genitori abbiano permesso il suo ricovero a tempo indeterminato nientemeno che in un clinica per malati mentali e nei primi periodi ha un atteggiamento oppositivo, ma ben presto si rende conto che questo modo di fare non è affatto vantaggioso.
Elli ha davvero una patologia psichiatrica o è semplicemente un'adolescente molto ribelle e poco gestibile?
All'interno della struttura la ragazza porta la sua giovinezza, la sua voglia di vivere, di instaurare rapporti speciali con altre ospiti sue coetanee; e intanto spera che sua madre - la sua mamma che le vuol bene nonostante non sappia dimostrarglielo con eclatanti gesti d'affetto - smuova le acque per toglierla da quel postaccio a cui lei non ha alcuna intenzione di abituarsi.
Elli continua a ripetersi di non essere matta, di non meritare di stare lì in mezzo a quelle donne svitate; la sua vita è fuori da Själö e riuscirà ad andarsene, presto o tardi.
Menomale che c'è almeno Karin a riempire le sue giornate; Karin è anch'ella una paziente giovane ma, a differenza di Elli, lei non reputa l'ospedale un luogo così terribile in cui vivere: sono protette là dentro, accettate, possono trovare il modo di impegnare il tempo o, se vogliono, oziare dalla mattina alla sera; cosa manca loro tra quelle pareti?
- Cosa ti manca Elli?
- La libertà!
"Io amo questo posto (...) È la mia casa. (...) Hai paura della verità, Elli?"
"Forse... sei tu che hai paura? della vita là fuori?"
"Certo che ho paura. Ma una parte di me non vuole nemmeno pensare di cercare di vivere là (...) O meglio, non solo una parte di me. Tutta me stessa. Non c'è niente in me che voglia vivere là fuori in quello che tu chiami mondo".
Ci si affeziona a queste ragazze come a Sigrid, alle loro vicende personali, ai loro umori e malumori, ai sogni, ai pianti, alle promesse, e si prosegue nella lettura sperando per esse un destino meno impietoso e crudele; un destino non già stabilito, ineluttabile, quello stesso che spetta alla maggioranza delle "pazze" dell'isola, ma uno più roseo.
Un destino che preveda parole come speranza, futuro, vita da costruire, rinascita, ricominciare, redenzione, perdono, e non più bagni caldi/freddi, psicofarmaci, ricamo e cucito, cinghie di contenimento, clisteri, camicie di forza, isolamento.
Che ne sarà di loro, in una società in cui i pregiudizi verso le donne ritenute "instabili", isteriche, strane sono troppi e ancora difficili da smantellare, e in un periodo storico che non fa sconti a nessuno, in cui la guerra che infuria in Europa sta per arrivare anche su quel pezzettino di mondo circondato da una natura rigogliosa?
"L'isola delle anime" è un romanzo sulla follia sì, ma ancor prima sulla sofferenza delle donne ricoverate in un ospedale psichiatrico; in queste pagine leggiamo di ragazze che hanno commesso degli errori e che si cerca di "raddrizzare" rinchiudendole in cliniche dove purtroppo le cure sono ancora poco adeguate e poco efficaci...
Leggiamo di ragazze deluse dall'uomo che amavano e sul quale basavano la loro felicità, e che hanno purtroppo pagato un alto prezzo per questa ingenuità romantica.
Sono figlie giudicate "scapestrate", da curare e internare perché in società non ci possono stare, non sanno starci; ma queste figlie hanno anche delle madri e queste ultime ci appaiono in tutta la loro inadeguatezza, con i loro sensi di colpa, col timore di non essere state delle buone genitrici, di non averle amate abbastanza queste figlie un po' "sulle righe", e forse avrebbero potuto fare di più e meglio per evitare che finissero su quell'isola.
Ma è anche la storia di donne come Sigrid, che hanno dedicato la loro vita a quelle povere anime, prendendosene cura e facendo sì che quel posto triste e cupo acquistasse umanità, divenendo una specie di casa per quante, arrivate lì ciascuna con la propria dolorosa storia, fossero stanche, logore, esauste, povere: un luogo in cui provare a smettere di lottare e, magari, riposare, riflettere, pensare a se stesse.
Si potrebbe essere spinti a immaginare Siälö come un postaccio squallido, disadorno, cupo, ma in realtà se c'è un aspetto che la scrittrice lascia emergere è la bellezza della natura che, con i suoi suoni, i colori, i fiori, i frutti, gli uccelli..., offre alle anime dell'isola qualcosa cui aggrapparsi, una fonte di pace in mezzo a tutto quel turbamento, a quella follia, a quella disperazione.
Il finale mi ha commossa perché manda un messaggio di amore, perdono, rinascita, di una nuova linfa da alimentare e della speranza di una nuova vita.
Un romanzo molto bello, che coinvolge dal punto di vista emotivo e che immerge il lettore in un periodo storico e in una realtà difficili, pieni di dolore ma anche di voglia di non arrendersi.