domenica 14 marzo 2021

Recensione: GRACE LO DICE FORTE di Emma Henderson



Grace è incastrata in un corpo "malato", "difettoso", brutto e sgradevole a vedersi, e pur pronunciando in modo incerto suoni inarticolati, la sua voce - prima di bambina, di ragazzina e poi di giovane donna - giunge forte e chiara al cuore del lettore, che la guarda crescere all'interno di un istituto per ragazzi con disabilità fisiche e psichiche gravi, assaporando insieme a lei e al suo giovane amore la voglia di vivere e il desiderio di libertà che gridano dentro di lei.



GRACE LO DICE FORTE
di Emma Henderson


La Tartaruga
trad. M. Premoli
307 pp
Conosciamo la protagonista, Grace Williams, quando ha solo pochi mesi (nel 1947) e la sua narrazione in prima persona di esperienze di vita quotidiana ci rapisce immediatamente e ci fa presagire che quella che ci attende è una  prospettiva franca e genuina, senza peli sulla lingua, tanto più vivace e comunicativa quanto più oggettive e gravi sono le barriere che le impediscono una "vita normale", fatta di relazioni interpersonali, di autonomia nel prendersi cura di sé, di sviluppo di capacità, sogni, desideri.

Grace è affetta da gravi handicap - è spastica, come viene chiamata da coloro che le girano attorno nel corso degli anni - di natura fisica (è anche poliomielitica, ha un braccio rinsecchito e inutilizzabile, la lingua le ciondola di lato, ha una brutta gobba alla schiena) e mentale (ha un grave ritardo, di quelli per cui i medici scuotono la testa decretando: "Non è educabile, è inguaribile, non migliorerà mai". Una sentenza di morte sociale, in pratica).

Trascorre i primi anni in famiglia, sostenuta soprattutto dalla madre, che fa di tutto perché sua figlia possa avere una vita il più  normale possibile. 

Ma la piccola va incontro a crisi sempre più violente, ingestibili, che mettono in difficoltà i genitori, i quali, a malincuore, si arrendono all'evidenza di questa figlia "handicappata" e decidono, quando lei ha undici anni, di affidarla a un istituto psichiatrico. 

Il Briar Mental Institute non è proprio un bel posto: lo capiamo dai primi momenti e ne riceveremo conferma nel corso della narrazione.

Quando i cancelli si chiudono alle sue spalle, per Grace è l'inizio dell'inferno; resterà quasi trent'anni tra quelle mura, dove creature "rotte" come lei, ragazzini senza speranza il cui corpo è tragicamente imperfetto e la cui mente è terribilmente lacunosa, sono costretti a sopportare metodi terapeutici e approcci relazionali da parte del personale assolutamente inadeguati, lesivi della dignità dei fragili ospiti: elettroshock, sofferenze, umiliazioni gratuite, situazioni incresciose di abusi, percosse, punizioni...

Ma inevitabilmente il Briar è anche un luogo che cela in sé una insospettabile vitalità, dove nascono  rapporti di amicizia, gesti di solidarietà e di complicità, scherzi e litigi. 

In particolare, a rendere l'esistenza difficile nell'istituto meno penosa è la presenza di Daniel, un ragazzino epilettico menomato nel fisico (non ha le braccia), che segnerà per Grace una svolta importante. 

Daniel è estroverso, chiacchierone, tenace e romantico, adora Grace ed è premuroso ed affettuoso con lei; diventerà tutto per la piccola Williams: l'amico, il compagno di giochi, il confidente, il primo amore. 

Daniel è un'àncora di salvezza per la protagonista e grazie al dono straordinario della fantasia, la porta via dall'opprimente istituto, in meravigliose città, e le dà una ragione per resistere, per prendersi cura di sé, per imparare ad accettarsi. 

In un luogo cupo, grigio, asettico, anaffettivo come il Briar - dove il personale scarseggia in gentilezza, in premure affettuose, in empatia . un legame sincero e bello come il loro è una stella che brilla nel cielo scuro.

Ed esso ci intenerisce tanto più ci rendiamo conto di quanto orrore possa nascondersi tra quelle mura, dove dovrebbero instaurarsi relazioni di cura, dove questi esserini fragili e malati dovrebbero essere trattati con amore, comprensione, e invece leggiamo scene di abusi e maltrattamenti che ci indignano, ci fanno arrabbiare.

Grace è una protagonista sorprendente attraverso i cui occhi ci scorrono davanti le giornate sue e degli ospiti di questa struttura, e lo è a maggior ragione se consideriamo che ella in realtà non è in grado di parlare fluentemente, anzi; la sua complessa e variegata vita interiore - sentimenti, aspettative, pensieri - cozza con quella da lei concretamente vissuta e percepita nel mondo esterno, dove dagli altri è vista semplicemente come una brutta anomalia vivente, una completa idiota con un corpo da mostro.
Nell'interagire con l'amico e amante, Daniel, è sempre lui che parla, inventa, racconta storie e immagina viaggi ed esperienze; non "sentiamo" la voce di Grace eppure avvertiamo che essa c'è, anche se purtroppo rimbalza contro il muro di un linguaggio che proprio non vuol saperne di uscire da quella sua bocca storta.

Ma, a dispetto di tutto e tutti - delle infermiere scorbutiche, delle insegnanti poco stimolanti, dei dottori irrispettosi e privi di umanità, della famiglia che va a trovarla sì ma, alla fine, sempre al Briar la lascia - Grace scruta, valuta, capisce: dietro quel corpo difettoso, ci sono pensieri eloquenti, osservazioni e ricordi precisi, che ci arrivano con intensità espressiva, coraggio e un'ironia arguta e brillante; non mancano, però, sfumature malinconiche, proprie di chi racconta il proprio vissuto in retrospettiva, com'è il caso di Grace.

Le vicende coprono un periodo di circa trent'anni e attorno a Grace satellitano altri personaggi, da Daniel agli altri ospiti, dalle infermiere ai famigliari.

L'autrice, con schiettezza e autenticità, traduce in parole i silenzi e i borbottii poco comprensibili di questa ragazza speciale, che sente, vede, soffre, ama, spera, e il racconto della sua esistenza ci appassiona perché non c'è vita che non abbia il diritto di essere narrata, anche quando essa viene di sovente, ed ingiustamente, offesa e sminuita.

La Henderson, attraverso la storia di Grace, ha dato voce alla propria sorella maggiore, anch'essa istituzionalizzata per più di trent'anni in quanto affetta da gravi disabilità. 

Un libro che, pur collocando le vicende in un istituto per malati fisici e mentali gravi e mostrandoci come essi spesso venissero (mal)trattati al suo interno, ci parla di vita, speranza, amore, tenerezza, voglia di gridare al mondo "io esisto, sono una persona con un proprio mondo interiore, con dei sentimenti, dei bisogni, non sono la mia malattia, ma molto di più".


2 commenti:

  1. Sai Angela già leggendo la tua splendida recensione ho provato una forte emozione. Il tema trattato è duro ma la vita di queste persone affette da gravi handicap,per quanto diversa,è sempre meritevole di essere vissuta. Dare voce al silenzio di chi soffre è importante. Una lettura impegnativa ma ricca di riflessioni.

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    1. è importante dar voce a chi non ne ha e subisce anche ingiustizie per questo, e ascoltare queste voci speciali ci arricchisce!

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Un buon libro lascia al lettore l'impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. O. Lagercrantz

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